Esseri architettonici ed umani

7 Gennaio 2015

Londra, mattina grigia, forse ci sono alcune sfumature nella nuvola uniforme sovrastante ma non posso esserne certo, in giardino l’erba troppo lunga tende a ingiallirsi, le foglie delle piante sono di tanti verdi diversi. Mi sto riprendendo dall’influenza, dubbio motivo per stare a scrivere qui fuori, ma motivo sufficiente per cercare di mettere insieme le esperienze degli ultimi giorni – penultimi, quelli prima dell’influenza.

 

Atterrati all’aeroporto Valerio Catullo di Verona ci siamo spostati da un parallelepipedo prefabbricato all’altro fino all’autonoleggio, dove il nucleo familiare è stato scisso: io ho la carta di credito, la mia compagna la patente di guida, nostra figlia ha noi, noi non otteniamo la macchina prepagata su internet e dobbiamo prenderne un’altra. Fuor di metafora: carta di credito e patente devono essere intestate alla stessa persona. Rientrando in metafora, per evitare esplosioni non ci dirigiamo subito alla meta ma andiamo prima a Verona, per prenderci il tempo. Sbagliamo strada un paio di volte ma stiamo bene, ci stiamo prendendo il tempo.

 

Intanto racconto a mia figlia di Romeo e Giulietta e l’avventura prende corpo – ora che parcheggiamo la bimba è così esaltata che non vuole lasciare l’ennesimo parallelepipedo, l’autosilo sotterraneo, ma la spuntiamo. Arriviamo alla grande piazza Bra, con la torre dove la mamma aveva rinchiuso Giulietta (sic), un palazzo rivestito di gigantografie di qualche pronipote di Giulietta (sic) dove a stento evitiamo la visita alla fiera degli elettrodomestici (sick), oltrepassiamo i giardinetti e ci avviciniamo alla grande mole dell’Arena. Se qui ci veniva tutta la città, c’erano Montini e Capeti insieme?, mi prende in castagna e le rispondo di sì, ma in aree rigorosamente separate e così distanti che nemmeno si vedevano (sic).

 

 

Poi ci infiliamo in un vicolo pedonale e siamo ovunque. Un negozio dopo l’altro, gli stessi come ovunque. In tutto il centro, studenti americani e turisti. E in parte saranno proprio Montecchi e Capuleti, che hanno reso Verona unica per la nostra avventura familiare, ad attirare così tanto mondo da renderla anonima. Se ci dovessi mai tornare con mia figlia, tra qualche anno, come guida turistica sceglierò Catullo. O Palladio; non cerchiamo neanche la rovina arcaica del suo Palazzo della Torre (né la tomba di Giulietta) e siamo in auto diretti verso Vicenza dove, in mezzo al niente, passeremo due giorni con amici in una sua villa, Villa Saraceno.

 

Sì, due giorni, tre biglietti aerei, due auto noleggiate, poi tutti quei parallelepipedi, la narrativa che diventa retorica, e adesso pure la periferia uggiosa, piatta e brulla, alternarsi di industrie e odore di sterco di maiale. Siamo anche in ritardo. Foschia umida fuori, foschia nevrastenica nella Fiat Panda. Senza navigatore ci perdiamo a Noventa Vicentina, allora come ai tempi chiediamo in un bar e ci disegnano una mappa. La seguiamo e all’ultima curva di colpo spariscono le industrie: uno sterrato, sulla sinistra un muro di cinta tra i campi piani e inodori, grande cancello di legno minimamente lavorato e lì in fondo al prato immenso eccola la villa, il cuore si ferma e l’auto si riempie di calma; l’auto e il cuore ripartono piano e parcheggiamo sul lato destro. Entriamo dal cancello laterale, attaccato alla corte agricola preesistente. Camminiamo sul prato della villa. Il corpo centrale è costituito dal piano nobile, a cui si accede da una scalinata, attraverso la tripla arcata della loggia in parte ancora affrescata e l’alto portone che dà su un’unica sala con un portone uguale sul retro, aperto sui campi. Sopra il piano nobile, un grande spazio che non serviva come sala da ballo ma da granaio, e in cima alla facciata un timpano triangolare. Sul lato sinistro non c’è niente, sul lato destro un loggiato con colonne alte e un solo piano di stanze sopraelevate.

 

Nel Cinquecento Palladio ha saputo ritrovare l’elemento eterno delle architetture classiche – l’essenza, lo spirito, il minimo comun denominatore – e riportare l’eternità in terra. Il senso è di sospensione, ma una sospensione tutta sua: posa sul terreno con un peso uguale alla forza che esercita contro il cielo soprastante. Come una goccia di mercurio che in una provetta spinge contro il liquido più pesante sotto e quello più leggero sopra. La villa non è lieve sulla terra ma se il cielo scomparisse prenderebbe il volo, e viceversa. Però il cielo qui non scompare, è onnipresente, soprattutto sotto forma di foschia e nebbia, ma anche variare di nuvole tagliate da fasci geometrici di sole, accendersi di rosa e di giallo che cambiano il colore della pietra e la fanno risaltare contro il verde umido del prato, il grigio piombo o il lillà tenue del cielo attorno.

 

 

Gli amici con cui siamo qui sono quasi tutti zurighesi, quasi tutti architetti. La prima sera non riusciamo a smettere di entrare e uscire, azzardare considerazioni su struttura, proporzioni, materiali, statica. Nei giorni seguenti saranno quasi tutte sistematicamente smentite. Il loggiato laterale, con quelle proporzioni sorprendenti, è stato ricostruito più volte nei secoli; la compattezza e l’asimmetria sono accidentali, il progetto prevedeva ampie ali laterali e grandi barchesse alle estremità. E nei giorni seguenti visitiamo altre meraviglie palladiane a Vicenza, la sua città; il Teatro Olimpico, il Palazzo della Ragione (dove non possiamo goderci lo straordinario volume della cupola perché ospita una mostra di magliette di giocatori di calcio), la misteriosa casa di Palladio (poi scopriamo che non era casa sua). Vicenza ha qualcosa di strano, piacevole: è vivace, vissuta, non intrinsecamente turistica. Il fatto che probabilmente non abbia bisogno di turismo non basta a spiegare questa sorta di integrità, niente souvenir, niente che accolga il turista in quell’ovunque che lo fa sentire a casa. Sembra abitata dalla gente. E la gente, la presenza umana, è un elemento centrale in Palladio. Scrivo queste impressioni, e andrò a controllarle per essere smentito solo quando sarà troppo tardi. Un esempio, le figure umane: le sue facciate migliori sono spoglie, ma inserisce spesso delle statue. In cima all’enorme cupola del Palazzo della Ragione ce ne sono tre, una per estremità e una in mezzo, alienate e solitarie nel cielo di Vicenza. L’interno del teatro invece ne è pieno, e sono dinamiche e espressive, ma è appunto un teatro – o piuttosto sono il dinamismo e l’espressività, l’incontro tra persone, a essere teatro? Altro esempio, il contesto. I disegni di Palladio sono famosi almeno quanto i suoi edifici, ma nei borghi si percepisce una grande differenza: la prospettiva, l’accostamento, l’ambaradan scindono nettamente figura e costruzione. Nelle ville invece, fuori dai centri, isolate, stagliate contro il niente del cielo e poggiate sul verde del niente, la sospensione è esattamente quella del disegno.

 

Viverci per due giorni dipana le sospensioni che abitano l’animo, si arriva come nel Don Giovanni di Losey, si vive come nei primi film di Antonioni, si riparte in una poesia di Brodskij: «Cosa salva il cuore dal falso in queste regioni piane / è che non ci si può nascondere e la vista può spaziare. / Solo il suono vuole un’eco e la sua assenza gli è tremenda: / lo sguardo non si aspetta uno sguardo di rimando».

 

 

Ed era proprio al rapporto tra illustrazione ed edificio che volevo arrivare – non importa quale dei due sia l’elaborazione dell’altro. Ma mi sono un po’ perso nelle foschie. Il giorno prima di partire da Londra ho visto una mostra al Barbican: Constructing Worlds, un secolo di elaborazioni fotografiche di opere architettoniche, dai dettagli alle città alle periferie alle rovine. La scelta curatoriale, che può rispecchiare un percorso effettivo nell’approccio artistico allo spazio abitato, parte da fotografie abitate, che sia la New York di Berenice Abbott o le periferie americane di Walker Evans, passa alle visioni stilizzate delle Case Study Houses di Shulman e poetiche delle opere di Le Corbusier di Hervé, fino all’astrazione formale dei parcheggi di Ed Ruscha o delle sculture anonime dei Becher. Poi, raggiunto un apice, torna gradualmente verso l’umano. Prima con Thomas Struth che cerca l’elemento oggettivo delle città, sempre vuote e da una prospettiva centrale, poi le fantasmagorie di Sugimoto, per arrivare al pullulare, ma ancora astratto, di Gursky. E poi quel che sembra il presente. La riappropriazione. Il quartiere del riciclaggio rifiuti del Cairo dove la gente vive tra quintali di pattume (Bas Princen), la vita nelle grandi opere di Lumumba in Congo (Guy Tillim), negli edifici distrutti in Afganistan (Simon Norfolk), sotto i nuovi ponti e le nuove dighe lungo il Fiume Giallo (Nadav Kander) o nella gigantesca, non finita e abbandonata Torre David a Caracas (Iwan Baan).

Palladio rappresenta un estremo, la metafisica. Il tentativo di ricreare sulla terra un disegno (nello specifico, l’essenza dell’idea classica di architettura).

 

Mi sembra che un estremo opposto, ultrafisico, sia rappresentato da questi recenti lavori fotografici – e non solo, un buon esempio è il racconto The Yacoubian Building (Cairo) di Alaa Al-Aswany.

Stiamo assistendo alla riappropriazione di un’idea. In Egitto, Cina, Congo, Afganistan, Colombia, edifici che rappresentano una concezione occidentale del progresso vengono occupati e trasformati da chi li occupa.

A livello artistico, le immagini vengono invase dalla popolazione, in maniera massiva se osserviamo in quanti fotografi diversi questo avviene contemporaneamente.

 

A livello di orientamento del mondo – e basta pensare alla catastrofica estate 2014, Ucraina, Siria, Iraq – si assiste alla sconfitta del modello occidentale. Modello che, con rinnovato vigore dopo l’89, dopo l’11 settembre, impugna in maniera assolutistica i suoi successi – benessere, democrazia, diritti umani – sorvolando sulle ingiustizie che li hanno resi possibili – colonialismo, schiavitù, prima industrializzazione – per esportarli a forza (di propaganda quando basta, economica o bellica quando non basta) in regioni del mondo che vengono messe in scacco dall’impossibilità di coniugare le aspirazioni occidentalizzanti con le condizioni necessarie per realizzarle. Fatto confermato perfino dall’«Economist» che in settembre, analizzando dati forniti dalla Banca Mondiale, ha affermato che a gran parte delle economie in via di sviluppo ci vorranno più di 300 anni per raggiungere livelli occidentali.

 

Enormi costruzioni come idee calate nel deserto. Ma il deserto, che a differenza della campagne vicentine è gremito e bisognoso, si riappropria delle costruzioni e lotta contro le idee. Perché la lotta non sia tale sta all’Occidente per primo ritrattare il suo progetto, interrogare le sue fondamenta nei riflessi distanti di capanne di lamiera e grattacieli di vetro, osservare come viene abitata la differenza.

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