Massimo Zamboni. L'eco di uno sparo

25 Aprile 2015

29 febbraio 1944 due uomini procedono in bicicletta su uno stradello in mezzo alle campagne di Reggio Emilia. Sono le 17.45 quando all’improvviso uno di loro viene raggiunto da quattro colpi di arma da fuoco. Cade a terra. I tre sparatori fuggono. Il morto si chiama Ulisse; è uno squadrista, Sciarpa del Littorio, ha partecipato alla Marcia su Roma, segretario politico del Fascio di Campegine. Ad ammazzarlo sono stati i GAP, Gruppi di Azione Patriottica. Con questa scena inizia un libro, L’eco di uno sparo (Einaudi 2015), davvero particolare e unico. A raccontare la storia settant’anni dopo è il nipote di Ulisse, Massimo Zamboni, nato tredici anni dopo l’omicidio del nonno, è stato chitarrista e compositore dei CCCP e dei CSI, due dei gruppi più importanti della scena musicale degli anni Ottanta e Novanta. Insieme a Giovanni Lindo Ferretti ha dato vita a un fenomeno che va ben al di là dell’evento musicale, e definisce anche nell’estetica una stagione di profonda trasformazione del costume e della mentalità giovanile. Zamboni è un uomo di sinistra, se la parola ha ancora oggi un senso, o quanto meno è legato alla memoria attiva della Resistenza, tanto da aver dato vita a una iniziativa legata al 25 aprile, “Materiale resistente”. A rendere ancora più intricata la vicenda è la storia di due dei presunti assassini di Ulisse. Robinson, il nome di battaglia dell’ex partigiano, nel marzo del 1961 uccide l’altro, Muso, sparandogli al petto. Per quale ragione? L’eco di uno sparo è insieme un romanzo famigliare, autobiografia trasposta e anche romanzo giallo. Zamboni ha scritto in modo dolente un bellissimo libro, che possiede il ritmo delle sue canzoni: sincopato, paratattico, e al tempo stesso disteso, una prosa che fa a meno di verbi e connettivi sintattici, e procede per slanci, accelerazioni e improvvise illuminazioni. È una riflessione su un pezzo di storia italiana, emiliana in particolare, che mentre sembra alle nostre spalle, lontana nel tempo, è invece, nelle parole di Zamboni, sempre presente: il conflitto fratricida, che attraversa l’epoca fascista e il lungo dopoguerra, non sembra ancora estinto neppure dopo il crollo del Muro, evento che ha segnato nel 1989 la fine del gruppo CCCP cui l’autore apparteneva.

 

 

Al centro del racconto non ci sono solo gli uomini – la famiglia materna i B. e quella paterna – ma anche le case e i luoghi, gli spazi della campagna: aie, portici, corti, stalle, poderi. I B. sono possidenti, hanno fatto fortuna con il commercio delle carni, all’inizio del Novecento. Tutti fascisti, sin dalla prima ora. Zamboni visita archivi comunali, scorre i registri parrocchiali, entra all’Istituto che si occupa della Resistenza, e ricostruisce il passato degli avi materni e paterni. Alcuni di loro sono squadristi: incendiano case del popolo e cooperative, bastonano e anche uccidono socialisti e comunisti, partecipano giovanissimi a eccidi. Sullo sfondo la terra reggiana, zone umide di nebbia fitta, là dove nasce il Parmigiano Reggiano. L’eco di uno sparo è un piccolo trattato di antropologia emiliana: il modo che hanno gli abitanti di quella terra di andare in bicicletta, vestirsi, stare a tavola, accumulare ricchezza, relazionarsi tra donne e uomini, comandare, rubare e nascondersi, amare e odiare, morire e farsi seppellire. Molto bella la visita finale alla tomba di famiglia dei B., nella città dei morti di Reggio Emilia, dove tutta la parte materna della genealogia famigliare è allineata nel sepolcro in perfetta gerarchia. La storia di Ulisse, una delle tante di piccoli capi fascisti eliminati durante la Repubblica di Salò, s’intreccia con quella dei sette fratelli Cervi, la famiglia emblema della Resistenza. Zamboni ci racconta anche questa vicenda, per arrivare a quella dei due partigiani coprotagonisti: il comandante Robinson, Alfredo Casoli, fabbro, e il vicecomandante Athos Muso, Rino Soragni, macellaio. C’è un pezzo del dopoguerra, con Togliatti che viene a Reggio e cammina per le strade con Robinson accanto. Poi le cose s’intorbidano, emergono doppifondi nella storia di Casoli, vicende solo in parte note, piccole storie che ingrossano il fiume della grande storia sino a scomparire. Le uccisioni seguite al 25 aprile: vendette politiche e personali. Centinaia di persone scomparse. La messa al bando di Robinson, la fuga in Cecoslovacchia di ex partigiani, il processo per l’uccisione dell’ingegner Vischi, dirigente delle Officine Reggiane, in un agguato nell’agosto del 1945. «Il sangue degli oppressi scorre di colore uguale – scrive l’autore – al sangue degli oppressori, mescolandosi ripetutamente, scivolando verso il basso per vie misteriose fino al fiume Po». Il risentimento alimenta i furori di Casoli che esplodono in un altro sparo in quella primavera del 1961. Libro complesso e importante, unico nel suo genere, scritto da un erede che non condivide le scelte dei suoi avi, ma cui si sente unito profondamente – la stessa cosa del sangue – che scandaglia attraverso le parole e i pensieri la natura del suo legame con il passato. «Resta a noi onorarne le differenza. Certo solo gli invincibili possiedono un sangue individuale, incapace di fluire. Questo il segreto della loro mortalità». Con la poesia della sua scrittura Zamboni ha scritto un capitolo della sua famiglia, che è anche quello della nostra storia patria.

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