Sul design per imparare

9 Novembre 2015

Le scuole riaprono le porte alle nuove leve di alunni, alla fine delle ferie d’estate: secondo abitudine si consuma il rito stagionale, angoscioso e lieto, delle generazioni che seguono le generazioni ripetendo gli stessi gesti come fossero i primi, in aule abitate ora come un tempo da schiere di umani cuccioli chini su sudati supporti di scrittura. O di Pinocchi pigri della giovanile indolenza di chi – si scherzava – sta lì piuttosto a scaldare il banco. Che fosse un oggetto pensato, prodotto da qualcuno, quel banco, e frutto di precise scelte (o non scelte) politiche e economiche, ce lo ricorda una piccola mostra comasca sul Design per la scuola, appendice di quella sull’architettura degli edifici scolastici che Triennale Extra propone. E per un caso curioso, che è anche coincidenza da pensare, la piccola mostra si è chiusa al momento giusto – metà settembre – per dar l’idea di continuarsi là fuori, nelle vive frequentazioni dell’Italia delle scuole.

 

Il design per la scuola, veduta della mostra

 

Negli spazi contigui di via Natta gli oggetti-progetti destinati alle aule trovavano posto senza enfasi, accostati l'un l'altro come animali silenziosi: non chiuse forme di merci da contemplare o desiderare, ma personaggi che, ostinatamente, si dichiaravano davvero comprensibili soltanto nell'immediatezza delle pratiche e degli usi – cose da ripensare immerse nella dimensione pressoché cieca del vivere, che ogni mostra non può fare a meno di tradire, offrendo la cosa dell’esposizione come tra parentesi alla fruizione astratta dello sguardo-pensiero. Se esse scontavano il silenzio dell’isolamento artificioso, tuttavia portavano i segni della scuola-officina e delle vite dei bambini, sollecitando il ricordo sornione di cicche minuziosamente appiccicate sotto i ripiani dei tavoli, sbucciature praticate nella fòrmica, profili di legno scheggiati agli orli.

 

 

In questi oggetti il design sommessamente si afferma e non si grida: non si manifesta altro che come pensiero della cosa d’uso; al limite è il progetto della cosa-strumento: dimessa, utile, eppure mai piattamente funzionale, che dà forma e sostanza alla domanda della pubblica utilità e convenienza. Che si fruisce inconsapevolmente, nell’aderenza adatta al corpo e, soprattutto, in quella distrazione che – insegnava Benjamin – accompagna pure il bambino moderno lungo le tante cose da apprendere e sbrigare. Forse il colore, l'odore che aveva quell’arredo ci sono passati accanto nella convivenza della scuola: restano tracce della memoria ora rapprese in reperti di un’infanzia lontana, rimossa, tale che sempre appartiene a qualcun altro. Ed è vero che non ce li siamo mai veramente scelti – né come merci, né come doni – questi banchi compagni, queste sediole che risolvono magistralmente nella sintesi del tubino metallico piegato le esigenze della costruzione seriale: oggetti anonimi anche se se ne conosce perfettamente l’autore – i fratelli Castiglioni con Caccia Dominioni per l’azienda Palini (1960), o prima ancora Giuseppe Terragni per allestire il bellissimo luminoso spazio dell’asilo di Como, da cui sono stati qui convocati. Poi ci sono gli esperimenti degli anni Sessanta e Settanta, con il colore delle plastiche a ergere improbabili castelli fatti di sedie (Zanuso e Sapper), tesi tra il virtuosismo dello stampaggio a iniezione e la fiducia nella forza visionaria del gioco in cui sprofondano i bambini; oppure giochi di costruzione, a scomporre e ricomporre in alfabeti di forme e cromatismi elementari l'idea che tutti abbiamo del tavolo, della sedia (Centrokappa).

 

CentroKappa

 

Altri si propongono come prototipi senza seguito, exempla unici a far segno verso un’educazione che avrebbe potuto e voluto essere diversa: che sapesse farsi occasione e appiglio per un’esperienza finalmente riunificata, intera: il banco apribile proposto da Jacober Matsunaga e Rizzatto per il concorso Mia 1966 – l’ultimo, sembra, dedicato alla scuola pubblica italiana – nella semplicità della proposta funzionale si dichiara strumento per un altro modo di imparare a scrivere-disegnare: disposto in piano o piuttosto dispiegato a cavalletto, come castello di carte, all’apice di quella facile pieghevolezza salda il crinale tra le due culture, altrimenti divise: letteratura e disegno, ovvero la scienza delle scritture insieme all’arte del vedere.

 

Che non si tratti qui soltanto dell'arredo si vede già da queste tensioni a rompere, a mettere in crisi le forme note del banco, della seggiola. Che sia in questione tutto un universo di oggetti che stanno intorno o tra i bambini attori, come tra loro e l'adulto maestro, per facilitarne il dialogo fornendo opportuno supporto ausilio o strumento. Cose fatte di carta – lo scaffale coi libri ricorda l'impegno di Reggio Emilia, di Rodari, e di Enzo Mari – o di legno dipinto in azzurro: pagine da sfogliare e reinventare sempre, ma anche oggetti giocabili nel palmo della mano  – quelli che una ditta con sede in Gonzaga produceva come concreti ausili per apprendere secondo il metodo di Maria Montessori, per sviluppare le facoltà tattili e della manipolazione nell'esercizio di cavare, dall’archivio delle forme geometriche e delle lettere ritagliate, le tessere del bel gioco di imparare. Oggetti leggeri e meravigliosi, anche, come le diapositive originali assemblate da Bruno Munari (Proiezioni dirette, 1954), che sarebbero più fecondamente un invito a rifare l’esperienza della sua curiosità e attenzione per tutto ciò che è inutile e lasciato di lato; un appello a risvegliare immaginazione e invenzione chinandosi su briciole, piume e rimasugli di retino, che la luce affranca e carica di una bellezza insospettata.

 

 

Dal pennino alla penna d’oca, dal gessetto al touch screen, la trasformazione degli strumenti per apprendere e per insegnare sta sullo sfondo, appena accennato, di questa esposizione. Sono però le minuziose pratiche dell’appuntire la matita, del vergare la carta con la punta intinta nell’inchiostro, dell’atteggiare le dita e gli occhi alla percorrenza e alla pressione leggera dello schermo, che andrebbero evocate e interpellate a partire dagli oggetti: per rinvenire quegli intrecci complessi di gesti e modi del comportare che ci segnano e ci destinano come appartenenti a un’epoca, prefigurando i nostri limiti e le nostre stesse possibilità di pensare. Intrecci di pratiche – insisteva Carlo Sini – che prendono dentro e animano le cose secondo abitudini destinate a sparire, e a continuarsi ed estendersi in nuove inclinazioni, nuove pieghe. Tutto ciò chiama a una lettura mai antiquaria o nostalgica, che non si limiti ad annotare la distanza rispetto alla scomparsa del tale supporto, con la curiosità incredula che ci coglie di fronte allo strumento ormai inutilizzabile e desueto. Lettura che insiste invece sull’uso di volta in volta attuale, sulle possibilità e aperture che in esso si giocano e rinnovano, ben oltre le previsioni degli educatori e dei designer, secondo la feconda produttività dell’infanzia. A lei appartiene da principio la capacità del reimpiego e la possibilità di risignificarlo sempre, lo strumento offerto per il didattico scopo: sia il semplice gesso che traccia con immediatezza polverosa le figure di Pitagora e poi sull'asfalto il gioco del mondo, siano le più aggiornate tecnologie delle apps. Ecco perché la domanda su come usarle quelle tecnologie, quegli strumenti vecchi o nuovi, sollecita a volgere strenuamente lo sguardo non sugli oggetti in sé, ma sulle relazioni che essi implicano e rendono possibili, sulle reazioni e gli echi che i nostri quotidiani incontri con loro suscitano sempre. E sulle vie che di lì si aprono, nel va da sé inavvertito del mondo.

 

Allora è chiaro che i modi dell’imparare – e del design che a questo si applica e dispone – schivano i termini compatti, chiusi, della sofisticazione che annichilisce, che chiede adeguamento e ossequio per il mito del servizio completo, fornito a scatola chiusa, secondo l'ideologia di un sistema di produzione e consumo che si impone ugualmente a grandi e piccini. Anzi, al designer può venire il sospetto che altra cosa sarebbe da perseguire e cercare: che il miglior oggetto per la scuola dei bambini sia quello che la scuola rifonda dalle radici, a partire dalle loro anarchiche capacità di spontaneamente organizzarsi, tra curiosità e gioco. Quando una struttura silenziosamente offerta è occasione e risorsa disponibile all’interazione, per esempio: come il computer lasciato alla curiosità degli allievi di strada dalla sagacia di Sugata Mitra, nelle bidonville di New Delhi – allora “Un buco nel muro” è il dispositivo minimo che innesca l’occasione di imparare, uno spiraglio sul vasto mondo scritto, che però basta a suscitare la disposizione naturale all’autoapprendere e dà avvio a un processo spontaneo, ben al di là della pur lodevole utopia di evangelizzazione universale che assegnerebbe sin d'ora "Un computer per ogni bambino" (Negroponte).

 

Sugata Mitra, Hole in the Wall

 

Può forse darsi un design "a misura di bambino"? Un design che s’ingegna a riunire nell'oggetto (progetto) delle sue cure le specificità, la giusta domanda dell'infanzia, col fare adulto che la domanda articola e produce? Design che, domandando di quella misura, misura se stesso: e così riprende contatto con la propria giacitura, il proprio senso nel fare… Come nelle proposte di arredo per le “escuelitas” di Haiti e Santo Domingo – concorso di solidarietà Hispaniola, 2012 – dove importa sì la forma elegante, quasi curiale, e di sagace e pratica riponibilità (Prina e Ragni), ma prima ancora la sintesi e l'intensità del concetto, la ricetta semplice di un oggetto che si suggerisce realizzabile grosso modo così, con tutte le variazioni e gli adattamenti imposti dall'incontro con le condizioni difficili delle botteghe sparse, produttrici in loco (Claudio Larcher). E questa sarebbe già una didattica, un’educazione attraverso e al progetto, rivolta anche ai grandi che allestiscono la scena della scuola, che non è meno teatro del teatro dei burattini: anche la scuola una scena, in cui una compagine di attori si avvicenda e continua la recita ogni anno, ogni mattina, dietro i sipari che ci nascondono le aule e le sottraggono all'attenzione dello sguardo pubblico – complice l’onnipresenza di altri più appariscenti spettacoli, e la stanchezza per cui non sembrerebbe esserci più niente da dire su quel che lì, in classe, accade. Niente che non sia la brutalità cupa del branco, o la paura che preme, per esempio, al fondo dell’eterna diatriba sull’uniforme-costume da indossare in classe: tra libertà e disciplina, tra identità e differenze da affermare o meno per “ogni ordine e grado”.

 

Paco y Paco, di Claudio Larcher

 

 

Brick, di Matteo Ragni

 

Vestirsi per andare a scuola è parte del rito, come insegnava Geppetto al suo Pinocchio nuovo nuovo. Lo si può fare con della carta fiorita o, meglio, indossando il prescritto grembiule, che in una testimonianza di Nanni Strada è dolorosamente memore della divisa che spiana le differenze in nome di una risposta univoca alla chiamata delle dittature. E che però può anche farsi segnale di un'appartenenza, o segno di quella sensibilità che vorrebbe – per il tempo breve e sospeso della scuola almeno – andare oltre l’adulta divisione delle caste e delle ricchezze da ostentare. Per proporre un’uguaglianza dei ceti in azzurro e rosa, dove si è liberi di diventare ciò che si è entro l’armonia di una regola leggera, preordinante i comportamenti leciti e possibili: come la squadratura dispone i giusti margini del foglio, come la siepe cauta e accogliente i limiti del campo dei giochi. Altrimenti, lasciateci la divisa della povertà: quando si è tutti rappezzati e diversi, come a New Dehli, ma tutti ugualmente liberi, sovversivi, allegramente insieme.

 

 

 

La mostra Il Design per la scuola, curata da Daniela Maurer era parte di un progetto più ampio a cura di Massimo Ferrari, con Claudia Tinazzi e Beatrice Gerli, per Triennale Xtra, Di ogni ordine e grado, fino all'11 novembre 2015

 

 

I progetti citati:

Richard Sapper e Marco Zanuso, Seggiola K1340, prod. Kartell 1964

Centrokappa, Sistema Scuola, sistema di arredo per la scuola d’infanzia, prod. Kartell 1979

Aldo Jacober, Naoki Matsunaga, Paolo Rizzatto, prototipo del progetto vincitore del concorso MIA_Mostra Internazione Arredo di Monza nel 1966, esposto qui per la prima volta

Materiale didattico Montessori, 1945-1963

Claudio Larcher - Modoloco design, banco e sgabello Paco y Paco, concorso Hispaniola, 2012

Matteo Ragni con Maurizio Prina, banco e sgabello Brick, concorso Hispaniola, 2012

 

 

Per saperne di più

Sugata Mitra, Hole in the wall

Nicholas Negroponte, OLPC One Laptop Per Child, 2005

Maria Paola Maino, A misura di bambino. Cent'anni di mobili per l'infanzia in Italia (1870-1970), Laterza, Bari 2003

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