Baedeker del pensiero / Dove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo

3 Aprile 2021

Pare che l’esperienza riesca a sopravvivere nelle cose remote, proprio dove si annida la polvere del tempo. Mettendosi in cammino lungo percorsi mirati, a caccia delle tracce del passato, evidenti o nascoste, potrebbe capitare che esse si rivelino portatrici silenti di pensiero. Davanti allo snodo che conduce al fuori tempo del divenire della Storia, tutto ruota intorno a quel vuoto che si crea nelle articolazioni dei periodi, quando la cenere prodotta dalla fiamma notturna attira a sé la riflessione postuma. Il racconto dell’avventura si raccoglie negli interstizi di un tempo che non è lineare, ma che ha la facoltà di riemergere come un fiume carsico da luoghi inaspettati, carichi di vissuti imponenti. Così, dalle tracce lasciate dal tempo si può accedere a tutta una vita.

 

Nel suo libro I luoghi del pensiero. Dove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo, edito da Neri Pozza, Paolo Pagani racconta dei suoi viaggi verso i luoghi dove hanno vissuto ed elaborato il loro pensiero una rosa di filosofi e autori dai nomi importanti per la coscienza occidentale.  Nei brevi capitoli si succedono, a volte da soli, a volte in duetto dialogante Spinoza e Cartesio, Leibniz e Newton, Darwin e Marx, Wittgenstein, Keynes, Heidegger e Arendt, Mann. Dei luoghi che da loro sono stati abitati e frequentati, si delinea una geografia del pensiero capace di avvicinare in punta di piedi lo sviluppo della loro preziosa opera. Sono case allestite come piccoli musei, stanzette oppure edifici tuttora abitati, studioli, rovine, paesaggi remoti, alberghi, botteghe, rifugi montani e piccoli borghi rimasti come allora o del tutto stravolti da cantieri contemporanei che non si fermano mai.

 

Siti dove le loro orme però riescono ad essere riesumate negli oggetti d’uso quotidiano, negli spazi attraversati e nelle testimonianze dirette. Nonostante gli anni o i secoli, per il piacere del visitatore dallo sguardo amorevole e allenato, l’eco profonda di una vasta e variegata espressività di esperienze notevoli riesce a farsi presente proprio osservando questi segni multiformi. Più di un semplice réportage, il racconto dei viaggi intrapresi dall’autore risale a ritroso fino alle radici di una cultura europea che continua a condizionare tuttora la propria concezione del mondo. Quei lasciti sparuti, talvolta artificiosamente ricostruiti, celebrati da targhe, iscrizioni, monumenti talvolta improbabili, eventi e mostre, sono tuttavia la testimonianza di idee tuttora presenti e vive, che si manifestano in un linguaggio invisibile avvolto dall’alone della reminiscenza che Pagani, visitatore puntuale e devoto, riesce a rendere a chiare lettere. 

 

 

Se quelle vestigia sono presenti qui ed ora, lo sguardo rivolto al passato contempla anche il passaggio al presente. Perciò il monumento in bronzo dedicato a Baruch Spinoza, figlio di esiliati, esiliato dalla sua città natale, in realtà ci parla di migrazioni, un tema attualissimo. Il mantello che nella statua di Spinoza avvolge il pensatore, lungo sino ai piedi, è trapunto di parrocchetti, uccellini tropicali che starebbero a significare l’immigrazione straniera. L’accoglienza del diverso, dell’estraneo. Amsterdam, dunque, vista artisticamente alla stregua di un melting pot arricchito da fuori. 

 

Per la loro stessa natura, i siti cambiano col passare del tempo, e se la casa abitata da Karl Marx da bambino a Treviri è ancora dirimpetto alla Porta Nigra, imponente architettura romana del II sec. d.C., invece a Londra, il misero tugurio dove il filosofo lavorò alla stesura del primo volume di Il capitale è diventato un’esclusiva dining room per i manager della City. “Once home to Karl Marx…” recita la pubblicità del locale, ma Marx non poteva lontanamente immaginarselo. La gentrificazione degli slum londinesi o di una qualsiasi metropoli non impedisce a Pagani di rendere vivo ogni ambiente di cui tratta rivelando il passato attraverso l’aura di cui si ammantano le cose — le strade, i paesaggi e le architetture ancora integre, in rovina o non più esistenti.

 Tra le righe riappare il calore di quel milieu che ha visto nascere il pensiero, un pensiero in grado di riecheggiare ancora da quei percorsi, quasi come se si adoperasse il gioco della psicogeografia, caro ai situazionisti. Infatti, sono testi dedicati alla geografia dello spirito perché c’è un’aura in ogni luogo, un linguaggio non detto che s’impara ad ascoltare. 

 

 

 Non manca l’ironia nel descrivere l’immancabile presenza della mercificazione dei personaggi illustri attraverso la vendita del gadget: in occasione del bicentenario della nascita di Marx nei negozi proliferano T-shirt, tazze, paccottiglia trash, statuette di tutti i colori alte un metro nelle vetrine delle gallerie in Nuestrasse, e spille con il volto di Marx, […]. Un redditizio circo consumistico sul quale forse il Moro avrebbe avuto da ridire, vituperando la deriva oscena di certo capitalismo mercantile, la natura mercificata della memoria. Eppure, nonostante l’immancabile gift shop, la casa di Darwin a Down House, rimasta intatta, restituisce il suono dei passi sul sentiero lungo il boschetto intorno all’edificio che veniva percorso ogni giorno dal grande naturalista. Dello studio vi è la descrizione di un intérieur abitato da una panoplia di oggetti: Il tavolo di quercia pieno di pergamene, […]. Ingombro di penne, tagliacarte, forbici. Qui accanto un secondo tavolo, ma tondo, a forma di tamburo e con tanti cassettini, […]: ancora bottiglie, bottigliette, alambicchi e scatoline portapillole riempite di insetti di ogni genere. A chi legge questa moltitudine di oggetti restituisce l’immagine di quel luogo con vivacità immediata, in virtù dello sguardo denso d’incanto posto su di essi dall’autore. Una cura del dettaglio che avrebbe affascinato Benjamin, filosofo e letterato, ma anche collezionista appassionato di oggetti di varia natura.

 

Quattromila kilometri verso la follia, recita il sottotitolo dell’ultimo libro di Pagani, Nietzsche on the road, sempre per i tipi di Neri Pozza, un titolo che ricorda la natura altrettanto errante dei personaggi usciti dalla penna di Jack Kerouac.  È un altro percorso, lungo appunto quattromila km, compiuto per ridisegnare i vagabondaggi effettuati da un Nietzsche errabondo tra Germania, Svizzera, Francia e Italia, in preda all’ansia spasmodica di trovare una sistemazione che si potesse adattare al suo spirito libero, così leale verso la vita. Nietzsche […], una trottola ipercinetica in moto costante che rimbalza da una località all’altra, anima in pena in fuga senza sosta, di mese in mese, mai fermo troppo a lungo nello stesso posto […]. L’andamento ciclico del nomadismo è parte costituente della sua natura. […] “La mia oculatezza è stata quella di essere molte persone diverse in molti luoghi diversi per poter diventare Uno…”. 

 

 

Nei percorsi nicciani ci accompagna, non a caso, un tempo circolare. Cominciano nel luogo natale e terminano nel luogo della sepoltura. Al centro, la frenesia degli spostamenti per l’Europa, descritti in senso non cronologico, ma piuttosto nella forma di una costellazione, una mappa che è un curriculum vitae, direbbe Walter Benjamin. L’erranza di una vita, da un sito all’altro, combacia con una mente apolide che persegue l’essere nomade senza meta, perché per alcune figure straordinarie, radicate in nessun luogo, è l’ambiente che apre al loro ineffabile cosmo interiore. Percorrendo sentieri tra pareti di roccia nell’Engadina o per le strade piane di Torino, Fritz è presente ancora col suo bastone da passeggio, come un’ombra che guida il cammino e che forse potrebbe farci un cenno col capo, chissà… Del resto, il filosofo viandante, da Röcken a Weimar, sempre in contrattempo rispetto alla sua epoca, è una presenza attiva nelle narrazioni di quei luoghi che tuttora annunciano l’incontro con Zarathustra. Luoghi dove egli ritorna, ciclicamente, in percorsi ricorrenti, come nelle estati passate a Sils Maria.

 

A Röcken, dove tutto inizia e finisce, una panchina bianca langue davanti alle tre tombe di Fritz, la mamma e il papà assieme, la sorella. Appena dietro c’è un museino semivuoto, contiene attrezzi da campagna e uno stropicciato libre d’honeur per firmare, volendo, dopo la visita. Un cartello dice Heimatstube, qualcosa come “museo locale”, e trasmette una sensazione di semplicità rurale sommessa, autentica. Un contadino cereo, indifferente a me, zappa un giardino ispido senza fare rumore. […] Viene da pensare sia il capofamiglia dei vicini di casa del pastore Carl Nietzsche. Magari discendono davvero dagli inquilini di centoventi anni fa. Pare che il luogo ispiri proprio questo a chi lo visita: un tempo fermo che però si ripete senza fine e senza variazioni apparenti.

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