Speciale

Gramsci, Schmitt, Bauman / L'agonia del potere

31 Marzo 2016

1. Quello della crisi dello Stato-nazione è, ormai da tempo, un motivo ricorrente. Il suo refrain è diventato insistente soprattutto dopo il 1989, ma come un rumore di fondo ha attraversato tutto il Novecento. Ha animato tanto il discorso delle grande ideologie internazionaliste quanto quello della globalizzazione economica, del libero mercato su scala planetaria. Oggi è proprio quest’ultimo discorso a ripetere con più vigore il motivo della crisi dello Stato (salvo poi ricordarsi dello Stato quando, come in seguito alla crisi del 2008, si è trattato di pagare i debiti delle banche e degli istituti di credito). Ne è la controprova che, in alcuni casi, un certo pensiero anti-capitalista e anti-liberista ha addirittura attribuito allo Stato un ruolo di resistenza, un argine allo strapotere economico – e pertanto la piccola Grecia, proprio in quanto Stato, è diventata la scorsa estate la portatrice di un ritorno della politica. In realtà, credo che sia l’auspicato ritorno dello Stato sia il suo de profundis siano entrambi espressione di una questione politica – o più schiettamente geopolitica – che va ben al di là delle sorti dello Stato. Si tratta nondimeno della configurazione che la politica deve assumere nell’epoca del dominio della ragione neoliberale.

Posta in questi termini – nei termini appunto del dominio di una razionalità di matrice economica che ha assunto prerogative politiche di governo –, la questione di una alternativa “politica” al neoliberalismo è affrontata dal pensiero filosofico e politico o sul piano del potere o su quello del governo. Oppure, detto altrimenti: una tale alternativa si gioca o sul piano delle forme della sovranità o su quello delle forme di vita. Questo dibattito sulla possibilità di una alternativa politica al neoliberalismo – anche se talvolta non tutti i suoi sostenitori usano questi termini o ne sono consapevoli – può essere configurato, in filosofia politica, all’interno dell’alternativa tra teologia politica e biopolitica. Consideriamo la posizione che si può ricondurre alla teologia politica. La sua figura di riferimento è quella del katechon: secondo la Seconda Lettera ai Tessalonicesi di Paolo di Tarso, ciò o colui “che trattiene, frena, rallenta, dilaziona, differisce” l’avvento dell’Anticristo e, al contempo, dell’Apocalisse e del ritorno di Cristo che vincerà definitivamente contro il suo avversario.

Come evidenzia Roberto Esposito, “il suo carattere aporetico sta nel fatto che il katechon, trattenendo il male, impedisce anche al bene ultimo di manifestarsi. […] Per proteggere gli uomini dall’Anticristo, il katechon rimanda lo scontro finale che porterà alla vittoria del bene” [Esposito, 2013, p. 84]. Insomma, nel suo uso politico, il katechon non rappresenta solo un freno all’avanzare dell’anomia, del “disordine”, ma finisce anche per neutralizzare l’eschaton, ovvero la spinta verso la Fine dei tempi e la Giustizia, di cui si sono da sempre nutrite le correnti rivoluzionarie. Per venire a oggi e alla persistenza – più o meno esplicita – della figura del katechon nel dibattito sul “ritorno alla politica” per far fronte al “disordine globale” e per “frenare”, ovvero “regolare”, l’anomia dell’economico, è imprescindibile chiamare in causa colui che nel Novecento ha riportato in auge tale figura teologica per tradurla in termini politici e geopolitici: Carl Schmitt. Innanzitutto, nonostante il katechon compaia in diversi momenti della sua lunga riflessione e anche in accezioni talvolta diverse, è estremamente significativo evidenziare come in Schmitt prevalga la sua accezione “frenante” piuttosto che quella “dilazionante” rispetto al ritorno di Cristo e all’affermarsi del bene ultimo. Insomma, ciò che interessa soprattutto a Schmitt è l’instaurarsi del conflitto, del dualismo amico-nemico – che, ricordiamo, rappresenta per lui il “criterio del politico” –, che il katechon è chiamato a produrre in epoche di “neutralizzazione” della politica, in epoche di “spoliticizzazione”.

In epoche, quindi, come la nostra. Pertanto, l’attribuzione del potere catecontico non definisce soltanto chi o che cosa è portatore dell’istanza politica, ma individua anche il suo nemico, il suo “avversario” (l’Anti-cristo, appunto). Ogni epoca deve avere il suo katechon, così scrive Schmitt nel 1947: “Per ogni epoca degli ultimi 1948 anni si deve poter nominare un katechon. Il posto non fu mai vacante, altrimenti non esisteremmo più. […] Ci sono depositari temporanei, transitori e frammentati di questo compito. Sono sicuro che non appena il concetto sarà sufficientemente chiarito potremo allora addirittura metterci d’accordo sui molti nomi concreti e fino ai nostri giorni” (Schmitt, 2001, p. 91). E Schmitt, lungo l’arco della sua opera, di nomi diversi al katechon ne ha dati, ma il modello resta quello medioevale e cristiano di “impero”: “L’imperium è così qualcosa che si sovrapponeva alle altre formazioni autonome di potere non diversamente da come […] una lingua dell’impero sacra per il culto, provenendo da un’altra sfera, si sovrapponeva alle lingue nazionali” (Schmitt, 1991, p. 47). Che si trattasse dell’impero germanico o della Chiesa o della loro alleanza, per Schmitt il potere catecontico doveva configurare “un dominio su un determinato territorio cristiano e sul suo popolo” (ivi, p. 46).

 

 

È infatti dal momento in cui “è del tutto dimenticato il legame tra impero cristiano e regno territoriale”, è dal momento della “dissoluzione di tali concetti spaziali” (ivi, p. 49) che il potere del katechon diviene inefficace. Soltanto il “nomos della terra” può portare ordine e regolare l’anomos, il “disordine” e lo “sconfinamento” di potenze non radicate sulla terra, senza un territorio definito dal nomos, che possono quindi trasgredire i confini degli Stati e della loro giurisdizione sovrana. Come non riconoscere oggi, dietro alcuni richiami alla necessità di un’Europa politica in grado di “governare” i flussi finanziari e dietro alla denuncia dell’impoliticità della tecnocrazia di Bruxelles, questo paradigma schmittiano? Del resto, lo stesso Schmitt, riferendosi a Tocqueville e alla sua esigenza di “salvare” l’Europa del suo tempo, afferma: “Senza l’idea di un katechon, l’Europa era perduta” (Schmitt, 1987, p. 33). Ma questo ritorno alla terra, ai suoi confini e a un popolo – che caratterizza un certo dibattito sulla costituzione di una “Europa politica” fino a oggi, fino cioè al rafforzamento dei confini europei per “frenare e contenere” l’emergenza migranti – non riguarda soltanto una concezione “statuale” dell’Europa. Anzi, che l’Europa sia considerata ormai impotente a governare l’“ondata migratoria” e le “oscillazioni dei mercati” o, nella sua configurazione tecnocratica e neoliberale, sia diventata l’avversario da arginare, in entrambi i casi è proprio il vecchio Stato-nazione a essere investito di una funzione catecontica. Come dire, rispetto all’impero cristiano di Schmitt e al super-Stato europeo, stiamo assistendo a un’attribuzione al ribasso del potere catecontico.

Ma il problema vero non è questo delle dimensioni geopolitiche del katechon; il problema piuttosto è quello del dispositivo che una concezione della politica di matrice catecontica mette in azione. Tale dispositivo, infatti, produce un “avversario” dalla natura radicalmente a-politica – che sia il mercato o la tecnocrazia –, mentre al contempo pone la questione della politica esclusivamente nei termini della sua forma territoriale – che sia lo Stato-nazione o qualche Stato sovranazionale. 2. Veniamo ora alla seconda figura a cui oggi sempre più spesso si ricorre per leggere l’attuale fase di crisi delle forme politiche moderne, in primis dello Stato: l’interregno. Quella di interregno è una categoria coniata da Antonio Gramsci per comprendere la situazione storica e politica che si andava configurando con la crisi del 1929. È stata ripresa da Zygmunt Bauman (2012, 2015) e, proprio in concomitanza con le vicende della crisi greca della scorsa estate, è stata riproposta da Etienne Balibar (2015) e da altri (Caccia, Mezzadra, 2015). Con la nozione di interregno questi autori hanno fornito una lettura della crisi greca che prospetta una fuoriuscita alternativa rispetto a quella catecontica: a quella soluzione che ha individuato nella resistenza opposta dalla Grecia al memorandum della Troika un ritorno della politica con le fattezze della sovranità statuale.

Si tratta pur sempre di porre la “questione politica”, ma non nei termini di una riappropriazione di potere da parte di ciò che è ridotto all’impotenza. Come sembra suggerire lo stesso Gramsci, per uscire da quella condizione costitutiva dell’interregno che è la crisi a nulla serve cercare di riportare in vita ciò che è moribondo: “la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati” (Gramsci, 2001, p. 311 [Q 3, 34]). L’interregno consiste dunque nel procrastinarsi dell’agonia del vecchio in mancanza del nuovo che deve nascere; anzi, più precisamente: è proprio tale perpetuarsi del vecchio a dilazionare l’avvento del nuovo, che pertanto non “può” nascere. Nell’interregno, per usare il modello del katechon, ma in quel senso che – abbiamo visto – Schmitt tende a eludere, il freno che il vecchio agisce non argina tanto lo straripare del disordine, quanto piuttosto differisce la possibilità che il nuovo possa darsi. E tuttavia, nonostante possa ribaltare l’accezione schmittiana oggi prevalente di katechon, il paradigma gramsciano di interregno è irriducibile all’impianto teologico-politico. Infatti, l’interregno è prima di tutto la configurazione che assume la crisi in quanto arte di governo.

Per Gramsci, infatti, la crisi che configura l’interregno è una “crisi di autorità” in cui la “classe dominante”, sebbene abbia perso il consenso, mantiene il potere non già nonostante la crisi, bensì in virtù di essa: in questa accezione, quindi, la crisi è funzionale alla sopravvivenza del vecchio ordine. Formule del tipo “c’è la crisi, non c’è alternativa” o “ce lo impone la crisi” – che hanno risuonato costantemente nella crisi greca e più in generale nella crisi dei Paesi del Sud Europa, ma hanno trovato e trovano diverse applicazioni ovunque nel mondo – legittimano ormai veri e propri atti di governo. Insomma, la crisi è una logica di governo e l’interregno è la forma che tale governo assume: non rappresenta necessariamente un periodo di passaggio o di sospensione tra una condizione e un’altra, ma il suo governo può già ora esercitarsi con la massima efficacia. Insomma, tanto la crisi è un dispositivo che opera per la conservazione dell’ordine, quanto l’interregno non configura affatto uno stato di disordine che non può durare a lungo. Per la sua stessa epoca di interregno, Gramsci non dava affatto per scontata una fuoriuscita necessaria e automatica a favore delle classi subalterne: “L’interregno, la crisi di cui si impedisce così la soluzione storicamente normale, si risolverà necessariamente a favore di una restaurazione del vecchio? Dato il carattere delle ideologie, ciò è da escludere, ma non in senso assoluto” (ivi, p. 311). Siamo agli inizi degli anni Trenta e sappiamo poi come è andata a finire. Se per Gramsci l’interregno consiste in una fase di sospensione dell’autorità politica dall’esito incerto, la ragione neoliberale ne ha invece fatto una forma di governo che può prescindere dal riconoscimento di un’autorità politica e dall’esigenza del consenso politico di quelle che lui denominava “grandi masse”.

L’interregno può cioè sussistere a tempo indeterminato senza che alcun katechon debba portare ordine nel disordine e il potere politico risolvere la crisi di autorità: l’anomia è un nuovo ordine che si autogoverna e la crisi di autorità ne diventa condizione di governo (cfr. Cacciari, 2013, pp. 81-89). Che l’interregno innanzitutto si caratterizzi per il venir meno del dualismo tra politico ed economico, per un’arte di governo che si esercita direttamente sul piano amministrativo e del mercato, rendendo impotente il principio di sovranità o prendendolo a proprio servizio, lo aveva già intuito Gramsci ben prima che il neoliberalismo coniasse il termine governance per definire tale fenomeno: “La morte delle vecchie ideologie si verifica come scetticismo verso tutte le teorie e le formule generali e applicazione al puro fatto economico (guadagno ecc.) e alla politica non solo realista di fatto (come è sempre) ma cinica nella sua manifestazione immediata” (ivi, p. 312). Se l’anomia è tutt’altro che disordine e se la crisi è un dispositivo di governo che non offre alternative politiche, come si può porre termine all’interregno? Davvero non resta altro che sperare in un regno di questa terra che in mancanza di meglio abbia almeno la forma dello Stato? La soluzione sarebbe allora di convertire lo Stato da katechon addirittura in nuovo eschaton? Seppur datata alla sua epoca e al suo contesto storico, l’analisi che Gramsci fornisce dell’interregno consente quantomeno di collocare la “questione politica” – di un’alternativa politica – su un altro piano rispetto a quello delle forme del politico e del potere, su un altro piano rispetto a quello del passaggio di potere all’interno del medesimo ordine (che si presenta come disordine solo allo sguardo del sovrano).

Gli stessi termini che Gramsci adopera per descrivere la crisi in quanto arte di governo dell’interregno – “il vecchio muore e il nuovo non può nascere” – suggeriscono di porre la questione di un’alternativa politica non sul piano teologico-politico, che mediante le forme del politico aspira a organizzare un governo della crisi, bensì su quello della biopolitica, perché, come Foucault insegna, è sulle forme di vita che il neoliberalismo esercita la sua arte di governo ed è sulle forme di vita che questa crisi incide. Infatti, per citare solo alcune delle determinazioni che questa crisi assume, non sono forme di vita quelle investite dalla crisi del debito o del lavoro (precarizzazione) o dei rifugiati? Nei termini di Gramsci, dal momento che nell’interregno le superstrutture (le forme del politico) si riducono fino a confondersi con le strutture economiche in modo tale che il governo proceda direttamente da queste, è pur sempre su quest’unico piano che si danno le alternative politiche, che si possono anche configurare come una “nuova cultura” dall’impatto immediatamente politico: “questa riduzione all’economia e alla politica significa appunto riduzione delle superstrutture più elevate a quelle più aderenti alla struttura, cioè possibilità (e necessità) di formazione di una nuova cultura” (ivi, p. 312). Detto invece in termini biopolitici, le forme di vita su cui la governance amministrativa ed economica neoliberale esercita il suo governo si ritrovano già qui sul piano della politica. Il nuovo non nasce dalla rivitalizzazione del vecchio, ma nemmeno può essere generato dalla sua morte; piuttosto, il nuovo può nascere soltanto se è in grado di affermarsi in quanto nuovo.

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