Hong Kong / Noi siamo la rivoluzione

9 Aprile 2020

Il libro di Joshua Wong, Noi siamo la rivoluzione, pubblicato da Feltrinelli, è un bigino utile a capire cosa è successo e cosa potrebbe succedere a Hong Kong (e di converso a capire la Cina, di cui in tempi di coronavirus si esalta la capacità di risposta all’emergenza dimenticando che l’emergenza è stata negata per più di un mese grazie al fatto che le voci dissidenti venivano censurate). Il Porto dei Profumi fu colonia britannica fino al 1997 e poi, a seguito degli accordi tra Regno Unito e Cina, fu ricongiunto alla madre terra con la definizione “un paese due sistemi”. Gli accordi prevedono un periodo quasi infinito, cinquant’anni, per completare il ricongiungimento.

 

Fino al 2047 Hong Kong godrà di uno statuto differente da quello della Cina, e quindi sono previste elezioni a suffragio universale – come mai si erano tenute sotto il governo della Corona britannica – un corpus legis differente, e l'autonomia del potere giudiziario: ad oggi, Hong Kong conserva una sua moneta, da Hong Kong è necessario un visto per entrare in Cina, ma di suffragio universale per l’elezione dell’Assemblea Legislativa e del cosiddetto CEO (!) ancora non c'è l'ombra, la libertà di espressione è pesantemente minacciata, così come l'autonomia della magistratura. Cinquant’anni: chi era bambino al tempo degli accordi sarà anziano nel 2047, e tanti nasceranno e cresceranno senza conservare ricordi dello status coloniale. Si succedono le generazioni, ed è allora naturale che il movimento per la democrazia che negli ultimi anni ha scosso questa piccola patria di sette milioni di abitanti sia innanzitutto rivolta generazionale, i giovanissimi in primo piano. 

Joshua Wong ha ventitré anni, ne aveva quattordici quando ha cominciato la sua esistenza da attivista, da vero e proprio rivoluzionario di professione. È stato tra i protagonisti della Rivoluzione degli Ombrelli nel 2014, e dell'ultima ondata di lotte del 2019 culminata con la fragorosa vittoria del fronte democratico alle elezioni dei distretti, le uniche paradossalmente a suffragio universale perché, nella pratica, i distretti contano poco o nulla occupandosi di questioni come la viabilità o la raccolta dei rifiuti, ma cartina di tornasole sfolgorante, vero e proprio schiaffo alle ambizioni di Pechino di spegnere, con il tempo e per inedia, la voglia di democrazia e libertà di espressione.

 

 

Insomma, leggete questo libro se volete capire qualcosa di una delle battaglie fondamentali del nuovo secolo, quella tra una minuscola enclave di sette milioni di abitanti e il governo di un paese di un miliardo e quattrocento milioni di persone. È bellissima questa rivolta hongkonghese. Ci ricorda che la Cina, seconda superpotenza mondiale, già attiva nell’imporre al mondo il duopolio con gli Usa, è una dittatura. Una dittatura, punto. Ci mostra come l’establishment economico finanziario che impera nel Porto dei Profumi da decenni, globalizzato e occidentale, gradisca proprio la dittatura, e come il capitalismo finanziario in uno dei suoi punti di maggiore impatto sia a suo agio con una stretta sulla libertà di espressione, di organizzazione, e ovviamente di sciopero. Ci mostra, di converso, come sia insopprimibile il desiderio di espressione, di libero scambio delle opinioni, delle emozioni e delle esperienze nelle generazioni più giovani, che sono il fulcro della protesta. 

 

C’è un però, purtroppo, dovuto al fatto che a me non piace il modo in cui Joshua Wong ha costruito, con attenzione e certosina pazienza, per anni, la sua immagine pop di icona della rivolta, plasmandola a misura del pubblico occidentale che sta cercando per sé. Provo a spiegarmi meglio.

Tra i giovani e anche tra i meno giovani di Hong Kong, Joshua Wong è uno tra tanti. Lui stesso non lo nega, citando i nomi di coloro insieme ai quali ha costituito i movimenti che nel corso dell’ultimo decennio hanno segnato la storia del suo paese, dalla rivolta contro la riforma del sistema scolastico nel 2012, agli ombrelli del 2014, al partito Demosisto. Ma, a dispetto del Noi del titolo, c’è fin dalle prime pagine un accento sull’Io, Io, Io, che stride con l’orizzontalità totale del movimento per la democrazia hongkonghese, che non ha chiari leader che ‘diano la linea’, che si nutre delle comunicazioni sui social che fanno sì che spesso le manifestazioni siano autoconvocate. Le grandi marce del Giugno-Luglio che videro più di un milione di persone in piazza furono convocate da un fronte unito nel quale si raccoglieva una miriade di sigle, e anche il fronte democratico che ha stravinto le elezioni della fine 2019 si compone di partiti diversi. La mia impressione è che Wong voglia invece costruire il proprio personaggio, cosa che ovviamente gli riesce di più a livello internazionale che non in patria. 

 

Il libro si apre fin da subito con una evocazione di numi tutelari. L’introduzione è di Ai Wei Wei (più pop e più occidentale di così…), la prefazione è nientepopodimeno che dell’ultimo governatore britannico, la prima parte del libro ha in epigrafe San Paolo. In un colpo solo Wong ci dice: sono dentro al vostro immaginario, ho un po’ di nostalgia per la vostra dominazione coloniale, e sono cristiano. Il partito che ha fondato insieme ad altri, e che non è certo il più importante nel campo democratico (non c’è una controprova recente, perché alle ultime elezioni a Demosisto è stata impedita la partecipazione), forma il suo nome con due lemmi di origine greca e latina: e Hong Kong che ci azzecca? Tutto fa parte di una strategia di immagine che lo ha portato, unico tra i molti leader a Hong Kong, in molti paesi di occidente (ricorderete il messaggio al nostro parlamento), a accreditarsi come il rappresentante di quelle istanze di democrazia. Mi infastidisce poi il tono della sua narrazione, un io narrante quasi fosse davvero un ragazzino un po’ incosciente, ingenuo e naïf, quando invece si riconosce un’attenzione certosina a costruire il personaggio, in piena ascesa.

 

La sua breve esperienza del carcere, raccontata tramite pagine di diario, è intimista e passionale, e noi che la sua faccia da topolino l’abbiamo vista tanto in giro (è lui stesso che enumera le copertine delle riviste internazionali sui quali è comparso, e il documentario prodotto da Netflix, con il solito Io, Io, Io, salvo poi ricordarci con untuosità veltroniana che a lui piace stare lontano dai riflettori…), siamo indotti a commuoverci della sua verve. Il libro è chiaramente costruito con sapienza dal suo coautore, uno stimato giornalista e commentatore hongkonghese, Joseph Ng, che in realtà ha scritto di suo libri (mai tradotti in italiano) di gran lunga più interessanti. L’autore noto in occidente è invece lui, Joshua: vuol dire che siamo noi in occidente troppo più inclini a cercare l’icona pop, la faccia, la semplificazione dentro la personalità di un uomo solo? Sì, siamo noi lettori occidentali l’origine dell’inganno.

Eppure resta, questo libro, una lettura di grande interesse, perché ne vien fuori tutto quel che di bello ha da mostrare al mondo oggi Hong Kong con la sua rivolta, ora solo sospesa in attesa della definitiva sconfitta del virus. Ad esempio quando Wong ‘spariglia’ le ingannevoli letture centrate sull’opposizione comunismo/capitalismo, e parlando di altri movimenti nel mondo che eleva a suoi modelli affianca Cile e Iran, Libano e Greta ThunbergO quando ricorda la sua prima esperienza di attivismo politico nelle lotte contro l’inserimento nei programmi scolastici delle ore di “Educazione morale e nazionale”, un classico per le dittature di tutto il mondo. Insomma, una lettura buona per continuare a tenere d’occhio uno dei luoghi che segneranno la storia del mondo nei prossimi decenni.

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