Paris sans le peuple

10 Marzo 2014

“Abitare a Parigi è un chiaro segno di denominazione sociale.” È la tesi, ampiamente dimostrata, della ricercatrice Anne Clerval, autrice del libro Paris sans peuple (edizioni La Découverte), pubblicato lo scorso settembre, dove la geografa esplora le dinamiche della gentrificazione nella capitale. Clerval prende in esame, in particolare, tre aree: il faubourg Saint-Antoine, il fauborg du Temple e Château Rouge. Quartieri centralissimi, brulicanti, la cui fauna umana è sì mista ma, sembrerebbe, quasi suo malgrado.

Perché Clerval usa il termine “gentrificazione”? Questo neologismo inglese, creato dalla parola “gentry”, che designa, in modo peggiorativo, le classi agiate, è stato inventato nel 1964 dalla sociologa marxista di origini tedesche Ruth Glass, a proposito di un quartiere di Londra. “A Parigi, si può parlare di imborghesimento per i quartieri ricchi”, spiega Clerval in un’intervista a Libération, “ma questo non ha niente a che vedere con la gentrificazione, una forma di imborghesimento che tocca i quartieri dove le classi popolari sono progressivamente rimpiazzate da una classe intermedia che potremmo definire come piccola borghesia intellettuale”.

 

 

Questa mutazione, essenzialmente sociale, le cui conseguenze sono però per lo più urbane, quando non architettoniche, ha coinvolto la capitale francese relativamente tardi rispetto ad altre metropoli, come Londra e New York, in virtù del controllo degli affitti che, fino agli anni '80, ha posto un freno alla speculazione immobiliare. La gentrificazione ha mosso i primi passi negli anni '60 e '70, iniziando dalla rive gauche, fino a coinvolgere il Marais e la Bastille, spostandosi sempre più a destra. Oggi, secondo Clerval, quasi tutti i quartieri di Parigi hanno ormai un’inconfondibile aria borghese e la capitale, a differenza di quanto si vorrebbe pensare, è sempre meno mista. Tuttavia, la geografa ha individuato almeno sei “tipi umani” presenti in città, dal “molto borghese”, avvistato di preferenza nei pressi della Tour Eiffel e degli Champs-Elysées, al “molto popolare”, passando per il tipo “salariato del settore terziario” e il tipo “misto in via di gentrificazione”.

I gentrificatori sono descritti quasi come una specie a sé stante, avvistati solitamente in appartamenti con travi a vista e finestre aperte su raffinate corti interne, “attirati dagli spazi atipici, soprattutto dagli ex locali industriali, che possono essere riconfigurati per intero, ispirandosi ai loft di New York”. Sono fieri del proprio appartamento di 100 metri quadri ma tengono a distinguersi dai borghesi, quelli veri, secondo loro, che popolano i bei quartieri come il sedicesimo e il sesto arrondissement. Hanno scelto di abitare in quartieri come il decimo o, ancora, il ventesimo, nelle zone di Belleville, perché costretti dal mercato immobiliare. La scelta dietro tale residenza è il desiderio di abitare, costi quel che costi, a Parigi, dentro il boulevard périphérique. Sono le stesse persone che, sedute ai tavolini dei bar chic della place Sainte-Marthe o della rue Oberkampf, si vantano di abitare in un edificio colorato e multi-etnico, ma, come spiega benissimo Clerval, sarebbero ben contente se questa multietnicità si potesse limitare a una scenografia esotica e chiassosa, ben lontana dalla soglia d’ingresso. Sono soddisfatti e orgogliosi se possono sbandierare a conoscenti e colleghi di essere diventati amici della fruttivendola tunisina o del tabaccaio cinese, ma non esitano ad aggiungere che il loro condominio puzza di cumino o che ci sono troppe facce arabe per le scale.

 

 

I commerci esotici sono guardati con sospetto, se non con ribrezzo, come nel caso delle macellerie halal, ma fanno parte di un colorato decoro, nel quale i gentrificatori amano trastullarsi, per sentirsi parte di un universo multiculturale, contribuendo a quello che il sociologo Patrick Simon chiamava “l’effetto-paesaggio”.

 

L’effetto-paesaggio, tuttavia, non influenza le scelte relative all’istruzione. I gentrificatori agiati evitano le scuole popolari di quartiere e conducono una vera e propria battaglia per permettere ai propri figli di accedere a istituti privati, lontani da casa. Infine, sono portatori attivi di una contraddizione: l’amore per il verde, che conciliano con l’ossessione di abitare in centro, o per lo meno, nei dintorni: “sebbene restino inguaribilmente cittadini e parigini, approfittando di tutte le amenità del centro di una capitale, li si sente talvolta farsi portavoce di alcuni discorsi che sembrano vicini all’ideologia americana anti-urbana, affermando chiaro e forte la loro preferenza per la natura, sebbene ridotta semplicemente a qualche sprazzo di verde”.

Gli stessi luoghi di cultura, installati in quartieri periferici o delicati, si rivelano ambigui e, addirittura, in qualche caso, controproducenti. Clerval propone l’esempio della Maison des Métallos, antica fabbrica di strumenti musicali, poi sede del sindacato dei metalmeccanici, ora, secondo la definizione presente su internet, “struttura culturale della città di Parigi”. Per quanto originale e ricercata, la programmazione della Maison è estremamente di nicchia, dal punto di vista economico e contenutistico.

 

 

Il risultato è, quindi, non quello di coinvolgere la popolazione dei quartieri nelle attività culturali locali, ma quello di attirare sempre gli stessi utenti anche in territori dove prima non osavano arrivare, ottenendo un appiattimento del pubblico e un’omogeneizzazione dell’offerta, mirata sempre allo stesso tipo di spettatori.

 

Un intrattenimento d’élite che passa anche per i caffè e i bar di quelli che una volta erano i quartieri popolari. La Bellevilloise nel 20° arrondissement, il Nouveau Casino, sulla rue Oberkamp, il caffè La Java, nella scapestrata rue du Faubourg du Temple, sono altrettanti luoghi per la jeunesse, se non dorée, certamente branchée della capitale, riservati a un certo tipo di clientela. Sembrerebbe addirittura che siano questi i veri ghetti, oasi chic impiantate in quartieri popolari, circondate da una barriera invisibile, e certamente non accessibili a tutti.

 



La gentrificazione è iniziata tramite iniziative private, spinta da esigenze economiche, mutandosi velocemente in fenomeno sociale, i cui attori sono ben individuabili. Dalla piccola borghesia intellettuale, dell’età di circa trent’anni, attiva nei settori della comunicazione, del marketing e dello spettacolo, ai proprietari di caffè alla moda, nuovi luoghi di ritrovo, dal decoro magistralmente studiato, tra antico e nuovo, fino ai promotori di beni immobiliari, le banche e le agenzie, che incoraggiano un certo tipo di persone, e di redditi, a popolare i quartieri presi di mira.

 

Basta vagabondare per la rue Oberkampf, dopo il tramonto, per rendersene conto. Dagli appartamenti, quasi tutti senza tende, è facile distinguere i muri scarni, con le lampadine penzolanti dal soffitto, dalla carta da parati che fa da sfondo a ricche biblioteche e plafoniere, di gran lunga in maggioranza, segno inequivocabile di un cambiamento della popolazione.

Tra i fattori che hanno favorito la gentrificazione, si annovera una smodata politica urbana di rinnovazione, definita, per l’appunto, “rinnovazione-bulldozer”, che ha distrutto intere aree per ricostruirle con immobili nuovi. Conseguenza questa, secondo il socio-demografo Patrick Simon, della disindustrializzazione di Parigi: “i nuovi settori del terziario non richiedono più il ricorso a una manodopera proletaria, diventa quindi inutile conservare le famose riserve di classi popolari”, relegate nelle vicine e sempre più temute banlieue, nonostante Valéry Giscard d’Estaing avesse promesso di arrestare la costruzione di torri nella capitale e Chirac avesse dichiarato la ferma intenzione di preservare la “Parigi dai cento villaggi”. Inoltre, troppo cari per i precedenti inquilini, i nuovi immobili corrono il rischio di restare parzialmente vuoti, dando ai quartieri un’aria di città fantasma, che Klapisch ha mostrato nel suo film del 1996 Ognuno cerca il suo gatto.

 


 

Oltre al fastidio nel ritrovarsi sempre i soliti volti in tutti i quartieri e al propagarsi di questa nuova specie sociale, una delle conseguenze più gravi della gentrificazione è sicuramente l’esclusione delle classi popolari e degli immigrati, privati del proprio spazio urbano. Il costo spropositato dei nuovi alloggi costruiti dalla città di Parigi, un’offerta commerciale e culturale che punta ad un altro tipo di clientela, sono solo alcuni dei fattori che contribuiscono all’emarginazione di una certa classe sociale. Lo spazio pubblico, per preservarne la tranquillità e il decoro, è sottoposto a una serie di regole che ne mettono in discussione l’accessibilità. Lo sgombero delle classi popolari prelude quindi al loro annullamento, se non alla loro invisibilità. E non c’è bisogno di spingersi fino al 19° arrondissement per rendersene conto.

 

Clerval cita ancora una volta l’esempio del centralissimo faubourg Saint-Antoine, a un passo da Bastille: un tempo regno degli artigiani del legno, ebanisti e corniciai, oggi solo un paio di atelier sono sopravvissuti all’avanzata delle nuove professioni liberali e, sul vicino parco della Cité Prost, si dilettano nel week-end i soliti noti, famiglie agiate sui trent’anni, bianchi, ben vestiti, equipaggiati di passeggini ad alta tecnologia per i bambini. Questo ripiego delle classi popolari è una diretta conseguenza della privatizzazione dello spazio pubblico. Un altro esempio è la place Sainte-Marthe a Belleville, un tempo regno incontrastato dei giovani del quartiere, nelle ore notturne anche scenografia di traffici illeciti, ma libera e pubblica, oggi colonizzata da caffè alla moda.

 



Ma esiste un modo per resistere alla gentrificazione? Clerval cita numerosi esempi di militanza contro questa nuova geografia urbana, uno fra tutti l’associazione Les Enfants de Don Quichotte, installata in riva al Canal Saint-Martin, luogo strategico dove i colori pastello dei negozietti chic e dei vestiti delle parigine poco si abbinano al grigio delle tende dei clochard che popolano le rive. L’associazione rivendica il diritto di abitare la città, di popolarla, andando controcorrente rispetto alla rivendicazione del “diritto alla calma” dell’omonima associazione di Château Rouge, che vuole fare del quartiere a prevalenza africana un quartiere “normale”. I movimenti di militanza mettono in guardia rispetto a un concetto illusorio di varietà sociale, che serve più che altro a mettersi a posto la coscienza con la propaganda di un finto “vivere insieme” tra borghesi e proletari.


L’arma contro la gentrificazione non sono gli alloggi sociali né una finta varietà etnica, ma è il diritto alla città, così come lo aveva concepito Henri Lefebvre, sociologo e filosofo marxista francese: la possibilità di auto-gestire la propria città e di averne accesso; il diritto di decidere come produrre lo spazio urbano; la libertà di scegliere che utilizzo farne e per quale società.

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