Se questo è un omino

3 Novembre 2015

Quando entriamo, sul palco c’è un plastico che lo riempie tutto. Non c’è dubbio di cosa si tratti: è il KAMP del titolo, un campo di sterminio nazista, perché si vede a sinistra una costruzione con una grande ciminiera rettangolare… quello è l’edificio crematorio; tante baracche disposte regolarmente come in un accampamento militare; qualche camioncino, un binario perpendicolare alla platea che entra nel perimetro del campo da fuori. Qualche lampione. Torrette di guardia. Filo spinato ovunque. Tre piccole forche sulla destra. Sulla parete di fondo, bianca, si accende una proiezione. I contorni dello schermo sono un po’ sbrindellati, squallidi, si sente un assordante gracidare di raganelle, poi l’ululare del vento ghiacciato. Tutto è in gamma di colori tra il grigio e il beige, pallido, stinto. Triste. Deserto.

 

 

Sul video, quando si oscurano le luci, cominciamo a vedere cosa riprende una microcamera che dopo un po’ si capisce impugnata dalla mano di uno dei tre animatori di quello che ora capiamo essere un “teatro di figura”; la microcamera, e il microspot, inquadrano un omino dal volto deformato in una smorfia di dolore psichico assoluto, come nell’Urlo di Munch. Un pupazzetto, poi due, cinque, cinquanta, centinaia, migliaia di pupazzetti cominciano a segnare il mutare delle stagioni e insieme delle 24 ore di un campo della Shoah.

 

Eccoli nei loro pigiami di internati, gli ebrei deportati. Il treno che arriva: uomini, donne, bambini, immobili nella fila, gli effetti personali gettati a terra dalle guardie naziste. La telecamerina che plana come un dolly, o un drone, attraverso la fila di sguardi deformi e attoniti. Qualche omino si tiene per mano, qualcuno ha il braccio sulla spalla di un compagno. Muti, muti, muti. Nessuno dice una parola. Le uniche parole sono quel neon nella notte: Arbeit mach frei. Sì, c’è il coro degli ufficiali nazisti sbronzi nella loro baracca. Oppure c’è la musica dell’orchestrina di internati, che intona la beffarda Radetzky March in un progressivo distorcersi allucinato. L’audio è agghiacciante, orrendo, amplificato: la pietra che scorre a chiudere lo scolo delle ceneri nel crematorio; le carriole che cigolano; i sacchi caricati sui carri, le pale che raschiano la terra ghiacciata per togliere la neve; le terrificanti bastonate con cui una guardia massacra un poveretto crollato di stenti sotto il peso di un carico, e la badilata finale di un compagno pietoso che gli spacca il cranio. Il sound design realizzato dal vivo da Ruud van der Puljm ha un ruolo centrale nella scossa emotiva.

 

 

Gli omini, mi dice una dei tre ideatori e animatori olandesi di Rotterdam di questo spettacolo di tragica catarsi (Herman Helle, Pauline Kalker, Arlène Hoornweg) hanno uno scheletrino nudo di plastica (quello che riprendono mentre vengono spinti nelle camere e gas e se ne stanno accalcati in attesa della morte), e “carni” di colla. In un’ora o poco più li vediamo tutti, i 3.500 puppet alti 8 centimetri. Hotel Modern, il collettivo fondato dai tre nel 1997, non inventa una nuova tecnica di teatro di figura ma crea il primo documentario teatrale live (così mi dice sempre lei, alla fine: «Volevamo far rivivere quello che loro hanno provato, farvi sentire lì a com-patirlo») sulla Shoah. I close-up della telecamerina ricordano i primi documentari sconvolgenti mostrati dalla propaganda militare americana dal 1946, dopo la liberazione dei prigionieri sopravvissuti dai campi in Europa orientale. Il nonno di Pauline Kalker è morto ad Auschwitz, e questa sua nipotina sa cosa sta mettendo in scena.

 

Lo spettacolo, creato nel 2005, l’ho visto alle Fonderie Limone di Moncalieri, ospitato del Teatro Stabile nel cartellone di TorinoDanza. Vi auguro di poterlo vedere, vi auguro di essere lì, a capire cosa accadde. A noi lo aveva raccontato Primo Levi in Se questo è un uomo, e Primo Levi. Di fronte e di profilo ce lo racconta Marco Belpoliti nelle sue sterminate enciclopediche 700 pagine pubblicate da Guanda, che parlano di tutti e dei tanti Primo Levi, ma di un solo scrittore, che tra i pochi ha avuto il coraggio di raccontare ciò che ha vissuto da uomo che scrive. Si è suicidato, infine, Primo Levi, dopo essere stato un “salvato”, e non un “sommerso” nel campo di Monowitz, vicino a Auschwitz. Abbiamo visto KAMP anche grazie alla collaborazione del Centro Internazionale di Studi Primo Levi, e la gratitudine consiste in questo: nella capacità di Hotel Modern di costringerci a sapere di nuovo ciò che è accaduto, ciò che per non impazzire di dolore o suicidarci soccombendo vorremo volentieri rimuovere perché nel nostro sentirci umani non ci sta, ci esplode via di nonsense. Così il KAMP ormai è in noi, ma non diventa un incubo, la notte dopo che lo abbiamo visto: resta come un senso vasto e non più devastato di empatia.

 

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