Non c’è scienza che dia conto del tuo esistente / Pensione blues

31 Gennaio 2019

Eri lì che vivevi, certo avevi cominciato a pensarci da un po’, impaziente in certi momenti, ma poco cosciente. Poi, a un certo punto, la pensione ti è esplosa tra le mani.

Ecco, delle note sfumate, dei quasi semitoni che danno il mood alla tua giornata: questa è la musica della pensione. Le note spezzate che piano piano si insinuano nella tua vita, quei semitoni storti che ti creano agitazione mista a una certa meraviglia per la loro stranezza, per la loro novità; sono sottili imprecisioni, sfrangiature, contorni che sfumano e non sai perché, non capisci che cosa hai fatto di sbagliato per avere queste novelle imperfezioni. Non che prima andasse tutto a meraviglia, dio sa se ce n’erano di imperfezioni e magagne, ma queste non le hai mai viste e ti agitano, sono misteriose incongruenze che ti mettono paura. E il bello è che hai tutto il tempo per stare a osservarle queste brutte novità. Uno pensa alla salute, certo, quella si fa sentire con una chiara significazione, ma non è quello il punto: queste sono onde emozionali mai vissute, che vengono da te e che gli altri ti ribadiscono: come si sta in pensione, ti chiedono.  E quella è la ratifica del tuo nuovo stare, una domanda surreale a cui non puoi rispondere, che ne so io di come si sta in un “luogo” che non ho mai visitato? E insistono: beato te, magari io potessi, spero anch’io presto, mi manca un’eternità, io non ci arriverò mai, invidia invidia…

 

Le parole hanno un significato, si dice, ma tant’è, quel significato shifta incomprensibilmente, e le parole cominciano a dire anche altro, e tu nei fatti ti ritrovi a parlare un’altra lingua, il tuo diventa un vero double talk come nel blues, la musica del popolo nero d’America dei primi del Novecento, capace con le sue blue notes di produrre “quell'atmosfera di indefinitezza tonale caratteristica” (Wikipedia) con cui degli uomini dannati hanno potuto resistere nelle loro miserabili vite. 

 

Ph Vivian Maier.

 

E tu sei lì che condividi il tuo tempo, i drammi, le colpe dei potenti, gli azzardi dei più forti sui più deboli, le insufficienze del mondo, e ti immedesimi, partecipi con le tue emozioni e la voglia di dire la tua e di muovere le cose, di gridare a volte. E c’è come un diaframma che ti impedisce di trasmettere le tue idee, di dare “un contributo fattivo” al mondo che ti sta intorno, “che vuole questo pensionato?”, ma tu non sei affatto privo di tensioni, la vis politica ce l’hai ancora tutta addosso, t’incazzi sonoramente, ma dove, dove puoi andare a esercitarla se i posti disponibili sono rimasti solo quelli dietro il banco dei fritti alle feste di partito, se i posti autorevoli rimangono appannaggio di quelli che quei posti li hanno sempre avuti, mentre tu eri lì in ufficio o in aula o in corsia a seguire le piccole questioncine del tuo piccolo lavoro? È l’“indefinitezza tonale”? E il mio voler esserci significa altro, chissà, forse una generica voglia di vivere o un desiderio di rivalsa, di rimettere i conti in pari, oppure di dare un esempio ai giovani, di mostrare loro come si deve fare, o è un dibattersi estremo e inconsulto di rifiuto totale della fine, della tua fine. Sì, perché il tramonto non può essere considerato una linfa di positività; il tramonto è quando il sole va a riposare, è la conclusione di un fenomeno, un calo, un declino, un venir meno, dunque un regresso, una diminuzione. E la principale forza positiva nel tramonto di una vita non può che venire dalla pulsione di sopravvivenza che esso implica. C’è chi pensa che la verve della sublimazione estetica del tramonto possa trasformarsi in energia (vedi Foliage. Vagabondare in autunno di Duccio Demetrio, Raffaello Cortina 2018): è vero, ma si dimentica che rimane un’opzione per i pochi in grado di governare la loro vita (vedi qui Vecchi potenti). 

 

Quando la vita comincia a diventare una ferita che si allarga senza rimedio hai poco da elevare la sua corposa materialità in un mondo di bellezza per te astratto; cominci ad essere un “animale morente” e quella ferita sempre più grande fa male e tu vuoi allontanarlo quel male, in tutti i modi, provi a sviluppare come un’azione uguale e contraria, che purtroppo sarà solo contraria e mai uguale. Su venite avanti neuroscienze, venite a darmi una spiegazione. Non c’è scienza che spieghi l’attimo, che dia conto del tuo esistente e soprattutto che ti dica che fare. Solo la tua sensibilità ti guida, l’istinto momentaneo che ti fa schivare il pericolo improvviso che può rovinarti. Guidi a vista, a mani nude. 

Ecco, sta tutta qui la trenodia dei vecchi, in questo blues della pensione.

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