K. Revue trans-européenne de philosophie et arts / Pinocchio o della fame

4 Febbraio 2021

Di quel pezzo di legno destinato a diventare burattino, Collodi dice che era “come tutti gli altri”. Nessuno avrebbe potuto immaginare a prima vista che fosse un pezzo speciale. Tutt’al più, si dice nelle prime pagine del libro, sarà buono per il fuoco di cucina: “a buttarlo sul fuoco, c’è da far bollire una pentola di fagioli...”. In questo passaggio non c’è ancora la fame, ma la sua ombra cupa, in forma di una pentola che ribolle tra sé e sé, mentre attorno tutti sono affaccendati nei loro mestieri. Attraverso questa cucina fumosa si allude a un’epoca in cui la fatalità di rovesciare la pentola per terra rappresenta una vera e propria disgrazia. In Pinocchio la fame è onnipresente o, più esattamente, Pinocchio è il romanzo dell’onnipresenza della fame.

 

Una fame tangibile, insensata, che prende tutte le membra del corpo, anche quello di legno del burattino. Il libro mette al suo centro un tema che oggi resta per lo più dimenticato come motivo nella coscienza dell’uomo bianco europeo, ma che in Pinocchio la scrittura tocca con mano a ogni giro di frase. Oggi, in maniera immaginaria e fondamentalmente rassicurante, la si allontana agli anni della guerra o a quelli immediatamente successivi, o le si dà la forma di una povertà senza volto, magari relegata in continenti lontani. In Pinocchio, invece, la fame rappresenta il fulcro stesso della storia, costituisce il motore stesso dell’azione teatrale. Dà forma a quel tratto plebeo e materialista che più ha subito la banalizzazione moralistica delle sue varie trasposizioni in cartoni animati (in maniera esemplare nel film della Disney).

 

Opera di Jim Dine.


Per certi versi, in uno stile e un’ambientazione ovviamente disparatissimi, ricorda l’altra fame cronica, sorella dell’angoscia, di cui Primo Levi in Se questo è un uomo dice essere “sconosciuta agli uomini liberi” e che “fa sognare di notte e siede in tutte le membra dei nostri corpi”. Nell’Italia della pura sussistenza delle classi popolari, la fame di Pinocchio è iperbolica. Che anche un burattino di legno possa provarne i morsi, significa che alla sua ubiquità nessuno resiste. In quest’ottica chiedersi di una cosa “cos’è?” implica in primo luogo inscriverla nel registro del commestibile e dell’indigesto: può alleviare la mia fame? In secondo luogo, però, significa anche fare i conti con quanto priva di energie: non un’assenza simbolica, ma un vuoto che si fa largo dentro il proprio corpo, in mancanza di ciò che è assolutamente necessario per garantire la vita, per nutrirla. A questi due punti andrà aggiunto un altro aspetto, e cioè che la fame degli altri li rende pericolosi. Accanto e subito dopo alla domanda: è commestibile?, ogni incontro in Pinocchio ne pone un’altra: sono commestibile per gli altri? Pinocchio – burattino di legno attanagliato da una fame atavica, eredità di tutte le fami delle plebi affamate che l’hanno preceduto, modello esemplare di una fame non-umana, sempre a cavallo tra i regni del vegetale, dell’animale e dell’umano – passa spesso dal ruolo di affamato a quello di potenziale pasto per qualcun altro. Solo il legno gli permette di resistere a questa fame degli altri, come quando i pesci “si accorsero subito che il legno non era ciccia per i loro denti, e nauseati da questo cibo indigesto se ne andarono chi in qua chi in là, senza voltarsi nemmeno a dirmi grazie”.

 

Essere in potenza cibo altrui non lenisce ovviamente i morsi del proprio languore. Piuttosto pone l’autorità della fame tra i regni di una crudeltà che senza sosta attanaglia l’esistente. In Pinocchio questa autorità si moltiplica: è quella immensa di Pinocchio, ma anche quella che dà origine a personaggi mostruosi, completamente assorbiti nella loro voracità, come Mangiafuoco o il Pesce-cane. È la fame di un mondo in cui il nutrimento non è mai assicurato, ma sempre scarso e incostante. Non è semplice appetito: è una voragine, un buco incolmabile, causa delle peggiori nefandezze. È l’evidenza continua e costante che ritma tutte le Avventure

Se la fame caratterizza Pinocchio in massimo grado, cos’è se non un’assenza fin troppo presente, una proprietà inappropriabile, la condizione inutilizzabile della propria vita? Cos’è se non il segno più evidente e carnale dell’impraticabilità delle cose, che si comunica a tutte le vite in maniera ubiqua e inaggirabile? 

 

Opera di Jim Dine.


Un crescendo appartiene alla tonalità emotiva della fame: inizia con “un’uggiolina allo stomaco”; questa ben presto richiama l’appetito a cui somiglia; bastano pochi minuti e l’appetito ha lasciato posto a “una fame da lupi” che è anche “una fame da tagliarsi col coltello”. È dunque proprio la fame a segnare il passaggio dalla natura vegetale a quella animale. In questo senso essa preannuncia il bambino. Si direbbe di poterla quasi toccare, tanto è spessa e densa la sua presenza. Il corpo della fame è corpo del proprio corpo, carne della propria carne: prende tutte le membra, anche quando sono fatte di legno. Da qui al miraggio la strada è brevissima, dato che una fame così cammina più spedita dell’appetito: corso al focolare, Pinocchio fa per scoperchiare la pentola, ma la pentola non è che una chimera dipinta sul muro. Qui non ci sono pietanze che possano consolarlo, ma solo decorazioni sconfortanti. Quella pittura a muro dice che di cibo vero lì non ce n’è, che bisognerà partire per cercarlo. Bisognerà intraprendere un viaggio che lo porterà lontano da casa, alla ricerca di quel paese sognato, in cui il nutrimento non manca mai e dove non bisogna ammazzarsi di lavoro per mangiare. 

 

Singolarmente questa scena è l’unica in cui il naso di Pinocchio si allunga (di “almeno quattro dita”) senza aver detto una bugia, ma al cospetto di una delusione atroce ovvero della menzogna di quella cucina dipinta, il cui il fuoco non scalda e in cui non cuoce nessun manicaretto dentro la pentola. La miseria ha la consistenza inaggirabile di questa fame. Il catalogo delle cose miserrime che Pinocchio spera di trovare frugando nella stanza assomiglia a una discesa all’inferno. Sono questi gli inferi dell’alimentazione la cui pena è il digiuno ovvero il dono di nulla: “il gran nulla”. È una rincorsa di cose misere: “un po’ di pan secco, un crosterello, un osso avanzato al cane, un po’ di polenta muffita, una lisca di pesce, un nocciolo di ciliegia”. Ma anche loro si rivelano del tutto inesistenti. 

 

Del resto la fame sta in un rapporto obliquo con la coscienza: oscura l’anima, mentre lascia salpare il corpo verso una ricerca affannosa. Se ispira questa ricerca, è in maniera del tutto inconsapevole. Così Pinocchio non va incontro all’avventura, piuttosto vi precipita dentro, prima di ogni coscienza, prima di ogni intenzione e prima anche di ogni ponderazione. L’avventura è lì perché la fame l’ha chiamata. Come a dire che la coscienza e la stanzialità sono affare di corpi se non sazi, almeno non atterriti dai morsi della fame. La fame è invece un dentro che non è un’interiorità, né permette di cedere all’immagine consolante dell’interiorità. Piuttosto è un essere gettati fuori, nel mondo, alla ricerca spasmodica di qualcosa con cui nutrire la vita. Questo fuori si indetermina come dentro-fuori: quando ha fame, Pinocchio è tutto nella sua fuga nel mondo alla ricerca del cibo. È la fame che fa del viaggio la sola anima possibile di un burattino di legno. 

 

Opera di Jim Dine.


Agli antipodi rispetto a questa condizione famelica c’è la dimensione dell’abbondanza. Dimensione mitica, l’Abbondanza traluce sempre in filigrana dentro tutte le scommesse che Pinocchio fa quando si tratta di scegliere la propria meta e di destinarsi all’avventura. Solo che l’Abbondanza ha la proprietà fatale di restare inafferrabile. Nel mondo moderno non risulta più dal benvolere degli dèi. Neppure la promessa che al lavoro spetti la sua giusta ricompensa giunge veramente a segno: per aver tirato dal pozzo cento secchi d’acqua avrà in compenso (in regalo!) un solo bicchiere di latte. È la vita stessa a essere famelica, a spossessarlo della vita stessa, a prenderne possesso, influenzandone la direzione, insieme ad altri bisogni, ad altri piaceri, ad altre illusioni. Con la fame non si può che avere un rapporto inevitabilmente violento. In esso riluce quel tanto di distruzione che il mangiare impone, che ha l’altro suo volto nell’Abbondanza che da lontano scruta gli affamati.

 

Se, per comprendere l’apparizione della fame, ci volgiamo a quanto ci insegna il mondo animale, riconosciamo una distinzione netta all’orizzonte. Come ha scritto Baptiste Morizot in Sulla pista animale (Nottetempo), “nel vivente, la tonalità affettiva fondamentale è scissa. Ai due estremi dello spettro, bisogna vivere nella paura o vivere nella fame”. La prima opzione è quella degli animali a cui basta abbassare la testa per trovare cibo: l’erba si offre senza che occorra cacciarla. Questa disponibilità di cibo ha però un’altra implicazione: la paura. Dall’altro lato della distinzione, troviamo la condizione dei predatori: il risultato della loro caccia non è mai garantito, né è garantita la cattura della preda. È il caso del lupo, che per sopravvivere deve dare prova di “un’ipermobilità, quantitativa e qualitativa”. Ogni animale si colloca, dunque, in una determinata posizione lungo l’arco che tiene insieme fame e paura. Avere paura è la condizione degli erbivori, che trovano vasta disponibilità di quanto c’è bisogno per cibarsi, ma che sono sempre prede potenziali. Diversamente il destino dei carnivori è quello di impiegare molta della loro energia nell’attività di caccia (si stima che un lupo riesca a conquistare la sua preda una volta su dieci attacchi). I primi sono sazi, ma tendono nervosamente le orecchie per cogliere la presenza di un agguato di cui sono sempre in attesa. I secondi vivono nella fame che però porta con sé un’assenza di paura, nel momento in cui non si ha nessun predatore sopra di sé. 

 

La fame è ciò che in Pinocchio mobilita la tranquilla staticità del legno, così come il legno era un modo di resistere, di dire di no, all’ordine semplicemente umano, alla legge dei carabinieri, alle imposizioni dello Stato, alla natura disciplinare della scuola. La fame è, dunque, ciò che spinge Pinocchio – la forma-di-vita che è il burattino – verso il peggiore dei predatori: l’umano. Ma così è spinto anche alla ricerca della sua stessa storia, che è anche la storia dei suoi incontri e di coloro che incontra. Per questo viaggia. Si muove. Da allora non ha smesso di esplorare il mondo con i suoi occhiacci di legno. 

 

È online il nuovo numero di “K. Revue trans-européenne de philosophie et arts”, dedicato a Pinocchio: l’ostinazione del divenire. È disponibile gratuitamente a questo indirizzo. Ne abbiamo presentato qui un estratto, la parte finale del saggio di Gianluca Solla, Del legno o della fame

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