Speciale

La scuola al tempo della paura / "La scuola è politica”

11 Novembre 2019

Ventuno voci ordinate secondo le lettere dell’alfabeto, da Adulti a Zero, lunghe non più di cinque pagine, formano l’opera collettanea La scuola è politica. Abbecedario laico, popolare e democratico. Il testo non intende essere un dizionario ragionato sull’istruzione, come si evince anche dalla scelta di non produrre alcuna bibliografia al termine di ciascun lemma. Piuttosto gli autori propongono una tesi forte sul compito e la funzione della scuola nella società ipercomunicativa attraverso la selezione di cosa sia urgente discutere. Alternando scrittura saggistica e narrativa, riflessione teorica e esperienze personali vissute sul campo, Simone Giusti e Giusi Marchetta (in qualità di docenti) e Federico Batini e Vanessa Roghi (in qualità dei loro percorsi professionali aventi come oggetto l’istruzione formale) elaborano un testo altamente fruibile, a tratti polemico, certamente degno di essere discusso. La scelta stilistica adottata consente una lettura sequenziale oppure – grazie ai rimandi interni – è possibile costruire piste di lettura che promuovono connessioni a loro volta generatrici di significati ulteriori. Ciò che non viene meno, comunque, è la prospettiva unitaria: la politicità del fatto scolastico risiede nell’essere istituzione sociale orientata a educare istruendo e istruire educando, il cui telos – normativamente – deve essere la formazione di un cittadino democratico «capace di affrontare la vita comune in una società complessa e laica» (p. 18). Il libro si chiude con alcune pagine bianche capaci di contenere la propria ‘voce mancante’, plastica rappresentazione della necessità che ogni adulto si senta chiamato in causa a riflettere sulla composita realtà dell’istruzione, ad analizzarla «con gli strumenti a nostra disposizione – che possono e devono essere costantemente arricchiti – indipendentemente dal nostro livello d’istruzione, dalle nostre capacità critiche o dalla nostra conoscenza specifica dell’argomento» (p. 27).

 

 

Un’assunzione di responsabilità che è anche una chiamata di correo collettiva verso i numerosi e preponderanti discorsi che circolano sulla scuola, semplificanti, polemici o liquidatori, all’insegna di un certo «vanverismo pedagogico» che – come sottolinea Batini nella voce Competenze – è quella tendenza «a esprimere opinioni forti, fornire soluzioni e ricette per la scuola in generale, o su un tema particolare, in un’occasione o un evento, senza avere alcuna competenza per farlo o al massimo sulla base della propria esperienza personale» (p. 40). 

La cifra interpretativa del volume si ricava da quanto Simone Giusti propone alla voce Discipline

[…] dovremmo comunque domandarci seriamente se vogliamo che la scuola prepari alla vita o al livello scolastico successivo. E dovremmo decidere di conseguenza, se continuare a lamentarci di quanto siano impreparati gli studenti del primo anno di Lettere o di come scrivono male i laureati di Giurisprudenza, o se possiamo davvero cominciare a occuparci degli elevati tassi di dispersione della scuola italiana, dell’illetteratismo degli italiani che hanno frequentato la scuola ‘tradizionale’ e che, dopo otto o tredici anni di scuola hanno difficoltà a usare ciò che hanno imparato per orientarsi nel mondo contemporaneo e, nonostante tutto, non sono diventati lettori, né tantomeno scrittori. Dobbiamo insegnare per preservare le discipline, il loro valore e il loro potere, o possiamo preoccuparci di ciò che ogni individuo deve imparare per vivere in una comunità democratica? (p. 52)

 

Questioni di priorità, dunque. Evidente è il richiamo alla lettera dei 600 docenti universitari Contro il declino dell’italiano a scuola che ha acceso un vasto dibattito dai toni fortemente polemici e spesso poco inclini a discutere sul merito. Il problema esiste e in diversi luoghi del testo ne vengono indicate le cause. La prima è relativa a pratiche didattiche fossilizzate. Alle voci Lettura e Scrittura Giusi Marchetta riflette sul fatto che la povertà lessicale, la lettura stentata e la scrittura sgrammaticata, senza coerenza e coesione testuale, dovrebbero stimolare ad abbandonare quella «ossessione per la grammatica che individuano Serianni e, molto prima, don Milani e i ragazzi della Scuola di Barbiana […]», costruita su «uno studio mnemonico o meccanico di regole che poco hanno a che vedere con la vivacità della nostra lingua e con la sua innata flessibilità» (pp. 149-150). Sarebbe il caso di adottare strategie didattiche che mettano al centro una pratica possibilmente giornaliera orale e scritta della lingua: far convivere lettura e scrittura in rielaborazioni ludiche o narrative o ancora nei cosiddetti compiti di realtà: insomma, fare della lingua quella che essa è realmente, uno strumento vitale e vivo di comprensione del mondo. Posizione questa lontana da quanto espresso nel citato Manifesto sulla necessità di ritornare al «dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano».

La seconda attiene il mutamento di quelle che erano state pensate come ‘educazioni’ nella legge del 1977 e nei Programmi per la scuola media statale del 1979 ma che via via si sono cristallizzate in discipline con il risultato di una di trasformazione della scuola media in una «piccola università con 11-12 discipline da studiare e sulle quali svolgere interrogazioni o test».

Negli anni Settanta e Ottanta si provò, in Italia come negli altri paesi industrializzati, ad affiancare alle discipline di base, quelle che consentono di imparare a leggere, scrivere e a far di conto […] le cosiddette ‘educazioni’: l’educazione artistica, musicale, tecnica, fisica, tecnica, civica e così via. Materie aggiuntive che, nella scuola dell’obbligo, avrebbero dovuto aumentare alcune capacità fondamentali degli studenti, trattati non più o non solo come dei vasi da riempire ma come dei cittadini in pectore, da far crescere sani e colti indipendentemente dalle condizioni socioeconomiche della loro famiglia d’origine p. 47)

La premessa, venuta meno, era l’insegnamento mediante una didattica laboratoriale attenta al piano esperienziale dell’apprendimento. La traduzione in discipline ha generato un meccanismo di aggiunta quantitativa dall’esito perverso.

 

Vale la pena accostare il giudizio sopra riportato con quello espresso da Adolfo Scotto di Luzio , studioso assai distante dalle posizioni degli autori. In un suo intervento sulla necessità di ripensare culturalmente e organizzativamente la scuola media ha scritto:

Il declino dell’insegnamento dell’italiano, della storia e della geografia data dalla fine degli anni Settanta e, come rilevavo all’inizio, è frutto di una dilatazione dell’enciclopedia del sapere scolastico. È l’esito del tributo pagato al mito sociale dell’innovazione curricolare. La scuola è stata di fatto considerata negli ultimi trent’anni come un magazzino dove stoccare di volta in volta la disciplina del momento, le applicazioni tecniche e il lavoro manuale negli anni Sessanta e Settanta, l’inglese e le lingue straniere negli anni a noi più vicini. Tutto questo inevitabilmente ha un prezzo. Nel nostro caso l’esito è un impoverimento delle basi della conoscenza e dell’uso della lingua nazionale.

Se il rifiuto dell’attuale impianto della scuola media è da entrambi condiviso, molto diverse sono le ragioni che lo hanno prodotto. Da una parte il tradimento di un originale progetto di educazione culturale diffusa; dall’altra il pegno da pagare a una superficiale visione della relazione società-istruzione.

L’ispirazione democratica e popolare si coglie con chiarezza alla voce IDA, acronimo di Istruzione Degli Adulti, elemento totalmente scomparso dal dibattito pubblico di uno Stato in «recessione civica». Nonostante i puntuali e drammatici dati ISTAT sull’analfabetismo di ritorno, sulla (insufficiente) propensione alla lettura, sullo (scarso) consumo culturale degli italiani, la questione dell’apprendimento permanente è scomparsa dall’agenda politica. Giusti ricostruisce l’ennesima occasione mancata in questo Paese, vale a dire la traduzione in realtà delle proposte contenute nel Rapporto della Commissione di esperti PIAAC (2014) presieduta da Tullio De Mauro che indicava, tra l’altro, nella valorizzazione e nello sviluppo delle università della terza età, nelle scuole popolari, nei centri per anziani, nell’apertura delle sedi scolastiche al pomeriggio e al sabato i luoghi di un reale apprendimento permanente. L’attuazione di una reale autonomia scolastica dedicata all’istruzione degli adulti capace di riunire i corsi serali presenti nelle singole scuole (frequentati perlopiù da allievi che “sgocciolano via” al mattino), e i corsi di formazione organizzati dagli ex CTP Centri territoriali permanenti, istituiti 1997) si è tradotta in un’opera di razionalizzazione delle risorse che ha dato vita ai CPIA (Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti). La consueta dicitura «senza ulteriori oneri a carico dello Stato» limita enormemente le capacità di intercettare i bisogni educativi di una popolazione scolastica così complessa ed eterogenea. Fortunatamente, rileva l’INDIRE nel rapporto Viaggio nell’Istruzione degli adulti in Italia (2018), «come quasi sempre succede nel nostro Paese, l’intuizione e la buona volontà dei singoli “salva” un sistema ancora troppo debole per rispondere a sollecitazioni da giganti».  

 

Scuola democratica e popolare significa anche inclusiva, da cui le voci H e Bullismo, capace di rafforzare l’autostima di chi apprenda (voce Empowerment) e, infine, che si pone il problema di verificare se e come i meccanismi partecipativi previsti dai decreti delegati del 1974 siano da rivedere in un’ottica di potenziamento. La posizione di Federico Batini alla voce Partecipazione non potrebbe essere più chiara:

Escludere le prospettive degli studenti dai discorsi che facciamo sulla scuola equivale, nel momento in cui decidiamo di compiere azioni per modificarla, a possedere una visione monca della vita scolastica e di come essa potrebbe essere migliorata. Percezione e vissuto, assieme alle idee e alle proposte degli studenti, vanno ascoltati e accolti per non rendere inutile qualsiasi azione migliorativa della scuola (p. 130)

 

 

Non è soltanto un problema di efficacia ma anche una questione di giustizia: se la scuola è fatta per gli studenti, è lecito che cogenti indicazioni normative siano sostanzialmente lettera morta a causa di pratiche che le rimuovono? 

Anche in questo caso conviene affiancare questa posizione con un’altra a essa totalmente alternativa. In L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola (Marsilio, 2019), Ernesto Galli della Loggia ha valutato l’introduzione di elementi partecipativi nell’organizzazione scolastica in questi termini:

Chi insegna e chi apprende non sono sullo stesso piano. Non devono e non possono esserlo. E solo se tale condizione di disparità non viene camuffata dietro ideologie o pratiche didattiche all’insegna di una qualche improbabile ‘prospettiva comunitaria’ o di ‘gruppo’, solo se la scuola non indulge al vezzo demagogico di spacciarsi per una sorta di democrazia costituzionale retta da qualche ridicolo ‘statuto delle studentesse e degli studenti’, solo a questa condizione può stabilirsi un felice rapporto di apprendimento (p. 51-52)

 

La comune insoddisfazione verso il presente si traduce in una diversa valutazione del significato di «comunità educante» e delle conseguenti azioni che sarebbero necessarie per promuoverla. La scelta dell’Abecedario è quanto mai netta: non si dà scuola democratica senza pratiche di democrazia reale; chi pensa alla reintroduzione di predelle et similia, in realtà non discute soltanto di qualità (mancata) degli apprendimenti in uscita, di tecniche di gestione della classe, ma (e soprattutto) di fallimento della scuola repubblicana di massa impregnata di un «egualitarismo antimeritocratico» figlio delle culture politiche che hanno prodotto il testo costituzionale.

Uno dei temi in cui la forma asciutta e polemica prevale anche sul ragionamento disteso è la voce Competenze. Batini, autore di Quando, dove e perché. Percorsi per competenze. Asse storico-sociale (2014), scrive

Pochi dibattiti hanno conosciuto banalizzazioni assolute come quelli che si sono svolti intorno al concetto di competenza. Sono numerosi i ritornelli utilizzati da coloro che vogliono attaccare questo costrutto, probabilmente il più nominato degli ultimi vent’anni nel sistema dell’istruzione italiana, così autoevidenti nella loro pochezza e tuttavia così diffusi da fare impressione. Il primo, e il più famoso di questi è: le competenze cancellano le conoscenze e mettono i ragazzi al servizio del neocapitalismo, facendo gli interessi delle multinazionali (p. 39)

Pur comprendendo l’iperbole, spiace la banalizzazione con cui l’autore identifica tutti coloro che hanno discusso e sostengono posizioni critiche rispetto a tale costrutto concettuale.

L’equazione didattica per competenze = apprendimento attivo fondato sulla mobilizzazione delle conoscenze, cioè sul loro uso in un contesto diverso da quello in cui sono state apprese, è così generica che finisce per identificare qualsiasi forma di buona didattica sviluppata nella storia dell’istruzione. L’ostilità manifestata da certi settori dell’istruzione e da una certa intelligencija non è solo inerzia rispetto al nuovo che avanza ma ha solide ragioni culturali che non riguardano le azioni didattiche da attuare in classe. Su quest’ultime esiste un generale consenso sul fatto che esse hanno l’obiettivo di produrre, nei limiti del possibile, non soltanto apprendimento primario (i contenuti) ma anche secondario (imparare ad apprendere) secondo la classica distinzione elaborata da Bateson. Chi promuove il concetto di competenza ha la singolare tendenza a rappresentare l’altro come un cultore della didattica trasmissiva incardinata sulla pratica esclusiva della lezione frontale, impermeabile alla collaborazione tra colleghi. Non è così. 

 

In primo luogo è esistita una nobile storia di attivismo pedagogico ben prima che il Consiglio d’Europa nel 2006 individuasse le competenze chiave per l’apprendimento. Inoltre il legame tra competenza e ambito economico è genetico. Il quadro europeo relativo ai processi di riconoscimento delle competenze (EQF), infatti, ha anche una sua ragion d’essere correlata all’esigenza di potenziare la mobilità dei lavoratori e garantire la trasparenza delle qualifiche professionali. Le ‘qualification’ nel linguaggio europeo identificano, infatti, il risultato formale di un processo di validazione delle competenze espresso in forma di learning outcomes conseguite dalla persona con la definizione di standard precisi all’interno delle differenti articolazioni della qualifica stessa. In altri termini garantire una stima quantitativa degli apprendimenti indipendente da giudizi soggettivi, secondo procedure importate da altri ambiti culturali (manageriali).

 

La gigantomachia sulle competenze ha, quindi, motivazioni sostanziali: 

1) vaghezza teorica del costrutto concettuale, tanto che un suo intelligente promotore, Benadusi, nel suo più recente tentativo di precisare i termini del discorso ha dovuto ammettere che «all’assenza di un robusto impianto teorico sopperisce evidentemente l’autorevolezza dell’istituzione». (Le competenze, 2018, p. 38);

2) incidenza sulla selezione e sulle modalità di contenuti oggetto d’insegnamento nonché sull’implicita gerarchizzazione tra le stesse discipline. Nello specifico non mi sembrano prive di fondamento le osservazioni di Carosotti sull’impossibilità di coniugare sapere storico e didattica per competenze. L’analisi delle tracce dei temi dell’esame di Stato 2018-19 documenta quanto il riferimento preponderante alla dimensione esperienziale dello studente come elemento esclusivo di analisi, secondo una modalità tipica della didattica per competenze, coincide con la messa in soffitta degli strumenti tipici della spiegazione storica: la ricostruzione del contesto e l’individuazione di nessi causali-consequenziali. Insomma questioni di non poco conto che non possono essere liquidate dal falso dilemma: tradizione o modernità? Lezione frontale vs didattica delle competenze.

In ogni caso le osservazioni critiche qui espresse, nulla tolgono al valore dell’opera, prezioso strumento per orientarsi nella complessità educativa dismettendo il paradigma vittimario tipico di tanta letteratura sulla scuola. Come scrive Giusti in Qui pro quo si tratta di capire e scegliere con quali lenti interpretare il mondo.

 

Sei un conservatore e pensi che i tuoi problemi e le loro soluzioni siano nel passato che hai idealizzato? Allora pensare il mondo con la lente del declino ti conviene, è funzionale al tuo scopo. Sei un progressista o hai l’ambizione di esserlo? Allora sappi che la retorica del declino è solo una distrazione temporanea, un gioco che dura poco, perché alla lunga non ti converrà pensare che i problemi e le soluzioni sono nel passato. Il passato, se lo leggi con gli strumenti degli studi storici, antropologici e sociali, ha molto da dirti, e ti conforterà sulla necessità di aumentare gli investimenti pubblici nell’istruzione, smettendo di risparmiare sulla qualità degli infissi e sulla formazione dei docenti, e ti dissuaderà dal dar credito alla retorica del maestro unico, suggerendoti di tornare ad aumentare il numero di insegnanti in compresenza nella scuola del primo ciclo. E se volgerai lo sguardo a quei paesi che citi sempre come termine di paragone per deprecare la condizione dell’Italia, potrai capire quanto sia assurdo che le scienze pedagogiche siano ancora oggi così sottovalutate e sottoutilizzate, e comincerai a trovare più normale lo stato della scuola, frutto di scelte politiche di cui tu (insieme a me) sei responsabile. Nel passato e nel presente. Nel futuro, invece, chissà? (p. 137)

 

Giusi Marchetta interverrà all'evento Bookcity questo sabato organizzato da Doppiozero con Olinda e Jonas: La scuola al tempo della paura, con Massimo Recalcati e Marco Martinelli. Qui tutte le indicazioni.

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