Com'è nato il capolavoro di Primo Levi / I sommersi e i salvati. Storia di un libro

22 Agosto 2021

In I sommersi e i salvati del 1986 (un anno prima della morte), Primo Levi definisce Se questo è un uomo, il suo libro-matrice, una sorta di “animale nomade” che ormai da quarant’anni “si lascia dietro una traccia lunga e intricata”. Nel suo vagare, il testo ha mutato pelle, si è rivestito di una stratificazione composita il cui precipitato finale sarà appunto I sommersi e i salvati: titolo che Levi avrebbe voluto per SQU, conservato per il capitolo più riflessivo, prima di accogliere la proposta di Franco Antonicelli, fondatore delle edizioni De Silva, di riprendere un verso di “Shemà”, la poesia posta in apertura. Di quella prima edizione del ’47, passata quasi inosservata al di fuori dell’ambiente torinese, le copie rimaste finiranno “sommerse” nell’alluvione di Firenze del ’66. Il libro, tornato in vita dopo dieci anni di “morte apparente” (SeS) con l’edizione Einaudi del ’58, conosce anche le prime richieste di traduzione, da Francia, Inghilterra e soprattutto Germania. Per il quarantenne chimico è l’occasione lungamente attesa: si apre la possibilità di entrare in contatto con i tedeschi, quelli che non conobbero la vergogna che “il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui e gli rimorde che esista” (La tregua, 1963). È proprio dal 1959 che prende avvio la storia di I sommersi e i salvati, il “libro tedesco” che resta lo scritto più articolato e fecondo sulla logica perversa dei campi di annientamento.

 

Martina Mengoni – a cui dobbiamo anche Primo Levi e i tedeschi (Einaudi, 2017, una delle meritorie pubblicazioni del Centro internazionale di Studi Primo Levi) – ci guida con rigore e passione lungo i sentieri che tracciano la mappa della progressione concettuale, delle motivazioni psicologiche e storiche che hanno condotto alla stesura di I sommersi e i salvati: non un libro testamento, ma l’esito di un percorso tortuoso durato più di un ventennio (Quodlibet Studio, 2021). Nell’odissea del viaggio di ritorno da Auschwitz, giunto a Monaco nell’ottobre del ’45, l’ex deportato vorrebbe porre domande ad ogni tedesco, avere una spiegazione, “come i giocatori di scacchi al termine della partita” – si sa, nessun gioco è più violento degli scacchi. Ma fra quelle “torme di debitori insolventi”, i pochi uomini, vestiti di stracci, alcuni mutilati, non accettano la contesa, non guardano negli occhi, non vogliono comunicare. La negazione dello sguardo e della parola era già stata in Lager la manifestazione del disconoscimento dell’umanità dell’Altro; ed ora, i tedeschi sconfitti “erano sordi, ciechi e muti, asserragliati fra le loro rovine come in un fortilizio di sconoscenza voluta, ancora forti, ancora capaci di odio e di disprezzo, ancora prigionieri dell’antico nodo di superbia e di colpa”. Mario Barenghi ha osservato (Perché crediamo a Primo Levi, Einaudi, 2013) che il sostantivo “sconoscenza” non equivale ad ignoranza, ha in sé una connotazione morale: allude alla colpevole volontà di non sapere, all’ipocrita rifiuto di ogni assunzione di responsabilità.

 

La stesura della Tregua inizia nel dicembre del 1961, quando Levi ha già avviato lo scambio epistolare con Heinz Riedt, incaricato dall’editore Fischer di tradurre SQU nella lingua dei carnefici. Studente a Padova ed esperto di Goldoni, Riedt aveva rifiutato di combattere per la Germania hitleriana ed era entrato nella Resistenza. Grazie a quel suo coetaneo, Levi confida di far comprendere i minimi dettagli, le sfumature di senso, ai “suoi destinatari veri, quelli contro cui il libro si puntava come un’arma” (SeS). Vuole una resa efficace del Lagerjargon, il gergo fra prigione e caserma ben diverso dal tedesco civile: ad esempio, il termine “gamella” non può essere confuso con la “gavetta” dei militari, attrezzo troppo raffinato per il mangiare animalesco dei deportati. Il carteggio con Riedt assume così funzione di auto-commento, il primo di tanti altri successivi, ha rilevato Marco Belpoliti (Primo Levi di fronte e di profilo, Guanda, 2015).

 

Levi è costretto ad esplicitare il senso dei fatti narrati, a sciogliere nodi interpretativi; ma anche a delucidare alcuni temi, spesso proprio quelli che poi saranno al cuore del suo ultimo libro, ad esempio in merito all’assenza di suicidi in Lager, alla vergogna, al fragile confine fra l’animale e l’uomo. Premessa alla traduzione tedesca di SQU è una lettera al traduttore in cui Levi si augura che siano i lettori ad aiutarlo a svelare l’origine di quel “fondo mostruosamente misterioso che presiede all’idea e all’attuazione di un campo di sterminio” (intervista del ’63). Ed ecco che tra il ’61 e il ’64 giungono a Levi dalla Germania circa quaranta lettere di interlocutori diversi, spesso giovani, con cui si avvia una sorta di collaborazione nello sforzo di comprendere il passato recente, ma anche le complesse trame sociologiche e psicologiche della denazificazione della Germania postbellica. È una cartella corposa e Levi accarezza l’idea di pubblicare lo scambio epistolare con Einaudi, ma il “progetto tedesco” non andrà in porto, o meglio confluirà nell’ultimo capitolo di SeS, “Lettere di Tedeschi”. 

 

Capitoli di SQU trovano posto nei primi anni Sessanta in due antologie in lingua tedesca, cosa non ancora accaduta in Italia. La seconda antologia è un numero della rivista aziendale di una acciaieria della Ruhr, la Hoesch AG, uno dei gruppi industriali finanziatori del nazismo nel ’33 (poi, dopo la fusione con la Krupp, costituirà la Thyssenkrupp). I potenziali lettori sono dirigenti e funzionari di quel mondo industriale responsabile dello sfruttamento schiavistico dei deportati, noti al chimico anche per i periodici incontri di lavoro in Germania. La prima era stata nel ‘62 il Buch über Auschwitz, organizzata in vista del processo che stava per aprirsi a Francoforte in cui la giustizia della Germania federale persegue per la prima volta i crimini nazisti, dopo la risonanza internazionale suscitata dal processo di Gerusalemme ad Adolph Eichmann. L’antologia, curata dallo storico austriaco Hermann Langbein, comprende 41 contributi – l’unico italiano è quello di Levi –, in gran parte di autori polacchi e ungheresi, come le memorie di Miklòs Nyiszli, il medico deportato che aveva svolto il ruolo di aiutante patologo accanto a Mengele. Si tratta di testi che costituiranno fonti preziose per la stesura di SeS, come quelli di altri autori – Kurt Tucholsky, Ernst Toller, l’Alfred Döblin di Berlin Alexanderplatz – suggeriti a Levi dai suoi interlocutori; inizia a costituirsi quello “scaffale tedesco” della sua biblioteca dove un posto preminente spetterà all’amato Thomas Mann. 

 

Sarà Langbein a suggerire la lettura di SQU alla giornalista Hety Schmitt-Maass, con la quale Levi, suo coetaneo, intrattiene il carteggio più intenso, dal ’66 all’83, anno della morte di Hety. La giornalista condivide l’ansia di comprendere il suo popolo, vuole che il crimine nazista diventi argomento di dibattito anche nelle scuole, si impegna a far conoscere SQU ad ex nazisti, ad ex deportati e intellettuali. Si rivolge fra gli altri a Jean Améry, torturato dalla Gestapo e deportato ad Auschwitz, e lo pone in contatto con Levi. Il sesto capitolo di Ses riprenderà fin dal titolo il libro più noto di Améry, Intellettuale ad Auschwitz, e promuoverà un serrato confronto critico con l’umanesimo di matrice idealistica del filosofo austriaco. Hety riesce anche a rintracciare uno dei tecnici tedeschi che lavoravano alla Buna di Monowitz di proprietà della IG Farben, dove Levi era stato “assunto” negli ultimi mesi del ’44. Quel primo tedesco davvero “coinvolto” si chiamava Ferdinand Meyer; lo scrittore torinese ricordava che con i deportati si era “comportato particolarmente bene”, aveva sempre mantenuto un atteggiamento cortese, gli aveva fatto avere un paio di scarpe di cuoio e una camicia pulita.

 

Levi per la prima volta entra in comunicazione con “qualcuno che si trovava dall’altra parte della barricata, anche se controvoglia”; un uomo onesto, non coraggioso, forse rimasto indenne dalla “peste nazista”, un avversario con cui commentare quanto accaduto, “come al termine di una partita a scacchi”. Améry, informato attraverso Hety dello scambio epistolare, scrive di non concordare con l’atteggiamento comprensivo di Levi verso quanti dirigevano la fabbrica in cui anche lui era stato conosciuto i “lavori forzari”: “a differenza di Primo Levi, io non sono un perdonatore”, un’etichetta contro la quale lo scrittore torinese avrà buone ragioni per polemizzare. 

Lo conferma la risposta che Levi fornisce alla lettera del dicembre ’68 spedita a vari intellettuali europei da Simon Wiesenthal – da vent’anni impegnato nella caccia ai criminali nazisti fuggiaschi e autore di Gli assassini sono fra noi (tradotto da Garzanti nel ’67). Nella lettera si rievoca un episodio del 1942: un giovane SS prossimo alla morte confessò a Wiesenthal i crimini commessi e gli chiese il perdono, che gli venne rifiutato. Ora l’ex deportato pone la domanda: ho fatto bene a non perdonare? La risposta di Levi, poi raccolta con le altre in Il girasole (Garzanti, ’70), condivide la scelta del rifiuto: nella richiesta della SS, Levi ritrova la logica nazista che considera l’ebreo uno strumento, in questo caso per dare conforto all’angoscia attraverso l’assoluzione.

 

Ben diversa è la risposta che fornisce Améry: per lui, la questione è teologica, estranea al suo pensiero agnostico, e/o politica, e in questo secondo caso “non voglio sentir parlare di perdono! […] rifiuto qualunque riconciliazione con i criminali”. Mengoni rileva giustamente che il profondo scarto fra le risposte segnala una distanza in termini di “immaginazione morale”, secondo la formula di Cora Diamond. Améry smaterializza la circostanza storica per muoversi verso l’astrazione filosofica, finendo per giungere a una conclusione stridente con le sue stesse premesse: forse in quella situazione sarei stato più tollerante e avrei concesso il perdono. Levi, al contrario, cerca di assumere le prospettive di entrambi gli attori ed è questo il tratto che rende la scrittura leviana degna di fiducia, fondativa della verità testimoniale: la pratica cioè di raccontare (di)mostrando, il ricorso a esperimenti mentali anche nell’ambito della morale, la capacità di “abitare i corpi” degli altri, fino a porsi nella condizione dei carnefici o del mondo non-umano, come nelle poesie o nei racconti. Del resto, nel corso dello scambio epistolare con Meyer, Levi confessa di provare una “simpatia” diffidente nei confronti della Germania, in cui però non va letta, come vorrebbe il suo interlocutore, un’adesione al precetto cristiano. “Sarebbe bello vivere in un mondo, e in un secolo, dove fosse possibile amare i propri nemici”, ma un nemico che persevera nella volontà di fare del male, “sono sicuro che non si debba perdonare” (la sottolineatura è di Levi). 

 

 

L’ingresso negli anni Settanta segna una fase nuova per Levi, e lo testimonia lo scarto fra i racconti di Storie naturali del ’66 e quelli di Vizio di forma del ’71: dall’onda lunga dell’euforia prometeica del boom economico si passa al clima “apocalittico” della fine dei “Trenta gloriosi”, con l’emergere delle contro-finalità inquietanti dello sviluppo, l’abuso delle risorse ambientali e il dissesto ecologico. Una preoccupazione che si mescola al riemergere dei conati nazifascisti (sorretti sul finire del decennio dalle tesi negazioniste), ai timori per i giochi perversi della strategia della tensione che risvegliano nelle masse il desiderio dell’uomo forte. L’intolleranza e la violenza degli “anni di piombo”, emblematicamente aperti da Arancia meccanica (’71), preparano la strada al fascismo: “il seme di Auschwitz è ancora radicato nella nostra società”, dice Levi in un’intervista del ’71, e il grembo che ha partorito il mostro è ancora fecondo. La prefazione all’edizione scolastica di SQU nel ’72 ribadirà che il sollievo del dopoguerra ha ceduto il posto all’inquietudine: torna l’esigenza di combattere il fascismo e, se oggi dovesse riscrivere il suo primo libro, se ne servirebbe come di uno strumento di lotta nel presente.

 

In quello stesso anno viene pubblicato Menschen in Auschwitz di Langbein, un testo che ha molti tratti in comune con SQU: il proposito di uno “studio pacato” (Levi) e di “un’analisi spassionata” (Langbein) della situazione estrema del Lager, la consapevolezza che i carnefici sono Menschen anche loro, trasformati in freddi assassini da pochi anni di propaganda perversa. Levi è una delle fonti privilegiate di Langbein, anche se lo storico non nasconde le sue critiche nei confronti di SQU: Levi ha accomunato la brutalità dei prigionieri politici tedeschi a quella dei criminali comuni, ignorando che molti triangoli rossi utilizzarono la loro autorità in favore dei deportati. E poi ha taciuto sugli ebrei privilegiati assoldati dalle SS, collaboratori come Chaim Rumkowski, decano del ghetto di Lodz gestito con autocratica arroganza sotto il controllo nazista. Sarà lo stesso Levi a riconoscere, soprattutto in SeS, di non essere sempre stato “un giudice molto obiettivo”, indotto a indebite generalizzazioni per il suo orizzonte ristretto, quello del comune prigioniero i cui occhi “erano legati al suolo dal bisogno di tutti i minuti”. Le pagine iniziali di SeS (“La memoria dell’offesa”), nell’indicare le caratteristiche del buon cronista del Lager – appartenente alla minoranza “privilegiata”, poteva disporre di una visione dall’alto, più comprensiva, ed aveva la “cultura” per interpretare quel che vedeva – sembrano proporre il ritratto dello storico austriaco: comunista e combattente nella guerra di Spagna, deportato a Dachau ed Auschwitz, grazie alla carica di segretario di un ufficiale medico delle SS, Langbein ha vissuto la deportazione in condizioni tollerabili, disponeva di fogli e penna, cosa impensabile per un ebreo.  

 

Dall’inizio degli anni Sessanta Levi si è intanto dedicato al suo “terzo mestiere”, conferenziere e testimone nelle scuole, che lo terrà occupato fino a un anno prima della morte. Confidando in quella palestra di democrazia che è il mondo della scuola, Levi accetta nel ’75 la carica di presidente del Consiglio d’Istituto del Liceo d’Azeglio che lo aveva visto studente e dove suo figlio studia e sua moglie insegna. Alla prima edizione scolastica di SQU, ne segue una seconda nel ‘76, sempre per Einaudi, accompagnata da note e da un’appendice con le risposte alle otto domande più frequenti (il rapporto con i tedeschi, il problema del perdono, il confronto fra lager e gulag, ecc.) che si era sentito rivolgere durante gli incontri con gli studenti. Levi ribadisce la scomoda verità che ritroviamo in Hannah Arendt o in Germaine Tillion: i nazisti, salvo poche eccezioni, non erano mostri sadici, erano persone comuni, irretite dal regime “per la loro pochezza, ignoranza o ambizione”. Il pericolo viene dai “funzionari pronti a credere e ad obbedire senza discutere” (il male sta nell’obbedienza, dirà in un’intervista), lo confermano i massacratori francesi in Algeria e i militari americani in Vietnam. L’appendice del ’76 è l’avantesto principale di SeS, non solo perché alcuni degli otto capitoli dell’ultimo libro (ad esempio “Stereotipi”) ne riprendono i contenuti, ma anche in termini di impianto metodologico. Levi procede dal particolare all’universale, dalla testimonianza (auto)biografica all’elaborazione di concetti generali; una forma testuale a cui SeS, ricorda Mengoni, salderà anche la procedura inversa, dall’indagine storico-sociologica all’esperienza personale, dalla dimensione saggistica al caso esemplare. 

 

Quel che ancora l’Appendice non sviluppa è il tema centrale di SeS, il capitolo “La zona grigia” da cui prende avvio la stesura del libro sul finire del ’79. Quello spazio “costellato di figure turpi, miserevoli o patetiche” in cui coabitano vittime e carnefici era al cuore della Notte dei girondini di Jacob Presser (vedi qui la recensione di Belpoliti), romanzo che Levi traduce e introduce per Adelphi nel 1976. Protagonista è un esponente della borghesia ebraica olandese che assume dai nazisti il ruolo di gestore, cinico e feroce, del campo di smistamento di Westerbork (da cui transitarono Etty Hillesum, Anna Franck, Edith Stein). Il contagio del male si diffonde anche sulle vittime – è la lezione dell’amato Manzoni –; un sistema infero qual era il nazionalsocialismo le degrada, le assimila a sé, le costringe a riprodurre il meccanismo dell’esclusione su altri ancora più deboli. Il che non significa che la distinzione fra vittime e carnefici si cancelli, presupposto esplicito del Portiere di notte di Liliana Cavani (1974), un film “bello e falso”, dirà Levi in SeS, con il suo spirito decadente, estetizzante e compiaciuto. Mengoni ipotizza che Levi abbia tratto il concetto di “zona grigia” dal Wiesenthal di Gli assassini sono tra noi, il primo libro citato in SeS: “Lentamente imparai che tra il bianco e il nero c’erano molte sfumature di grigio […]. E anche sfumature di bianco: neanche le vittime erano sempre innocenti”.

 

Lo schematismo semplificante della logica manichea riflette per Levi una tendenza “biologica” a dividere il campo fra “noi” e “loro” – uno dei tanti atavismi, delle tante persistenze delle origini animali nell’uomo civilizzato, che lo sguardo etologico leviano non smette di evidenziare. Perdiamo così di vista le “mezze tinte” e le “complessità”, quelle minime differenze (il quasi uguale) che costituiscono un dato rilevante per chi si è formato sulla chimica: riflettere sulla “zona grigia” – condizione indispensabile per “difendere le nostre anime quando una simile prova dovesse ritornare” (SeS) – è un altro modo di rendere fruttuosa l’attenzione agli ibridi, alle mescolanze, che è forse il nucleo teorico principale del pensare leviano.

Se ad esemplificare il capitolo “La violenza inutile” sarà Fritz Stangl, comandante di Treblinka, noto a Levi per la conversazione concessa nel ’71 a Gitta Sereny dal carcere in cui sconta l’ergastolo (In quelle tenebre, Adelphi ’75), paradigma della “zona grigia” sarà Rumkowski a cui Levi dedica nel ’77 il racconto Il re dei Giudei, poi riassorbito in SeS. Ma un altro “esemplare umano tipicamente grigio” finirà per rivelarsi anche il chimico Meyer, la cui storia “vera” viene trasfigurata nella finzione narrativa di “Vanadio”, un capitolo del Sistema periodico (1975).

 

Senza fare cenno allo scambio epistolare mediato da Hety, Levi inventa un contenzioso con una ditta tedesca in merito alla fornitura di una resina per vernici. Il suo interlocutore, chiamato Doktor L. Müller, si rivela essere il tecnico incontrato “in un non dimenticato laboratorio pieno di gelo, di speranza e di spavento”. Nel racconto, il personaggio Müller cerca di giustificare il suo giovanile entusiasmo per il regime nazista, sostiene che la IG-Farben aveva assunto prigionieri solo per proteggerli; come Meyer nelle sue lettere, cerca di far tornare i conti col passato, barando un poco. Alla speranza iniziale di essersi trovato di fronte in Buna a “un uomo che si rendeva conto della situazione”, come Levi gli aveva scritto, presto subentra la disillusione: a distanza di anni Müller/Meyer continua a “non rendersi conto”, a incarnare le colpevoli inerzie della borghesia tedesca. Rimaneva “uno dei non pochi monocoli nel regno dei ciechi”: non un eroe, una persona onesta di poco coraggio, ma nel mondo reale, quello in cui capita che si costruisca Auschwitz, gli onesti ma inermi spianano la strada ai violenti. “Perciò di Auschwitz deve rispondere ogni tedesco, anzi, ogni uomo, e dopo Auschwitz non è più lecito essere inermi”, suona la chiusa del racconto. Ed è probabile che Levi abbia provato sollievo alla notizia dell’improvvisa morte a sessant’anni di Meyer, nel ‘68, alla vigilia di un progettato incontro fra loro, anche se andava deluso il desiderio costante del dopo-Lager, ritrovarsi “da uomo a uomo, a fare i conti con uno degli ‘altri’”. 

 

Ibrida e complessa è per Levi anche la condizione umana: adotta per sé la figura del centauro, chimico e scrittore, ma l’uomo in genere è “creatura confusa”, citando Thomas Mann, ibrido impasto di argilla e di spirito, coabitazione instabile di natura e cultura. Ibrida è anche la struttura del libro che Levi va componendo, una mescolanza di racconti e commenti saggistici; ne resta traccia nella stesura finale di SeS dove ogni capitolo (di cui Mengoni indaga i tempi di composizione) connette alla riflessione nuovi episodi della storia dei lager, le vicende di Alberto e della sua famiglia o del Sonderkommando di Auschwitz, oltre a Rumkowski e Meyer. L’ibridismo di genere sorge dalla consapevolezza, in un pensatore che non vuole certo rinunciare alla tradizione che l’amico Calvino diceva illuministico-illuminata, della povertà di un pensare che si limiti ai principi logici, al gioco delle opposizioni rigide e definite. Il rigore dell’analisi ha bisogno del conforto di quella che Robin Collingwood chiamava immaginazione storica: l’invito a porsi nella situazione e nella condizione estrema del prigioniero, per far sì che l’accaduto diventi oggetto di partecipe attenzione del lettore. Non si tratta di un semplice espediente retorico, se mai di una risorsa conoscitiva: l’esempio singolare, conservato dalla memoria o dalla letteratura, tiene viva la condizione incerta e sfumata dei comportamenti dell’animale-uomo, quell’ambiguità che caratterizza il vivere e che sfugge alla presa della scienza e della filosofia.

 

È così che SeS si presenta come il libro dei paradossi e degli ossimori, di affermazioni al limite della contraddizione, come quando si indicano nei “mussulmani”, nei sommersi che non hanno più parola, i veri testimoni. Ma l’esempio forse più significativo è nel capitolo in cui Levi cerca di comprendere “l’utilità della violenza inutile”, quella che induceva la furia burocratica nazista a far salire sui treni per Auschwitz anche i moribondi: lo scopo era disumanizzare le vittime per ridurre il senso di colpa dei carnefici. Mengoni rileva che I sommersi e i salvati ha un carattere aporetico; proprio in questo emerge la saggezza di Levi, nel non pretendere conclusioni definitive, nel suggerire la sospensione del giudizio dello scetticismo antico, ad esempio quando si tratta di valutare il comportamento dei deportati ebrei dei Sonderkommando, incaricati di gestire camere a gas e forni crematori. Il nodo centrale di SeS è come dare rappresentazione dello sterminio: Levi, conclude Mengoni, propone figurae, nel senso che Erich Auerbach chiariva negli Studi su Dante, personaggi dalla cui storia emerge nell’interpretazione qualcos’altro, umbrae che non prefigurano una realtà ultraterrena, ma l’al di qua atroce in cui si è vissuto l’annientamento dell’uomo.

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