Tocatì / A che gioco giochiamo

2 Settembre 2021

 

Gioco, autonomia e dipendenza

Considerando la circolarità tra autonomia e dipendenza nello sviluppo e nella costruzione dell’esperienza, non solo sfumano le differenze tra bambini e adulti, ma anche quelle con gli altri mammiferi e soprattutto con i primati. Un fattore regolatore e accomunante è con tutta evidenza il gioco. Osservando i bambini molto piccoli emergono gli sconfinamenti, nei giochi di approssimazione e di costruzione del legame sociale, tra divertimento e aggressività, tra socializzazione ed esclusione. Nonostante i rischi di separatezza e specializzazione, in tutto l’arco della vita il gioco si propone come dialogo intergenerazionale e interculturale. Attraverso il gioco si creano rituali e zone franche, si consolidano le relazioni fino a irrigidirsi in forme settarie, si producono forme di esclusione e inclusione. Come accade quotidianamente nella vita organizzativa, dove i giochi di potere caratterizzano le relazioni, lasciando emergere opportunità di elaborazione e mitigazione delle ansie, o accentuandole come nei processi di mobbing e di minorizzazione ed esclusione delle donne o dei più fragili. Attraverso il gioco, insomma, si decostruiscono regole e se ne creano di nuove, si definiscono cosmologie e visioni del mondo.

La giocosità è, secondo una delle più accreditate teorie sulle emozioni, uno dei sistemi emozionali attraverso la cui esperienza si costruisce materia cerebrale in tutto l’arco della vita [J. Panksepp, L. Biven, Archeologia della mente, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014].

 

Alla ricerca dei fattori che suscitano e determinano quegli sconfinamenti tra “io” e “noi” creando legami sociali, gruppi e comunità, il gioco, insieme al dono, al rituale – di cui in fondo è una delle espressioni – allo scambio e ai codici di regolazione dell’aggressività e della violenza, è una delle principali vie dell’approssimazione tra gli esseri umani, e non solo. Contiene aggressività controllata e sublimata e adesione persino massiva a un senso di appartenenza; soddisfa la ricerca condivisa di significato creando il comune e l’immune, il noi e il loro; si accompagna a un grado anche elevato di voluttà, per sfociare nell’umiliazione e nel pianto. Dal momento che il gioco svolge, tra l’altro, la funzione di tirar fuori e far emergere le potenzialità e le caratteristiche soggettive e sociali, è difficile immaginare i processi educativi e di socializzazione senza associarli alle esperienze ludiche. Siamo, quindi, di fronte a uno degli universali della sensibilità e dell’estetica delle relazioni, la cui rilevanza evolutiva è evidente. Il gioco crea appartenenza e presidia, perciò, la nascita di ciò che accomuna, non senza creare, per le stesse dinamiche, situazioni di esclusione fino alla stereotipia. È però, allo stesso tempo, una delle vie privilegiate per riconoscere gli stereotipi e cercare di elaborarli in modo generativo. Attraverso il gioco si può evidenziare, mediante la drammatizzazione ludica, come si creano i pregiudizi e come possono degenerare in stereotipie escludenti, lasciando emergere il valore della porosità delle appartenenze e l’evidenza dei fattori accomunanti, delle affinità e delle somiglianze, pur nelle differenze. 

Giada Cordoni e Elisabetta Palagi, ad esempio, hanno analizzato il comportamento di gioco dei piccoli scimpanzé e dei bambini mostrando importanti analogie che si estendono fino all’adolescenza, in uno studio che ha confrontato i dati sui giovani Pan troglodytes (scimpanzè) con la letteratura scientifica sul gioco nei piccoli Homo sapiens [Ontogenetic Trajectories of Chimpanzee Social Play: Similarities with Humans, Novembre 16, 2011].

Dario Maestripieri si è chiesto perché il bacio alla francese è diventato un simbolo della passione amorosa? O perché un capo aspetta un’eternità prima di rispondere alle e-mail, soprattutto a quelle contrassegnate come “urgenti”? Attraverso i risultati di decenni di ricerche per svelare le curiose abitudini che caratterizzano il comportamento sociale degli esseri umani, Maestripieri trova nelle abitudini dei nostri parenti più vicini tra gli animali l’equivalente di molti comportamenti umani, rivelando sorprendenti analogie. Emerge così che i codici che regolano il nostro comportamento sono il frutto dei nostri modi di metterci in gioco alla luce di milioni di anni di evoluzione.

 

 

Attraverso il gioco i bambini imparano a divenire adulti e gli adulti restano e ritornano bambini, o imparano a rimanere o ritornare ad essere tali. Noi ci creiamo giocando e creiamo le comunità di cui siamo parte.

In un saggio di particolare profondità analitica Luigi Pagliarani ha parlato di “noi adultescenti” [Per noi adultescenti, In L’educazione sentimentale, 11, 2008], anche per indicare l’eterno gioco che giochiamo con la vita. Dalle molteplici forme di approssimazione e divertimento, fino ai corteggiamenti come i giochi amorosi ed erotici, per giungere alle ludopatie e ai giochi con la morte che, come adolescenti e adulti, noi giochiamo, in forme diverse che oscillano tra il divertimento e la violenza organizzata. Il gioco, quindi, può assumere una tale varietà di espressioni che vanno dal divertimento gratuito fino al giocare in borsa, o alla roulette russa, con conseguenze di volta in volta diverse e persino opposte, tra l’euforia e la tragedia, con tutte le varietà intermedie. È consueto, ad esempio, che forzando la mano in una relazione, al momento di rischiare l’incidente comunicativo, giungiamo a dire: ma stavo solo giocando!   

 

Facciamo un gioco

Venite con me in una scena che ho vissuto da piccolo, nell’Irpinia degli anni ’60 del secolo scorso. Alla fine delle fatiche della mietitura, verso sera sotto la pergola dell’unico negozio di generi diversi che serviva ogni tanto anche un caffè fatto con la napoletana, si svolgeva un torneo di scopa. Un rito che coinvolgeva l’intera piccola comunità di quel villaggio rurale. Gente con le mani callose e la schiena rotta dalle fatiche, che si concedeva piccoli momenti di compagnia, di gioie e di rabbie condivise. Quell’anno in finale erano arrivati due tra i più pittoreschi abitanti di quel grappolo di umanità: Mastro Gino e Luigi Coticatosta. I cognomi nessuno li ha mai saputi. Valevano soprannomi legati soprattutto ai mestieri. Il primo, infatti, era un muratore, o almeno tale diceva di essere. Sfollato di guerra da Napoli, nessuno lo aveva mai visto mettere un mattone sull’altro. Il secondo, poi, faceva il pastore, ma di poche e sparute pecore raccolte in modi non sempre noti.

 

Del gioco della scopa però se ne intendevano. La finale da anni era stata quasi sempre loro. Il momento era sovrano e denso di emozioni. In piedi intorno al tavolino gli astanti gareggiavano a sporgersi, passando in silenzio ora dietro uno ora dietro l’altro, per cogliere gli andamenti del gioco. Facendosi sfuggire ogni tanto qualche commento sulle carte che avevano in mano i giocatori, redarguito da questi ultimi a suon di bestemmie. In palio c’era un caffè napoletano e tanta, ma tanta reputazione. Gli sfottimenti e le provocazioni crescevano, a mano a mano che ci si avvicinava ai momenti finali. Un grande gioco e una piccola guerra, al calar della sera, col venticello di ponente che finalmente mitigava la calura estiva. Quando le cose non andavano secondo i suoi desideri Mastro Gino si toglieva la paglietta sbattendola sul ginocchio, e Luigi levava una risata fragorosa mostrando i pochi denti color del muschio. Giunti all’ultima mano, non era ancora uscito il sette di danari, punto prezioso in quel gioco.

 

Aguzzati gli occhi e la memoria e calate le sopracciglia cespugliose, Luigi realizzò che, per come si erano messe le cose, il sette di denari che lui aveva in mano, sarebbe finito inevitabilmente a Mastro Gino. Questo per lui voleva dire perdere la finale del torneo. Insopportabile che a vincere fosse quel buon da niente di un napoletano che mangiava pane a tradimento, con una pensioncina dello Stato ottenuta per le solite vie grazie al favore di un politicante locale. Luigi allora strinse forte nelle sue mani rugose quelle due carte che gli restavano, rese così gonfie e grasse dall’uso, guardò il sette di danari con atteggiamento di sfida, e con gesto fulmineo se lo mise in bocca, masticandolo e ingoiandolo in un solo boccone. Anni dopo, generazioni successive, raccontano ancora, in quel piccolo luogo della campagna irpina, di quella volta che Luigi si mangiò il sette di denari pur di non cederlo a Mastro Gino.  

 

Il “come se” e la creazione del sé: finzione e simulazione per crescere, eeducare e vivere

Sia la finzione che l’illusione, proprietà costitutive del gioco, meritano una ri-considerazione anche semantica, per comprendere meglio come diventiamo umani e cosa significa essere umani. L’illusione è stata intesa principalmente come inganno, mentre implica la disposizione a giocare dentro le situazioni (da in e ludere) a partire dalla combinazione tra l’immaginazione e i dati di realtà e dalla loro molteplice interpretazione possibile. Strettamente e ulteriormente combinata con la finzione, l’illusione permette il gioco del “come se”. Proiettare se stessi in percorsi e processi che di volta in volta sollecitano e superano soglie e limiti, rilascia introiezioni estensive di sé e, di fatto, costituisce una delle principali vie di crescita, educazione e sviluppo. Per quelle vie ogni bambino e ogni bambina imparano a provare: si approssimano agli altri e al mondo e attivano il gioco del riconoscimento e della reciprocità.

 

Il movimento “verso te” e “verso me”, il processo di avvicinamento al mondo e di allontanamento dal mondo, richiamano la rilevanza del sistema sensorimotorio, sia nella creazione della propriocezione che nella definizione dello spazio peripersonale e delle zone di sviluppo prossimale. Approssimazione è un costrutto di particolare importanza nel gioco e nella vita: implica sia l’avvicinarsi che la mitigazione delle differenze, con la criticità e la precarietà di ogni relazione, e la relativa irriducibilità dell’uno all’altro. Nella precarietà e nell’incertezza emergono e si manifestano margini generativi che il gioco è particolarmente in grado di alimentare. “La cosa importante del gioco”, sostiene D. Winnicott, “è sempre la precarietà di ciò che si svolge tra la realtà psichica personale e l’esperienza di controllo degli oggetti reali. Questa è la precarietà del magico stesso, magico che sorge nell’intimità, in un rapporto che si riconosce come attendibile.” [D. Winnicott, 1971, Il gioco: Formulazione teorica, in Gioco e realtà, Armando, Roma; p. 93]. 

 

 

In ragione di quei margini ognuno ha l’opportunità di sporgersi sulla soglia di se stesso e dell’esperienza e quei movimenti alimentano la conoscenza incarnata (embodied cognition). Michel de M’Uzan ha parlato, in proposito, di “zona di transizione; spettro d’identità; zona di individuazione fluttuante”, [1989, During the session: consideration on the analist’s mental functioning, in Death and identity: being and psycho-sexual drama, Karnac Book, London 2013; p. 61]. Tutto ciò connette evocativamente il gioco dell’infanzia al gioco della vita. A quel gioco così intensamente narrato da Valdimir Jankélévitch in libri come Il non so che e il quasi niente [Einaudi, Torino 2011], o come Da qualche parte nell’incompiuto [Einaudi, Torino 2012]. 

 

Questo l’ho fatto io: azione, relazione, prodotto e riconoscimento

Il gioco come zona di transizione fluttuante convoca immediatamente lo spazio, quel paesaggio nel quale si svolge il dramma della circolarità tra mondo interno e mondo esterno, tra l’interno e l’intorno, con la mediazione dell’immaginazione, come evidenziato ne Il paesaggio mancante, [U. Morelli, in doppiozero, sezione “Ascolta”, 9 gennaio 2021]. Forzando gli argini e attraversando i margini tra io, altro e noi, i bambini e le bambine si mettono in gioco, sperimentano l’avvicinarsi agli altri (adgredior), l’aggressività, la sua elaborazione e il suo controllo. È in quelle dinamiche che si possono riconoscere le condizioni di elaborazione della cooperazione e del conflitto, inteso come incontro di punti di vista diversi, di interessi contrastanti, di valori e di conoscenze. Così come possono emergere situazioni antagonistiche in grado di far vivere l’esperienza delle soglie della distruttività.

 

Come sostiene T. H. Odgen, “Il soggetto diviene attraverso un processo di negazione creativa di se stesso”, e si manifesta nel suo continuo divenire nel gioco della vita come un “soggetto dialettico e decentrato” [1994, T. H. Ogden, Il soggetto freudiano, in Soggetto dell’analisi, Masson, Milano 1999]. Il gioco, in effetti, è creazione di sé, ma anche una delle più evidenti e diffuse occasioni di esperienze di negazione. Ci sarebbe molto da indagare e comprendere a proposito della rimozione delle esperienze di negazione, rimozione che è divenuta in molti casi un obiettivo nelle relazioni educative primarie e non solo, oggi. I costi di quella rimozione possono essere di una certa gravità per quanto riguarda lo sviluppo di un certo equilibrio e di una capacità di gestione sufficientemente buona dell’autorità interna. I risultati delle attività del gioco, anche quando sono simbolici e immateriali, rinviano e restituiscono agli autori/attori senso e significato, e come tali divengono fonti di riconoscimento. 

 

Estetica delle relazioni e prossemica: toccare/toccarsi tra comune e immune

Io/Noi/Loro possono essere le categorie in gioco nell’esperienza ludica, con livelli diversi di porosità e definizione di confini: è la dinamica del comune e dell’immune, quella dinamica che spesso è difficile tenere aperta. Sebbene sia difficile concepire un “noi” senza definire un “loro”, è il gioco che può tenere aperto la porosità e il flusso e riaprire in continuazione i rischi sempre presenti di stereotipia. La rilevanza del gioco, come quella dell’ironia, per una cultura comunitaria sta, probabilmente, nel contributo ad impedire che una comunità divenga setta, con esiti totalitari e auto ed etero-distruttivi. Interrogandosi sul significato da dare alla parola gioco, Gregory Bateson e il gruppo di Princeton, nel 1955, individuarono le molteplici stratificazioni del senso e del valore del gioco – con l’immagine della struttura “a buccia di cipolla” –, evidenziando l’importanza del “non” che limita senza definire; della complessità dell’affermazione: “questo è un gioco” e soprattutto dell’impossibilità di ordinare a qualcuno: “gioca!” [G. Bateson, Questo è un gioco, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996]. Sono la pervasività e i prodotti del gioco a coinvolgere una molteplicità di esperienze, tali da mettere perfino in discussione il rapporto tra gioco e realtà. Era stato J. Huizinga a estendere i modi di intendere il gioco, fino a ritenerlo un’invariante culturale, come riconobbe U. Eco [[J. Huizinga, Homo ludens, Einaudi, Torino 2002].

 

 

Abbiamo riconosciuto gli effetti di impoverimento derivanti dalla crisi pandemica con la necessità di sospendere la possibilità di toccare e toccarsi e accedere al comune, con una comprensibile ossessione immunitaria. Un’evidenza derivante da un esperimento sociale non voluto. Sono stati, l’empatia, che per noi umani non è una scelta, e i molteplici strati dei giochi relazionali a essere sospesi. A mancarci è stata ed è prima di tutto l’estetica delle relazioni, la dimensione sensibile. Ecco, il gioco, forse, è primariamente una via per l’educazione sentimentale, perché di bellezza si vive: l’alternativa è l’impoverimento educativo, in assenza di gioco e di possibilità di estensione di sé.

 

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