Raffaele Riba. Un giorno per disfare

31 Gennaio 2015

Un giorno per disfare è il primo romanzo di Raffaele Riba, cuneese classe 1983, ma risulta notevolmente diverso dalla stragrande maggioranza delle opere d'esordio che affollano le librerie. Snello come un racconto lungo, il romanzo di Riba affronta interrogativi per nulla scontati e le singole vicende esistenziali che mette a fuoco si svincolano da cliché di età o ruolo per aprirsi, nella seconda metà del testo, a una conclusione che pur venendo rivelata fin dalla prima pagina origina da dinamiche inattese.

 

La prima cosa che salta all'occhio, seguendo i personaggi di Raffaele Riba, è il loro immobilismo. Immobilismo che, si noti bene, non è assenza di mobilità. Trascinati da un paese all'altro, da una situazione a quella successiva, queste figure si abbandonano al movimento degli eventi, solcandone le onde come ipotetici tronchi. Abbiamo quindi Jacques, giornalista in quella fase di declino lavorativo che precede la pensione, che da un giorno all'altro osserva il suo corpo non rispondere più a comandi elementari come infilare un bottone nell'asola e, prima ancora di parlare con un medico, capisce di avere il Parkinson. Ci sono poi Agnès, che viene abbandonata e sprezzata dall'uomo che ama e dalla figlia, e Christine, questa stessa figlia, dedita a disfare rapporti nell'illusione di una libertà e una soddisfazione personale che non arrivano mai. E infine Matteo, il biologo ossessionato dalla “Teoria dell'inizio”, alla disperata ricerca di un'assoluzione del genere umano dai suoi comportamenti degenerati.

 

Queste quattro figure si incontrano e si scontrano per inerzia tra le pagine di Un giorno per disfare, senza arrivare mai a dei veri e propri punti di rottura, che, quando ci sono, passano sotto silenzio rimbombando di un rumore solo interiore. Christine si macchia della colpa peggiore di una figlia contro una madre, ma il distacco tra le due si compie nell'arrendevolezza della vittima e nell'indifferenza del carnefice. Anche alla rottura tra Agnès e Matteo, che si incontreranno tempo dopo, segue uno stallo silenzioso nuovamente dominato dall'arrendevolezza di lei e dall'indifferenza di lui. Christine e Matteo sono accomunati dalla ferocia con cui perseguono la propria ideale traiettoria di vita; ma se Christine, sperando di compiere il primo passo di una carriera ancora quasi inesistente, finisce per mettere in atto una grottesca rappresentazione in cui tormenta due gorilla con l'assordante suono di un'orchestra che per le due bestie è devastante e minaccioso, Matteo rimane schiacciato dalla sua necessità di dare un senso alla storia umana e soccombe a una teoria le cui premesse sono scientifiche e i cui esiti affondano in una mania esaltata e salvifica.

 

Mi sembra allora che Un giorno per disfare voglia essere la storia di una distanza incolmabile tra uomo e uomo, tra esistenza ed esistenza. Gli uomini e le donne che popolano l'immaginario di Riba guardano l'altro come si guarda un’immagine, qualcosa di evidente ma poco tangibile al tempo stesso. Distanza che accomuna anche i primati, attori della buffonata inscenata da Christine, succubi di quel medesimo distacco dal reale degli esseri umani che li hanno costretti alla cattività. Se Jacques, narratore che tira le fila della vicenda, resta integro nel suo percorso di uomo, lottando per essere qualcosa di più di «quello che rimane degli spazi lasciati dalla malattia», gli altri personaggi sono schiavi di quella distanza tra esistenza e immagine che domina la ricerca di Matteo.

 

Scrive Riba: «una sera come milioni di altre un uomo ha visto un tramonto, ha cominciato ad ammirarlo e questo voleva dire non farne irrimediabilmente più parte. Da allora l'esperienza è diventata dato, rappresentazione, cultura. Ma è anche da quell'attimo che l'essere umano ha cominciato a perdersi nella voragine dei dettagli. Il nostro vicolo evolutivo». Un autoesiliarsi dal proprio ecosistema, una cattività autoimposta e radicata che Christiane, Agnès, e persino lo stesso Matteo, perseguono con volontà distruttiva, nei confronti del sé e dell'altro, fino all'epilogo della vicenda. Un epilogo la cui tragicità affonda una volta ancora nella stasi. In un'immagine, appunto.

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