Ralph Steiner. Mechanical Principles

14 Settembre 2011

La data di realizzazione di Mechanical Principles (Ralph Steiner) oscilla tra il 1930 e il 1931. Il cofanetto dell’Anthology Film Archive “Unseen cinema”, di cui è parte, lo data 1930. Di certo è nel 1931 che il film viene mostrato, in una serata particolare intitolata “Music and Film”: ci riferiamo alla sera del 15 marzo 1931, a New York, dove Aaron Copeland e Roger Sessions portano a termine le loro serie con un concerto che prevede la proiezione dei tre film fino ad allora realizzati da Ralph Steiner: H2O (1929) e Surf and Seaweed (1929-30), oltre al nostro già citato.

 

È Colin Mc Phee ad aver scritto la partitura per l’accompagnamento dal vivo di H2O e Mechanical Principles. Partiture che sono andate perdute. Sembra che lo stesso McPhee le abbia distrutte. Come proiettare dunque oggi questo film? Senza accompagnamento, oseremmo dire. Il ritmo è già parte integrante del film stesso. Dieci minuti su bielle, pistoni, ingranaggi, rotelle dentellate che si incastrano, leve che si distendono verticalmente oppure orizzontalmente, fino alla loro mostruoso ingrandimento in dettaglio; a volte, gli ingranaggi, le leve, somigliano a qualche strano mostro che addenta la sua preda.

 

Sono pezzi di macchine celibi. Steiner rimase folgorato da un’esposizione presso lo Science Museum di New York.

 

Macchine Celibi? Questi ingranaggi non producono nulla. Non sono parti di macchinari industriali (Modern Times - Chaplin). Non evocano la bellezza e la forza del popolo comunista (L’uomo con la macchina da presa e anche Entusiasmo - Vertov), non sottendono neppure la scoppiettante “vita moderna” (Ballet mécanique – Murphy e Léger). Sono pezzi “eccentrici”, avulsi da ogni profitto industriale: mostrano solo il loro corpo in legno o metallo, il loro oscillare pigro. Sono splendidi movimenti in pura perdita, proiettati a 18 fotogrammi al secondo, per poterne gustare meglio la modulazione, compreso l’effetto flicker che ne deriva (quel minimo scintillio bianco tra il passaggio da un fotogramma all’altro).

 

Quale miglior suono, dunque, se non quello del proiettore stesso. Questi ingranaggi non sono altro che la veduta esplosa (o in abisso), o una specie di stemma araldico degli stessi meccanismi del proiettore che li trascina, proiettandoli sullo schermo. Ma cosa producono dunque?

 

C’è qualcosa di magnifico in questo susseguirsi di molle, traiettorie sghembe, curvilinee, spiraliformi. Un ritmo dicevamo. Ma oltre a questo? Per un istante ho l’impressione di trovarmi di fronte a parti di quel marchingegno folle che inscrive il corpo ne La colonia penale di Franz Kafka. Che cosa compie quella macchina celibe? Non fa altro che mangiare il tempo, divora il tempo che resta a quelle figure romanzesche composte con l’inchiostro. E qui? Sì, è il tempo che espone se stesso. Questi “eccentrici” non sono altro che anonimi custodi del “tempo”. Lo svolgono, lo accelerano, lo rallentano, lo mangiano. Noi non facciamo altro che seguirne il battito. Oppure no, restiamo lì a chiederci a cosa serva tutto questo, inebetiti, giusto per non essere divorati dalla loro scansione ipnotica.

 

Dunque, anche se nella versione qui linkata il film viene accompagnato da una nuova partitura musicale, togliete il volume e godetevi questa specie di sinfonia celibe prodotta dall’ultima macchina costruita nell’Era delle Macchine (come ricorda Hollis Frampton): quella macchina è il cinema.

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