Romanzo postumo / Bolaño, Lo spirito della fantascienza

2 Febbraio 2018
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Se all’esploratore cronico di vocabolari venisse voglia di interrogare il Dizionario analogico della lingua italiana Zanichelli circa il lemma utopia, si imbatterebbe nel seguente elenco di caratteristiche a esso associate: “illusorio”, “chimerico”, “che non sta né in cielo né in terra”, “irreale”, “fantastico”, “meraviglioso”, “straordinario” e così via, fino ad arrivare al collegamento ipertestuale con l’aggettivo "impossibile”. In effetti, si è soliti definire “utopistici” quei progetti che poco si appigliano alla concretezza, così come è stata spesso considerata “escapista” quella letteratura di genere in grado di stimolare nei lettori meno avvertiti un forte disinteressamento per la realtà che li circonda, favorendo in questo modo il moltiplicarsi di menti distorte ed estraniate. 

 

Qualora il nostro James Cook della lingua, che balzella da una catena lessicale all’altra con la leggiadria del camoscio e plana sicuro sulle grandi aree semantiche come un condor delle Ande, si desse anche ai sollazzi assicurati dalla lettura di quella fantascienza statunitense che affronta temi utopici e che molto deve ai pulp magazine, si troverebbe a non essere soddisfatto delle analogie del dizionario e a volere cercare altro. Perché, a dire il vero, quella è una narrativa che poco c’entra con l’evasione, al contrario: sono storie che hanno a che fare con l’inquietudine generata dal tentativo di raccontare le possibilità sottaciute e latenti del genere umano, l’angoscia prodotta dalla perdita di identità, e che insistono nella costruzione di immaginari potenziati dalle peggiori storture di questo mondo. 

In tal caso, allora, il sopraccitato lettore dovrebbe immediatamente correre ai ripari dando senz’altro ragione a Fredric Jameson, che in una delle primissime pagine del suo saggio Il desiderio chiamato Utopia (trad. Giancarlo Carlotti, Feltrinelli, 2007) afferma: “Non è possibile immaginare un qualsiasi cambiamento fondamentale nella nostra società che non sia dapprima annunciato liberando visioni utopiche come tante scintille dalla coda di una cometa” (p. 11). Altro che divertimento.

 

Ma allora oltre l’immediatezza del vissuto che tiene ancorati a un assodato principio di realtà c’è l’immenso territorio del desiderio? Sì. Lo sa bene Jan Schrella, che scrive lettere ai suoi autori di fantascienza preferiti elencando i suoi timori per l’assetto politico internazionale mentre fantastica sugli zigomi splendenti di Thea von Harbou, attrice, autrice e regista tedesca che sostenne il regime nazista. 

Jan Schrella è uno dei due giovani protagonisti de Lo spirito della fantascienza, romanzo postumo di Roberto Bolaño che l’autore terminò nel 1984 ma che è rimasto inedito fino al 2016, quando è stato pubblicato dalla casa editrice spagnola Alfaguara. Ora è arrivato anche in Italia, tradotto da Ilide Carmignani per Adelphi. 

 

 

Sono gli anni Settanta e siamo a Città del Messico. C’è stato il golpe in Cile, c’è la Guerra Fredda. Sull’Avenida Insurgentes, o, se preferite, in calle Bucareli, avevamo salutato i poeti realvisceralisti protagonisti de I detective selvaggi (pubblicato in Spagna nel 1998; in Italia edito da Sellerio nel 2003 nella traduzione di Maria Nicola e da Adelphi nel 2014 nella traduzione di Ilide Carmignani), emanazioni letterarie degli infrarealisti, gli amici messicani di Roberto Bolaño che nel 1976 fecero la prima lettura pubblica di Déjenlo todo, nuevamente (Mollate tutto, di nuovo), uno dei loro manifesti, scritto proprio dall’autore cileno. 

 

Anche Jan Schrella è cileno, come del resto il suo amico Remo Morán, con cui condivide la stanza. Jan ha diciassette anni, cammina spiritato in Avenida Insurgentes, “come fiutando qualcosa” (p. 28) – forse aspetta Arturo Belano e Ulises Lima che non arriveranno mai – “su e giù, su e giù, come un soldato della Wehrmacht” (p. 94), ed è fermamente convinto che qualsiasi giovane autore latinoamericano abbia il sacrosanto diritto di scrivere di viaggi interplanetari, per non dipendere per sempre “dai sogni – e dai piaceri – altrui” (p. 30). 

 

Jan e Remo si sono trasferiti a Città del Messico per diventare poeti, ma in realtà lo sono già per diritto tutelato dalla legge in vigore in tutte le pagine di Roberto Bolaño, perché ai giovani dediti alle lettere che riempiono la sua opera non occorrono pubblicazioni per sapere che “le vite narrativamente più interessanti [sono] quelle di chi si dedica alla poesia o, comunque, alla letteratura [...] come se lavorare sulla parola [...] fosse l’impresa più appassionante, degna di essere messa al centro della propria rappresentazione del mondo” (Angelo Morino, “Sudamericani perduti nel mondo”, in Notturno cileno, postfazione, Palermo, Sellerio, 2003, pp. 163-164). 

 

È proprio così che si manifesta l’impulso utopico nella maggior parte delle storie di Roberto Bolaño, perché permea l’esistenza di tutti i personaggi principali. In Lo spirito della fantascienza, come in tutte le sue opere, leggiamo di biografie inventate ma verosimili governate da un’intransigenza artistica in grado di superare il buon senso: da B, protagonista di alcuni tra i racconti più noti di Chiamate telefoniche (trad. Barbara Bertoni, Adelphi, 2012) e Puttane assassine (trad. Maria Nicola, Sellerio, 2004), fino a Benno Von Arcimboldi, il protagonista in contumacia di 2666 (trad. Ilide Carmignani, Adelphi, 2007-2008), passando per Arturo Belano, che compare anche in Amuleto (trad. Ilide Carmignani, Adelphi, 2010) e Stella distante (trad. Barbara Bertoni, Adelphi, 2012), e Carlos Wieder, il talentuoso poeta omicida di Stella distante

È proprio la tensione tra questi due elementi a essere sempre presente, vale a dire una fede incrollabile nella dedizione alla letteratura che coesiste con il suo rovesciamento, la sconfessione dell’inveterata credenza secondo cui la letteratura possiede un valore di per sé progressivo quando non salvifico. Quest’ultimo elemento è esplicitato nella cosiddetta trilogia della dittatura (Stella distante, Amuleto e Notturno Cileno), in cui vi è l’avverarsi di una profezia al contrario, il compimento distopico delle premesse avanguardiste, la cui efficacia estetica è personificata proprio da Carlos Wieder, artista sopraffino e assassino seriale.

 

 

Qui, in questo libro che giunge al lettore come fosse un’illusione ottica, uno scherzo della mente, c’è già (quasi) tutto. Come si legge negli appunti in appendice al volume, fin dal 1980 l’autore cita Lo spirito della fantascienza nella sua corrispondenza. Sono gli anni in cui Bolaño si dedica alla costruzione di un immaginario che fa della cosiddetta autofinzione un abile esercizio di distanziamento ironico e parodico da tutta la fenomenologia della sua attività artistica e letteraria tra le file dell’avanguardia, di cui però non rinnegherà mai l’atteggiamento programmaticamente antagonistico. Vi è in atto, in Lo spirito della fantascienza, una coscienza anticipatrice che è al quadrato, perché precorre temi e personaggi dell’autore mettendo contemporaneamente in scena le sue aspettative. E l’impulso utopico, qui, prende due strade, che si alternano seguendo a loro volta la successione delle parti di cui è composto il romanzo. 

 

Tale impulso si manifesta innanzitutto nelle lettere di Jan Schrella agli scrittori di fantascienza, poi guida le disordinate indagini che Remo Morán e l’amico José Arco – uno di quei personaggi a cui ci si affeziona subito – portano avanti senza riuscire a risolvere il mistero di un complotto che avrebbe a che fare con alcune riviste letterarie di nicchia. 

Le azioni di Jan e Remo sono dettate dall’impulso utopico perché tutti e due sono alla ricerca di qualcosa che li possa oltrepassare sfondando il muro delle contingenze della vita, perciò le loro vicende esistenziali rappresentano “una significativa riflessione sulla differenza, sull’alterità radicale e sulla natura sistemica della totalità sociale” (Fredric Jameson, p. 11). Alle storie parallele dei due giovani cileni se ne somma una terza, quella dei capitoli dell’intervista futura a un autore di successo, molto probabilmente lo stesso Jan che continua a sognare Thea von Harbou ma che nel frattempo ha vinto qualche premio importante. È superfluo segnalare la singolare corrispondenza tra questa intervista fittizia e le dichiarazioni di Roberto Bolaño raccolte nel libro L’ultima conversazione (trad. Ilide Carmignani, SUR, 2012). 

 

Carlos Wieder, Jan Schrella e Remo Morán, Arturo Belano e Ulises Lima, Benno Von Arcimboldi, vivono la stessa condizione, quella di chi va perennemente in esplorazione perché non ha nulla da perdere, “di spalle, guardando un punto ma allontanandosene, in linea retta verso l’ignoto” (I detective selvaggi, p. 21). Ognuno di questi personaggi ha scelto in qualche modo di stare da un’altra parte, non importa dove, se nelle nuvole, in Africa o seppellito dentro un materasso sfondato dal peso dei libri, ciò che conta è la condizione solitaria propria dei pionieri, dei cosmonauti e degli extraterrestri, o di chi è riuscito a vedere l’Aleph, come accade al personaggio Borges nel racconto omonimo di Jorge Luis Borges, o come è successo all’autore cui sono dedicate le pagine dell’intervista, lo Jan adulto menzionato poc’anzi. 

Infatti, anche in Lo spirito della fantascienza c’è una specie di Aleph, vale a dire un luogo dove si trovano tutti i luoghi della terra, ma non è nella cantina di una famiglia agiata, bensì in una specie di granaio, che è poi la fantomatica Accademia della Patata dove tutti i poeti-lumpen si formano. È un punto del granaio in cui è possibile interrogare il mondo ma questo non risponde mai. C’è un microfono per trasmettere un programma radiofonico in diretta che nessuno ascolta e c’è anche una stazione da radioamatore inutile perché nessuno si mette in contatto. Poi c’è “una miriade di cartine geografiche sparse per terra” (p. 20) e, per finire, un’opera sconosciuta, costellata di messaggi cifrati, la Historia paradójica de Latinoamérica, l’unica opera conservata dall’Accademia, “Un mattone di cinquecento pagine, riccamente illustrato dall’autore stesso, in cui si narrano un’infinità di aneddoti, metà dei quali non si svolge in America Latina” (p. 41). 

 

Chiedendo, in una delle sue lettere, la pubblicazione di un’antologia di autori provenienti da tutte le Americhe “che abbiano trattato nel modo più radicale e con evidente piacere personale il tema dei rapporti carnali e del futuro” (p. 161), Jan Schrella formalizza concettualmente ciò che il suo amico Remo Morán sta già mettendo in pratica: una specie di manifesto panamericano di comunione sessuale. Così, secondo colui che avrebbe dovuto essere il figlio di Fidel Castro – è scritto nel foglio della miniagenda di Bolaño che si può leggere a p. 204: “Fidel Castro, padre de Jan, recibe a éste en el Aerp. de La Habana” –, si dovrebbe arrivare alla risoluzione dei conflitti internazionali e, perché no, alla dissoluzione degli Stati nazionali, grazie alla fondazione della “terra di nessuno dell’amore”, un luogo che forse è già stato descritto nella Historia paradójica, in cui molto probabilmente José Martí sarebbe il proprietario di una catena di hostess club asiatici.

 

Lo spirito della fantascienza non è un libro di fantascienza, ma un gioioso omaggio e un appello accorato a tutta quella letteratura d’anticipazione il cui motore è costituito da una visione. Per tutta la vita il suo autore è stato capace di prefigurare scenari futuri creando un universo di figure desideranti dedite al fallimento e governate dalla pulsione ascetica della letteratura. Roberto Bolaño, visitatore del futuro, è stato un visionario del fallimento destinato, suo malgrado, a perdurare. Del resto, paradossalmente, anche in questo caso si può parlare di sconfitta, che è da sempre l’elemento indispensabile per le utopie più riuscite.

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