Traduzioni e editoria

23 Novembre 2012

Si sono svolte da poco le Giornate della traduzione letteraria di Urbino 2012, rassegna a cura di Stefano Arduini e Ilide Carmignani che in dieci anni di attività è diventata ormai un punto di attrazione e convergenza dell’intero panorama traduttologico italiano. In questa occasione quattro ospiti d’eccezione - Ilide Carmignani (curatrice delle Giornate), Renata Colorni (Mondadori), Yasmina Melaouah (traduttrice), Alberto Rollo (Feltrinelli) - hanno dialogato per doppiozero sui complessi rapporti tra traduzione letteraria ed editoria.

 


 

Cogliendo l’occasione del decennale delle Giornate di Urbino, mi sembra che sia possibile azzardare un primo bilancio, una prima mappatura del territorio traduttologico italiano e delle sue metamorfosi. Come è cambiato, in buona sostanza, il modo di “fare traduzione” negli ultimi dieci anni?

 

Carmignani. Quando sono nate le Giornate della traduzione letteraria di Urbino, dieci anni fa, c’è stata una forte difficoltà all’inizio, da parte mia e di Stefano Arduini, a individuare i traduttori da invitare, perché i traduttori erano veramente invisibili, molto poco conosciuti. E quando si trovava finalmente il traduttore, capitava che lui stesso, una volta contattato, ci dicesse: “Ma io che posso venire a dirvi?”. C’era una specie di blocco: il traduttore non doveva prendere la parola dentro il testo e non si sentiva autorizzato a prenderla neanche fuori del testo, come se l’invisibilità strutturale del suo ruolo, in qualche maniera, traboccasse fuori della pagina, condannandolo a una specie di afasia. Il problema, quindi, era trovare un linguaggio nuovo per esprimere un’esperienza particolarissima e liminare come quella della traduzione, un linguaggio spesso rizomatico e infinitamente meno formalizzato rispetto ai codici specialistici delle discipline tradizionali che attraversano la mediazione linguistico-culturale. Ecco, oggi, a distanza di dieci anni, penso che questo linguaggio sia stato trovato; è un linguaggio certamente ancora in fieri e che può essere declinato in vario modo, ma io credo che adesso il traduttore non si chieda più “che cosa raccontare”, anzi che spesso si trovi davanti fin troppe narrazioni possibili della sua esperienza.

 

Melaouah. Sì, in effetti, dal punto di vista dei traduttori sono cambiate molte cose. In meglio, direi. C’è una maggiore possibilità di incontrarsi, di confrontarsi, di uscire da quella situazione di isolamento e solitudine che di fatto era la regola negli anni in cui io ho iniziato a tradurre. La nascita del sindacato, delle mailing list settoriali hanno dato una consapevolezza professionale maggiore ai traduttori e certamente hanno contribuito a togliere o perlomeno ad alleggerire una certa tendenza a piangersi addosso che prima mi sembrava comune un po’ a tutti noi.

Dal punto di vista strettamente editoriale, mi sembra però che la situazione sia peggiorata in maniera più che evidente. La crisi fortissima di questi ultimi due o tre anni ha portato le case editrici a tagliare i costi il più possibile, traducendo meno autori stranieri e privilegiando gli italiani, magari anche esordienti. Sono state tagliate anche le spese interne alle case editrici, per cui se prima un editore, per un romanzo straniero, pagava la traduzione e in più pagava anche un certo lavoro di revisione “di qualità”, adesso la revisione viene quasi sempre fatta da personale non specializzato, incidendo moltissimo sul risultato finale del libro. A livello pratico devo dire che, per la prima volta in vita mia, ho visto una riduzione molto forte del volume dell’offerta rispetto agli anni in cui ho iniziato a tradurre. A me non è mai capitato di “andarmi a cercare del lavoro”, mentre mi rendo conto che se tu sei abituata a certe tariffe oggi come oggi devi essere invece disposta a ridimensionarti per non andare fuori mercato.

 

Colorni. Bisogna sottolineare però che il panorama editoriale è ancora oggi, per fortuna, molto frastagliato. Se devo pensare ai cambiamenti nel mondo della traduzione di questi ultimi dieci anni, devo dire che per quanto mi riguarda, per il luogo stesso in cui lavoro, non ho avvertito questa grossa rivoluzione portata dalla crisi. I Meridiani per loro statuto si occupano esclusivamente di traduzioni di classici e quindi sono “costretti” in qualche modo ad avvalersi di traduttori già molto sperimentati. Non è di fatto possibile, per la collana dei Meridiani, convogliare forze completamente nuove nella traduzione di grandissimi autori, così come non è possibile fare a meno di tutta quella serie di cure “artigianali” nei confronti della traduzione che altrove sono venute a mancare. Lavorando da diciassette anni alla direzione di questa collana, mi sento di affermare che i Meridiani sono un luogo editoriale dove resistono ancora le regole auree dell’editoria tradizionale di alto livello. Detto questo, vedo che sia le Giornate della traduzione letteraria di Urbino che gli incontri dell’Autore Invisibile al Salone del libro di Torino registrano sempre più un affollamento notevole di pubblico, cosa che evidentemente rimanda a un interesse crescente, nonostante la crisi, verso il tema della traduzione e che mi sembra un segnale estremamente positivo.

 

Rollo. In questi ultimi dieci anni, più che cambiare il modo di fare traduzione, a me sembra piuttosto che sia cambiato il modo in cui i traduttori e gli editori vengono in contatto, e soprattutto trovo che sia aumentata decisamente l’offerta di traduzione in ragione di un processo estensivo dei master (universitari e non) che girano intorno alla traduzione e ai quali spesso noi attingiamo come case editrici. D’altro canto non si può negare che questo processo estensivo abbia prodotto anche un eccesso di offerta creando delle aspettative che forse il mercato della traduzione letteraria non può interamente coprire. E proprio per questo mi sembra importante sottolineare che, oggi come oggi, nel processo formativo di un traduttore non ci deve essere più soltanto la pura e semplice traduzione, ma anche qualcosa in più, una consapevolezza e una competenza più ampie. Non basta più che un giovane sappia tradurre. Deve sapere scegliere, proporre un autore, sapere quali sono le case editrici che lo pubblicano, sapere cosa si pubblica in America, chi sono gli autori che si impongono, in sintesi, deve entrare in una dimensione che abbia anche a che fare con un principio di scoutismo. Non è più possibile dialogare con l’editor di competenza con l’occhio sbarrato di chi non sa niente. Non è più possibile dire: “mi piacerebbe tanto iniziare a tradurre, fatemi fare una prova di traduzione”, perché la casa editrice oggi è un’impresa e non ha più i tempi e gli spazi per verificare questo tipo di risorse.

 

Mi sembra che una delle metamorfosi più evidenti di questi ultimi anni sia il passaggio dalla figura del traduttore “singolo” - personaggio isolato, chino sul proprio lavoro tra le quattro pareti di una stanza - al traduttore come elemento attivo all’interno di una “rete” di rapporti sempre più ampia e articolata, sia al di fuori che all’interno delle case editrici.

 

Carmignani. Questi ultimi anni hanno visto la crescita esponenziale di luoghi e strumenti in grado di facilitare l’incontro e il dibattito tra le varie figure legate alla traduzione letteraria. Non solo Le Giornate di Urbino, ma l’Autore Invisibile a Torino e gli incontri sulla traduzione al Pisa Book Festival, le mailing list biblit e qwerty, la Casa delle traduzioni che ha aperto a Roma, il sindacato STRADE (derivazione di SNS traduttori nato anni fa proprio a Urbino in una sessione autogestita) hanno creato una vera rivoluzione nei rapporti professionali fra i traduttori. Con la riforma universitaria, inoltre, la traduzione è entrata finalmente anche nel mondo dell’Accademia italiana, certo con risultati abbastanza dubbi, bisogna ammetterlo. L’Università, di fatto, ha approfittato della traduzione letteraria per attrarre studenti, per guadagnare iscritti, affidandone però poi l’insegnamento a linguisti, cioè a persone del tutto prive di esperienza diretta. Un traduttore non è un linguista - anche se lavora sulla lingua a livello molto profondo - non è un teorico della traduzione, non è uno studioso di letteratura né un critico letterario, non è un esperto di studi culturali, ma è una figura a sé con una competenza fortemente caratterizzata. Una competenza che si trova esattamente al centro di tutte le discipline che ho appena citato e le costringe in qualche modo a fondersi (la famosa arte del métissage di cui parla Glissant). La traduzione letteraria deve essere riconosciuta in questa sua specificità.

 

Melaouah. Al di là di questa “rete”, di questa crescita di rapporti che io trovo del tutto positiva e stimolante, il lavoro quotidiano del traduttore resta però sempre legato a un’idea di evidente singolarità. Nel mio lavoro sulla pagina, io sono un traduttore “singolo” in modo più che estremista. Non riuscirei mai a tradurre, per esempio, un libro a quattro mani. Ogni virgola del romanzo su cui sto lavorando deve essere sempre “mia”, decisa e voluta da me; cosa che comporta da una parte un controllo maniacale del testo e dall’altra anche un forte bisogno di dialogo con un revisore che sia in grado di sottrarmi a questa sorta di follia ossessiva. Il problema è che, oggi come oggi, di revisori che conoscono bene il francese ce ne sono sempre meno. Avere un revisore che avesse più esperienza, che fosse “più bravo” è stata da sempre per me una condizione essenziale per la buona riuscita di un testo. Oggi invece nelle case editrici capita spesso e volentieri di essere riletti da stagiste venticinquenni che neanche conoscono il francese e ti fanno perdere una marea di tempo inutile inserendo correzioni folli che poi devi rivedere e ricorreggere per non fare uscire con il tuo nome un’opera del tutto delirante.

 

Colorni. Per rimanere nel tema del rapporto traduttore-revisore, posso dire che io personalmente ho lavorato molto a lungo da Adelphi - occupandomi sempre di letteratura di area tedesca - sia come traduttore che, molto più spesso, come revisore. Le revisioni ricordo che prendevano mesi e mesi di lavoro. E questo era considerato, all’interno della casa editrice, un impiego di tempo del tutto normale; un redattore era pagato espressamente per rivedere un numero limitato di libri all’anno, libri che venivano assegnati ai traduttori già dopo severe prove di traduzione, dopo minuziose analisi di specimina traduttorii, ma che nonostante questo richiedevano comunque in seguito un grandissimo lavoro di revisione. Anzi, potrei dire che spesso e volentieri le  mie revisioni sconfinavano non dico con il rifacimento del testo, ma quasi - cosa che normalmente i traduttori accettavano di buon grado, riconoscendo nel revisore qualcuno che era più competente, più “bravo” di loro. Io non credo sia possibile accettare che qualcuno metta mano a un testo che tu hai scritto e che poi tu vai a firmare se non riconoscendo a questo qualcuno un’autorevolezza e una esperienza indiscusse.

 

Rollo. In effetti il revisore, se non è un revisore stupido o invasivo, diventa davvero l’Altro, colui che può realmente contribuire alla bontà del prodotto. Perché il traduttore in realtà - parliamoci chiaro - quando esce dalla traduzione è un po’ come lo scrittore quando esce dalla stesura del proprio romanzo. Magari è riuscito anche a entrare nel mondo del testo su cui ha lavorato, l’ha colto, ne ha colto la tonalità, però possono essergli sfuggite delle cose proprio in ragione del suo entusiasmo, in ragione della sua stessa bravura, della sua vicinanza con il testo. Ed è qui allora che entra in gioco il revisore, guardando il testo da un altro punto di vista, più distante, più neutro e dialogando, da questa distanza, con il traduttore. Il revisore poi, a mio avviso, ha anche un compito fondamentale: il controllo della resa in italiano dell’opera. I traduttori dovrebbero mettersi in testa che va benissimo conoscere la lingua di partenza, ma che è ancora più importante conoscere la propria lingua. E il revisore ha proprio questo compito specifico, importantissimo, il controllo dell’italiano. Perché, non dimentichiamolo, ogni traduzione letteraria è in prima istanza un libro da leggere, un romanzo.

 

Un altro cambiamento evidente mi sembra il costante e progressivo aumento di visibilità del traduttore all’interno della filiera editoriale, come se ci fosse una tendenza sempre più forte da parte dei traduttori ad assumersi la piena responsabilità della propria voce all’interno del testo. Ultimamente si è parlato molto del concetto di co-autorialità, ad esempio, come di un elemento fondamentale nei rapporti tra autore-traduttore-casa editrice.

 

Carmignani. Che il traduttore letterario sia co-autore non lo diciamo noi, lo dice la legge stessa del diritto d’autore. Anche se questa cosa in Italia per tanti motivi tende a passare inosservata, è in realtà un dato di fatto. Dal momento in cui noi traduttori  firmiamo contratti “di edizione di traduzione”, possiamo certamente dire che il traduttore è a tutti gli effetti “l’autore della traduzione”.

Per quanto riguarda il modo di fare traduzione, la mia idea del rapporto fra traduttore e autore è, direi, abbastanza tradizionale. Credo che il traduttore debba restare giustamente invisibile sulla pagina, anche se questa invisibilità totale non è altro, in realtà, che una tensione verso un ideale irrealizzabile. La traduzione è un lavoro prevalentemente “interpretativo”, e poi, purtroppo o per fortuna, le lingue non sono congruenti e quindi non è possibile restituire sulla pagina “tutto il testo e solo il testo, senza aggiungere o sottrarre nulla. Il residuo traduttivo, l’impossibilità di dire tutto, e contemporaneamente di farsi schermo neutro, pura invisibilità, è un lutto che il traduttore impara a gestire negli anni. Del resto, non solo la traduzione, ma ogni forma di interpretazione è condannata a essere parziale. Come scriveva Henry James, «the whole of anything is never told».

 

Melaouah. Anche per me il concetto di co-autorialità non è la prima cosa che mi viene in mente quando penso a un testo. Ovviamente tengo molto alle mie frasi e so che nei romanzi che traduco saranno le “mie” parole - le parole che ho scelto io - a scorrere sotto gli occhi dei lettori, però alla fine io ho più una concezione di “servizio” che di “co-autorialità” nei confronti dell’autore. Devo dire anche che ho avuto la fortuna di lavorare con persone del tutto speciali, come Pennac, che hanno da sempre avuto con me un rapporto molto paritario. In tempi insospettabili, Pennac ha deciso di concedermi una parte dei suoi diritti, decurtandola direttamente dal suo contratto con Feltrinelli, cosa che all’epoca aveva creato un discreto panico in casa editrice.

 

Rollo. Io credo invece che l’idea di co-autorialità costituisca un elemento fondamentale all’interno del processo di traduzione. Il traduttore ha diritto a una visibilità sempre più spiccata perché il suo è a tutti gli effetti un lavoro decisivo sull’opera originale e questa forma di autorità gli deve essere in qualche modo riconosciuta. Un aspetto su cui non si ragiona mai tanto - e che gli stessi traduttori a volte fanno fatica a mettere in atto - è che il traduttore, mettiamo al secondo o al terzo libro di un certo autore, deve certamente stabilire una relazione con lui, non perché il testo in sé necessiti di questo tipo di rapporto – per me ogni testo va tradotto in totale solitudine, in absentia auctoris – ma per riuscire a stabilire un nesso, un contatto con l’autore e a guadagnarsi così la sua fiducia. Per esempio, quando un autore straniero viene in Italia a presentare il suo romanzo, è bene che il suo traduttore ci sia, lo segua, non come suo interprete, per carità - per questo ci sono persone specializzate - ma per proseguire e cementare un dialogo che si è venuto a stabilire tra i due co-autori. Ovviamente di un’operazione del genere deve essere responsabile in prima battuta l’editore, avviando, con questa triangolazione traduttore-autore-editore, una sorta di fidelizzazione dell’autore verso la casa editrice che l’ha preso in carico.

 

Colorni. Senza dubbio, all’interno del mondo dell’editoria letteraria, il traduttore è a tutti gli effetti un co-autore. Abbiamo esempi preclari di autori che non hanno avuto il riconoscimento critico adeguato alla loro statura autoriale, fino al momento in cui non hanno trovato una voce di traduttore che non fosse in grado di donargliela, rendendo questa loro stessa statura “visibile” agli occhi di tutti. Il catalogo Adelphi - tanto per citarne uno tra mille - parla chiaro da questo punto di vista. Non è che Joseph Roth non fosse mai stato pubblicato in Italia prima che lo facesse Adelphi, solo, era stato pubblicato in traduzioni del tutto “dimenticabili” dal punto di vista letterario. Nel momento in cui una traduzione “dimenticabile” è stata sostituita invece da una “indimenticabile”, ecco che per quell’autore, lo stesso autore per entrambe le edizioni - stessa persona, stessa voce, stesso libro - è arrivato il successo. È stato così per Roth, ma anche per Simenon, per Kundera, per centinaia di scrittori che, senza la voce del proprio traduttore, in Italia probabilmente non sarebbero mai diventati quello che sono.

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