Dimmi, o luna: a che vale al pastor la sua vita?

7 Gennaio 2015

Preci (Valle Castoriana, Umbria). Molti di noi sono convinti che la vita in campagna sia semplice. Per non arroccarsi troppo su questa depistante certezza è utile, di tanto in tanto, perdersi. Inoltrarsi lungo itinerari fuori mano. Attraversare ad esempio la dorsale appenninica e procedere lungo la valle Castoriana, che da Norcia, nel cuore dell’Umbria, stende il suo paesaggio incontaminato e rasserenante a ridosso dei severi Monti Sibillini.

La prima meta è l’abbazia benedettina di Sant’Eutizio, in quel di Preci. Se dal fondovalle si alza lo sguardo ecco la collana di paesetti arroccati e chiese romaniche. Tutti rimessi in piedi con pazienza e gusto dopo il terremoto del ’79. Il traffico è inesistente: guidando si sentono le cicale e lo scorrere dei torrenti.

 

 

A sera, mentre con don Luigi Tiana, priore di Sant’Eutizio, torno in auto dalla processione che come tutti gli anni accoglie gli abitanti emigrati nelle grandi città e venuti a riaprire per qualche giorno le loro vecchie case, incontro una volpe. Attraversa la strada proprio sotto il monastero: ha la coda rossa immensa, guarda con occhi interrogativi e curiosi. Poi, con dignitosa calma, sparisce tra gli alberi.

 

I monaci di Sant’Eutizio si alzano presto. Qualcuno però, attorno all’abbazia, si alza ancora prima. I pastori che vivono e lavorano in questa vallata, per esempio.

 

Santino Cetorelli ha 66 anni e alle 4 del mattino si sveglia per raggiungere, da Campi, la località del fondovalle dove sta la sua azienda agricola (180 ettari a cereali e foraggio), le oltre quattrocento pecore che in estate tiene ai pascoli. Bisogna mungerle, abbeverarle, controllare che stiano bene. Poi di corsa ritorna in fattoria dove è già all’opera Angela, la moglie, che sovrintende al caseificio dove si lavora il latte e si producono formaggi venduti in zona.

 

Sempre all’alba uno dei loro figli, Giuliano, 37 anni, è salito con una mietitrebbia all’altopiano del Castelluccio, perché lassù – a oltre millequattrocento metri – è tempo di raccolto. I Cetorelli, coi mezzi della loro azienda agricola, lavorano anche da contoterzisti per i piccoli coltivatori. Adesso è tempo di raccogliere le lenticchie di Castelluccio, quelle piccole, tonde e rosse, che comunque le si cucini mantengono il loro ineguagliabile sapore.

Seguire i Cetorelli nel corso di una loro giornata – tra pascoli e pecore, campi e foraggi, caseificio e formaggi – è come osservare l’instancabile lavorio degli alveari accuditi da madre Caterina, la badessa del monastero benedettino Sant’Antonio che mi accoglie a Norcia. Dentro le antiche mura, oltre alle cento arnie dell’apiario, ci si trova davanti l’antichissimo orto curato dalle monache, fedeli alla regola dell’ora et labora, con instancabile applicazione.

 

Proprio come accade nella fattoria dei Cetorelli, dove il lavoro non finisce mai: verso sera c’è ancora il rito della mungitura delle duecento pecore che stazionano in fattoria. A regolare il traffico delle bestie verso gli stalli delle mungitrici automatiche sono schierate tre generazioni di Cetorelli. Ci sono papà Santino, il figlio Giuliano e, con piglio deciso, l’ultimo dei nipoti, Andrea, poco più di tre anni, che sfreccia tra pecore alte quasi il doppio di lui e che oggi sostituisce Daniele, il fratello di nove.

 

Bisogna però salire a Collazzoni, sempre in val Castoriana, per incontrare un pastore che sembra uscire da una tela di Caravaggio. Dopo averlo conosciuto si va ai pensosi e notturni interrogativi, imparati a memoria sui banchi di scuola, che Giacomo Leopardi mette in bocca al pastore errante dell’Asia. A dimostrazione che la vita dei semplici, a cominciare da quella dei pastori, forse proprio semplice non è. O forse è semplice e complicata al tempo stesso. Esattamente come tutte le nostre vite.

 

 

Renato Nardi ha 78 anni e da quando ne aveva 8 porta greggi al pascolo. Due anni fa ha avuto una brutta caduta mentre cercava di recuperare due agnellini (“mi sono appoggiato per scendere da un dirupo a un qualcosa coperto dai rami ed era una stufa, abbandonata da qualche disgraziato al bordo del sentiero, mi è volata addosso e mi ha spaccato tutto…”). Ora, seppur sostenendosi con il bastone, è tornato sui pascoli.

Attorniato dai cinque cani che irreggimentano il procedere del gregge, si sbraccia. Indica il sentiero migliore per raggiungerlo a chi, al primo sguardo, gli deve essere sembrato troppo cittadino e inadeguato per trovare da solo la soluzione. Per celebrare la prima intervista della sua vita ha indossato la camicia bianca della festa e così il suo viso cotto dal sole spicca ancora di più e, assieme agli occhi vivacissimi, sembra sottolineare ogni parola del racconto delle sue giornate.

 

Giorni apparentemente tutti uguali per questo uomo solido e dall’aria al tempo stesso mite e determinata. Ieri l’altro l’ho intravisto alla processione, attento alla predica. Ora, osservando la sua vita da vicino, mi rendo conto di quanto gli debbano sembrare familiari quelle parabole evangeliche popolate di pecore e lupi e pastori che a noi sembrano così lontane e astratte. Lui, tanto per cominciare, alle pecore vuole davvero bene: non in modo sentimentale, a parole, ma coi fatti: le abbevera e le munge, le conosce una per una e le ha aiutate a mettere al mondo agnellini che dopo qualche ora sono già in cammino accanto alle madri. Le cura quando hanno la mastite o quando zoppicano: con un coltello affilato, interviene, e, tenendole ferme col gomito sul collo, incide le vesciche purulente prodotte dall’infezione.

 

– Non mordono? Mi viene da chiedergli.

– Mordono? Ma che mordono! Le pecore sanno che gli voglio bene.

Renato ha uno sguardo allibito che dice tutto il suo sconcerto nel misurare la mia ignoranza di cittadino sull’universo naturale. La stessa cosa succede quando, sentendogli raccontare dei nuovi nati a volte troppo deboli per seguire il gregge, sbrigativamente concludo: – E quindi gli agnellini malati li elimini…

Mi fissa con orrore, come avesse davanti un Pol Pot o un Mengele.

– Li elimino? Ma no! Gli do le vitamine… li aiuto in ogni modo.

Batto in ritirata davanti a quest’uomo che tra i momenti più drammatici della sua vita ricorda gli attacchi dei lupi al suo gregge: gli è successo due volte e l’ultima volta ha avuto 17 pecore sgozzate, le ha viste col sangue che colava loro dal collo, mentre i cani cercavano di mettere in fuga i lupi.

 

Ora Renato vorrebbe smettere di fare il pastore, ma solo perché è stanco e pieno di acciacchi e il mestiere ormai è quasi in perdita, con solo un centinaio di pecore e tanti costi (“una pecora la vendo a cento euro, ma per i pascoli spendo oltre 4000 euro in affitto”). Però lui, me lo ripete nel caso me lo fossi dimenticato, ama il suo lavoro. Non lo cambierebbe con nessun altro. Tanto meno, immagino, con quello del giornalista.

 

Dai “Canti” di Giacomo Leopardi

 

XXXIII Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

 

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

Silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

Contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

Di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

Di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

La vita del pastore.

Sorge in sul primo albore

Move la greggia oltre pel campo, e vede

Greggi, fontane ed erbe;

Poi stanco si riposa in su la sera:

Altro mai non ispera.

Dimmi, o luna: a che vale

Al pastor la sua vita,

La vostra vita a voi? dimmi: ove tende

Questo vagar mio breve,

Il tuo corso immortale?…

 

Pubblicato in precedenza su La Stampa

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