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Ermanno Rea: "Non volevo fare il giornalista"

30 Giugno 2014

È in un appartamento elegante di un palazzo dei primi del Novecento, a un passo dalle mura vaticane, che mi accoglie Ermanno Rea. Il sole caldo di questa tarda mattina illumina le stanze e, superato l’ingresso, riconosco alle pareti alcune delle fotografie scattate nei suoi viaggi da inviato. Mi colpisce il primo piano di una giovane donna velata, in un niqab bianco, i suoi occhi scuri, malinconici e indagatori. La foto è stata scattata ad Algeri all’indomani della liberazione dal colonialismo francese.

 

 

Atri scatti di quel reportage sono pubblicati in Io reporter (Feltrinelli, 2012) il volume che raccoglie molta della produzione fotografica di Ermanno Rea. Nella breve introduzione al portfolio sull’Algeria, lo stesso Rea ricorda come in quel periodo, primi anni ‘60, fu colpito dai numerosissimi casi di suicidi femminili di cui si dava notizia sui giornali locali. La ragione era una sola: quelle giovani donne si toglievano la vita perché vittime di matrimoni forzati, vendute dai loro padri. In quel soggiorno ad Algeri, mentre documentava la nascita di una nazione indipendente, a Rea accadde un incontro fortuito, casuale, per quanto folgorante. Invitato a partecipare a un convegno, si trovò improvvisamente a qualche metro da Ernesto Che Guevara. Riuscì a scattare un paio di fotografie, una delle quali – inedita – pubblicata in queste pagine. Ma cominciamo dal principio.

 

 

Così, conquistando la ‘forma’ della vita… si conquista la vita”. È una citazione dal diario di Francesca Spada, giornalista dell’Unità di Napoli morta sucida nel 1961. Siete stati colleghi e la sua figura è diventata l’oggetto di indagine di Mistero napoletano. Quale è stata la “forma” della sua iniziazione giornalistica?

 

Non volevo fare il giornalista, in realtà avrei preferito diventare professore. Poco più che bambino fui portato per un periodo in Toscana da mio padre. Essendo comunista era finito nel Comitato di Liberazione nazionale di Massa Carrara, io andai in montagna a fare il partigianello. Rientrato a Napoli a guerra finita, iniziai a frequentare la federazione. Lì seppi che all’Unità cercavano un tutto fare. Così, ragazzino, presi a frequentare la questura come “trombettiere”; dovevo trasmettere le notizie di nera al giornale.

 

La redazione finì per diventare una mia seconda casa. Tra i giornalisti divenni subito amico di Francesca Spada e del suo compagno Renzo Lapiccirella. Renzo era un dissidente e lo elessi mio maestro di vita. All’interno della redazione, negli anni ‘50, era già presente una fronda antistalinista alla quale mi sentivo affine. Se da un lato Napoli era la roccaforte di una certa ortodossia di partito, dall’altro era anche la città dove si manifestò un focolaio di dissenso di grande valore, penso al gruppo Gramsci, che diede vita poi all’Istituto di studi filosofici. Intellettuali che si inserivano nella tradizione neo-hegeliana napoletana il cui leader negli anni ‘50 subì una dura espulsione dal Pci. Quei fermenti e quel dissenso mi hanno formato.

 

Decise di lasciare l’Unità e Napoli. Maturò un’ulteriore separazione: abbandonare la scrittura per dedicarsi alla fotografia. Quali furono i primi soggetti dei suoi fotoreportage?

 

Nel 1959 lasciai il giornalismo per la fotografia. Andai subito a Berlino, seguendo le orme di Mario Carrubba, grande fotoreporter e caro amico. Il fascino potente di quella città, dove ancora non era stato eretto il Muro, fu il mio battesimo di fotografo. Ci rimasi a lungo. Rientrato in Italia passai al Mondo, diretto da Mario Pannunzio, che valutava meticolosamente ogni singola fotografia. Per tutti noi il confronto con Pannunzio era un rituale, perché il Mondo in quegli anni era il tempio del fotogiornalismo. Non misi mano alla penna per anni, poi tornai al mio primo amore, la scrittura.

 

Rea, lei è stato cronista, fotoreporter, scrittore, autore di reportage narrativi e di inchiesta. Ha affrontato i molti aspetti, e le molte criticità, del raccontare il mondo. È interessante questo approccio eterogeneo…

 

Sì, è stato così, mi sono trovato a confrontarmi con le molte forme del giornalismo. Sono stato anche inviato di guerra, nel 1973, durante il conflitto del Kippur. Per quei reportage vinsi il Premiolino. Fu Morando Morandini a firmare la lettera della giuria.

 

Chiedo se gli originali di questi reportage ci sono ancora, se posso vederli. Rea annuisce, si alza e porta alcuni fascicoli del suo archivio. Inchieste e reportage scritti per il Mondo, per Panorama, per il Tempo, per l’Unità. Cronache dal Medio Oriente, dalla Palestina – una è appunto datata 28 ottobre 1973. Poi lunghi articoli da Benares, dal Sahara, dall’Algeria, resoconti scritti in occasione dell’elezione di Nixon, reportage sulla vita degli emigranti diretti in Sud America, sulle provincie del Meridione, sulla condizione dei braccianti, sul Sessantotto.

 

Oggi, anche per i grandi giornali, è sempre più difficile permettersi di sostenere inviati all’estero per lungo tempo. La qualità dell’informazione non può non risentirne. Come legge il cambiamento della professione?

 

Quando ho lavorato come giornalista l’ho sempre fatto da interno. Come fotoreporter invece ero freelance. La prima grande rivoluzione nel giornalismo si è verificata, a mio avviso, con l’avvento del linguaggio televisivo. Prima, alle immagini come ai testi, veniva data un’attenzione straordinaria. Un vero valore documentario. Penso a Life a Paris Match, al Mondo.

 

Nell’immediato dopoguerra ai fotoreporter va il merito di avere fatto conoscere agli italiani non solo il mondo ma la stessa Italia. La televisione ha innestato un cambiamento profondo, contaminando il giornalismo con elementi di spettacolarizzazione, di sensazionalismo. È in quel momento che l’informazione è iniziata a diventare ingannevole. Quanti tra i virgolettati di oggi sono puro arbitrio del cronista? Senza alcun fondamento etico. Che cosa ha a che vedere una strumentalizzazione di questo tipo con la verità, che è l’unica prassi alla quale ogni giornalista deve rispondere? Lo stato del giornalismo è lo specchio e il moltiplicatore del decadimento italiano.

 

Può raccontarci un incontro che è stato di particolare importanza per la sua formazione?

 

Fu una scuola a formarmi. La redazione di cui ho parlato. Lì si praticava un giornalismo battagliero, di trincea, questo ci rendeva particolarmente scrupolosi. Dovevamo cercare di fare un lavoro deontologicamente irreprensibile perché sapevamo di essere esposti a critiche feroci. Questo non toglie che, negli anni, qualcuno abbia sbagliato, ma quella scuola fu un esempio di grande rigore professionale.

 

Napoli riveste il centro sofferto, il nodo doloroso e primigenio, di molte sue scritture. Qual è il presente della sua città?

 

A Napoli esisteva una borghesia illuminata che ha avuto un ruolo fondamentale nella maturazione di esempi di grande rilievo civile, tra i quali – come ho detto – il gruppo Gramsci. La sua quasi scomparsa ha lasciato spazio alle mosse di una classe dirigente perversa. Questo depauperamento antropologico, l’osteggiamento dei focolai intellettuali, è alla base dei molti mali della città. L’unica salvezza per l’Italia consisteva nella possibilità di raggiungere una vera unità nazionale.

 

Il fallimento di questo traguardo, l’impossibilità di risolvere autonomamente e unitariamente le proprie ferite ha portato ai malanni che infettano il presente. Ciò che avviene oggi nella “terra dei fuochi” è il risultato di questo fallimento. Quelle ferite sono diventate cancrena. Si prospetta per il Paese una nuova sconfitta che è quella delle sue intelligenze più vive. Gli straordinari volumi della biblioteca dell’Istituto di studi filosofici giacciono oggi in una cantina alla periferia della città.

 

Questa intervista appare sul numero 18 de Il Reportage

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