Le belle e le bestie: Zucchi e Chiara

27 Marzo 2012

Al giorno d’oggi l’architettura è diventata oggetto dell’interesse di molte persone. Non che negli ultimi tempi sia considerevolmente aumentato il numero degli appassionati o degli esperti. Piuttosto è cresciuta la nostra attenzione nei confronti dell’ambiente in cui viviamo. E con sempre maggiore frequenza il nostro habitat “naturale” è l’ambiente urbano, costituito essenzialmente di edifici.

 

Gli edifici che ci circondano nella maggior parte dei casi ci lasciano indifferenti; in qualche occasione riescono a entusiasmarci; in molte altre hanno la capacità di ferire la nostra sensibilità. Con una forza che solo l’architettura – in quanto “arte” sociale e spaziale – possiede, essa è in grado di comunicarci un senso di esaltazione e di pienezza, ma anche di disturbarci, se non addirittura di urtarci letteralmente, di rovinarci la vita. Se alla prima categoria di edifici appartengono rari ma preziosi splendori, la seconda è invece pullulante di insopportabili orrori.

 

Al di là di ciò ch’è immediatamente intuibile, gli uni sono quegli edifici che, alla bellezza formale, sanno unire l’appropriatezza, la pertinenza, la capacità di non assolvere semplicemente alle proprie funzioni ma anche di “arricchire” i luoghi in cui sorgono, e di conseguenza anche noi; gli altri si distinguono invece per l’invadenza dimensionale, la mancanza di grazia, la volgarità, la banalità, l’erroneità, la stupidità, in una sola parola per la profonda inutilità, che ai nostri occhi costituisce uno sfregio del buon senso e uno spreco di risorse.

 

Dopo la comune battaglia condotta contro il pessimo progetto sull’area ex Enel a Milano, doppiozero e gizmoweb (autore collettivo del volume MMX Architettura zona critica, Zandonai 2010) propongono ora la rubrica “Le belle e le bestie”. Suo intento è quello di segnalare gli splendori e gli orrori presenti nelle nostre città e nei nostri paesi. Edifici meravigliosi ed edifici mostruosi; edifici amabili ed edifici detestabili; edifici provvidenziali ed edifici malefici. Edifici che non si cesserebbe mai di guardare ed edifici che si vorrebbe soltanto veder scomparire.

 


 

Südtiroler Kunstbau

 

Meriterebbe una approfondita riflessione il sistema di pratiche e attori, sviluppatosi nel tempo e in maniera trasversale, che ha permesso all’Alto Adige di dotarsi di un patrimonio di architetture contemporanee, di committenza pubblica e privata, di alta qualità, per lo più realizzate da professionisti locali, senza trascurare alcune partecipazioni internazionali. Un’architettura in provincia, insomma, ma non per questo meno colta, insensibile al dibattito disciplinare più generale o mimetica nei confronti di un paesaggio stratificato come quello alpino.

 

Si colloca in questo contesto il concorso che ha portato alla realizzazione della nuova sede della Salewa a Bolzano su progetto di Cino Zucchi con Park Associati. Frammento di Alpine Architektur disceso a valle, nuova porta meridionale della città, esercizio di armonizzazione tra funzionalità e rappresentazione dell’identità aziendale, il complesso edificio si mostra come sintesi di numerose questioni che vengono risolte dalla disinvolta abilità progettuale di Zucchi.

 

La pianta racconta la maturata esperienza nella progettazione di edifici produttivi, uno dei temi che lo accompagna fin dagli inizi della sua attività professionale, ma racconta, anche, l’assimilazione di un certo modo di scrivere le piante che, risolta la funzionalità della disposizione e della distribuzione, si preoccupa di movimentare e rendere più complesse e fluide le forme. Una lezione che ha un forte sapore pontiano e non solo.

 

Conseguentemente, il volume si articola in prismi scolpiti e agglutinanti, cristalli che partecipano al paesaggio senza imitarlo grazie all’equilibrata e coerente risoluzione delle pelli esterne in vetro e in lamiera forata che, d’un tratto, si trasformano in balze impudicamente sollevate a rivelare il nucleo produttivo vero e proprio, onesta e nuda scatola in calcestruzzo a vista, che non nasconde la propria natura eminentemente funzionale.

 

Pianta, volume, superfici si integrano, così, in modo armonioso, dando luogo a un episodio singolare nel paesaggio della periferia bolzanina, presidio e soglia tra la disseminazione dell’ultima zona industriale e la rigogliosa campagna. Ma allo stesso tempo episodio particolarmente felice nella recente produzione progettuale di Zucchi, che ha iniziato a dare segni di evitabili virtuosismi espressivi e autocompiacimenti linguistici.

Davide Fusari

 

 

 

 


 

L’architettura che non c’è

 

Non sono certo di essere in grado di sancire se una determinata architettura sia bella o brutta, né sono certo di sapere cosa significhi con esattezza dire che qualcosa sia bello, escludendo le mere questioni di gusto. Quello che mi sembra più semplice fare - e che mi pare anche più opportuno ai fini della critica - è capire e cercare di motivare se ciò a cui ci troviamo di fronte sia o meno un’architettura: non si tratta quindi di attribuire delle qualità all’architettura ma considerare essa stessa una qualità.

 

Nel 1992 il progetto di un team di architetti guidato dal professor Luigi Chiara vince un concorso indetto dal Politecnico di Milano per l’insediamento di una nuova Facoltà di Architettura all’interno dell’ex area industriale della Bovisa. Il tema - quello del recupero e riuso di un’area industriale dismessa - costituisce spesso e volentieri un’occasione per gli architetti di dare prova della propria abilità e verve nel fare interagire il progetto del nuovo con il preesistente. Le grandi aspettative che si potrebbero avere nei confronti di una tale occasione, data anche l’importanza culturale del committente e l’obiettivo del progetto (non semplicemente la costruzione di un nuovo campus universitario, ma di una scuola di architettura) sembrano tuttavia, a distanza di anni, tragicamente deluse.

 

Lo studio della luce, l’articolazione degli spazi, l’ergonomia, l’estetica: tutto ciò che rende un edificio architettura pare essere qui sadicamente trascurato. La ripartizione degli ex-capannoni non segue alcun principio se non quello del minimo sforzo di pensiero (e di portafogli), tanto che il disegno della pianta sembra più il prodotto di un processo meccanico o di un burocrate del catasto che di un architetto. La maggior parte delle aule non è illuminata da altra luce all’infuori di quella pallida e sfarfallante dei neon, visibilmente sospesi alle travi del soffitto con gli impianti elettrici e i tubi di condizionamento. L’obiettivo è la ricerca di un effetto neobrutalista - si potrebbe argomentare. Quello a cui ci troviamo di fronte ci sembra tuttavia solo un junkspace sciatto: una versione priva di estetica di quell’ambiente artificiale ubiquo, economico ed infinitamente estensibile descritto da Koolhaas nei suoi testi. La situazione non migliora nemmeno scendendo alla scala degli arredi: gli spartani sgabelli in legno, unica seduta offerta agli studenti durante le lezioni, assicurano la totale assenza di ergonomia. Insomma, quello a cui ci troviamo di fronte è a conti fatti una (non) architettura il cui unico riferimento - a volerlo proprio trovare - è probabilmente L’abri du pauvre di Claude-Nicolas Ledoux.

 

Perché dunque in una delle più importanti scuole di architettura d’Italia è paradossalmente l’architettura stessa a essere ciò che manca?

 

Un’ipotesi è che ciò aiuti gli studenti ad imparare in negativo cosa effettivamente sia l’architettura, attraverso cioè la sua mancanza. Nella speranza che, stufi del pallore degli ambienti, della monotonia degli spazi, dell’insopportabile banalità del linguaggio (e dei mal di schiena procurati dagli sgabelli), essi progettino un giorno scuole di architettura migliori.

Questa ci pare tuttavia un’interpretazione fin troppo ottimistica (e sadica) della cosa.

Più probabilmente questi edifici, queste non-architetture - progettate forse seguendo come unico monito quello della minima spesa per il minimo del risultato - sono lì per ricordare ai futuri architetti una verità ben più ironica: che il loro mestiere - l’architettura - non è altro che una qualità, e come tale essa è superflua: un orpello, un surplus; qualcosa di cui, in fondo, si può sempre fare a meno.

Riccardo Villa

 


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