Post-anarchismo

10 Luglio 2013

Che tempi sono questi? Sono i tempi delle proteste in Turchia, in Bulgaria e in Brasile, i tempi di Anonymous, del movimento No Tav e dalle lotte in difesa dei beni comuni. Forse gli anarchici non sono più meno dell'uno per cento, come cantava Léo Ferré, ma certamente coloro che si interrogano criticamente sui presupposti teorici e sui fondamenti delle pratiche anarchiche non sono molto numerosi. Stranamente, verrebbe da dire, perché questa modalità di mettersi in discussione fu inaugurata da un gigante dell'anarchismo classico, Errico Malatesta (e da Camillo Berneri subito dopo) che già nel 1920, sulle pagine di Umanità Nova scriveva «L'anarchia non si fa per forza: volerlo, sarebbe la più balorda delle contraddizioni». E un paio di anni dopo «L'anarchia è l'ideale che potrebbe anche non realizzarsi mai, come non si raggiunge mai la linea dell'orizzonte […], l'anarchismo è metodo di vita e di lotta e deve essere, dagli anarchici, praticato oggi e sempre, nei limiti delle possibilità variabili secondo i tempi e le circostanze». C'è da dire che si era già pronunciato nella stessa direzione Gustav Landauer, di cui è nota l'affermazione «Lo stato non è qualcosa che si possa distruggere con una rivoluzione, ma è una condizione, un certo rapporto tra esseri umani, una modalità del comportamento umano: lo distruggiamo stabilendo nuove relazioni, comportandoci in modo diverso».

 

 

Per tutto il '900 il pensiero anarchico non ha mai smesso l'abitudine di ripensarsi criticamente, soprattutto a opera di intellettuali e militanti come Paul Goodman - «Una società libera non può essere l'imposizione di un “ordine nuovo” al posto di quello vecchio: è l'ampliamento degli ambiti di azione autonoma fino a che questi occupino gran parte della vita sociale» -, oppure attraverso le parole di Colin Ward «Come si reagirebbe alla scoperta chela società in cui si vorrebbe realmente vivere c'è già... se non si tiene conto, ovviamente, di qualche piccolo guaio come sfruttamento, guerra, dittatura e gente che muore di fame? [···] Una società anarchica, una società che si organizza senza autorità, esiste da sempre, come un seme sotto la neve, sepolta sotto il peso dello Stato e della burocrazia, del capitalismo e dei suoi sprechi, del privilegio e delle sue ingiustizie». Nelle loro pagine troviamo un'idea di anarchia che sembra allontanarsi da quella dei classici Bakunin, Kropotkin e Proudhon.
La capacità di riflessione e di autocritica espressa in tempi non sospetti testimonia una grande vitalità e sembra anticipare molte delle questioni sollevate più di recente.

 

 

 

Il post-anarchismo spiegato a mia nonna di Onfray si inserisce, quindi, in un ampio dibattito che si può riassumere in una domanda: le idee e i concetti della post-modernità possono essere impiegati per riattivare e riattualizzare il pensiero anarchico? Posta in questi termini la questione però non è molto chiara. Quale pensiero anarchico? E perché avrebbe bisogno di una “cura rinvigorente”?

 

 

La risposta va cercata negli anni a cavallo tra gli '80 e i '90, in quel periodo Hakim Bey pubblica una serie di scritti nei quali muove una critica al movimento anarchico, ossia di essere fuori dalla storia, incapace di interpretare la realtà e di comunicare in maniera comprensibile un programma di emancipazione che possa essere fatto proprio dagli emarginati della società contemporanea. Come Bey risolverà la cosa è noto, inventandosi le TAZ (le zone temporaneamente autonome che hanno ispirato raver e resistenti post-autonomia, con le loro esistenze interstiziali nelle pieghe della società del controllo e i loro divenire minoritari in chiave anti-egemonica). Più o meno negli stessi anni, un professore di filosofia della Carolina del Sud, Todd May, pubblica un libro destinato ad attirare l'attenzione di moltissimi anarchici The Political Philosophy of Poststructuralist Anarchism, nel quale rilegge i principi della dottrina politica anarchica confrontandoli con i risultati delle analisi post-strutturaliste, in particolare con quelle di Foucault e di Deleuze-Guattari. L'esito di quella lettura parallela produrrà la ridefinizione di tutta una serie di valori e categorie, ereditati dalla matrice illuministica e ottocentesca, quali essenzialismo, etica, identità, natura umana, potere, rivoluzione, soggettività. Successivamente un altro professore, Saul Newman tornerà sulla medesima questione, ossia la necessità (ma anche l'opportunità) per il pensiero anarchico di liberarsi dalle ingenuità filosofiche moderne per fare proprio il lascito nietzscheano reinterpretato dai post-strutturalisti francesi. Di qui in poi sarà tutto un susseguirsi di analisi e contro-analisi interne al movimento anarchico, tra accademici e non, che preferisco sorvolare, richiamando solo gli autori di alcuni dei contributi più interessanti, come Salvo Vaccaro, Richard Day, Vivien Garcia e Tomas Ibanez.

 

 

Il libro di Onfray ha il pregio di illustrare in poche pagine, facendo riferimento alle sue esperienze giovanili, come si forma un carattere antagonista e come si possa passare dall'essere un arrabbiato a essere un anarchico capace di rimettere in discussione i dogmi della dottrina. Al post-anarchismo si arriva attraverso un itinerario volto alla ricerca di un anarchismo positivo, per «non concedere più al potere il consenso che lo costituisce, bensì creare qui e ora le condizioni concrete di una rivoluzione libertaria». La dimensione legata al quotidiano e alle pratiche agite da ognuno è il punto centrale di tutto il suo discorso e apre alla possibilità di superare sia il risentimento sia l'utopia, grazie a una risposta positiva all'altezza delle sfide di questo inizio di millennio: «Incolpare gli altri di tutti i mali del mondo, ritenerli responsabili di ogni aspetto negativo, trovare un capro espiatorio per evitare di pensare, aspettare il Gran Giorno con la fede del carbonaro, strillare e sfilare sotto qualche striscione: tutto questo vecchio circo passa in secondo piano. Il post-anarchismo non è per il domani, ma per il subito». È antiliberale, anticomunista e socialista libertario. È un'etica utilitaristica, volta al pragmatismo, è un pensiero che ha fatto i conti con Nietzsche e la French Theory, una micro-politica che ricusa la violenza, il sangue e il terrore, una pratica immanente sempre da fare.

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