Lo scotoma weissiano

18 Agosto 2014

Il libro di Rita Corsa, nota psicoanalista freudiana, su Edoardo Weiss era necessario. Il silenzio e la trascuratezza con cui psicoanalisti, psicoterapeuti e storici d’ogni tipo avevano glissato lo studio intorno al fondatore della psicoanalisi italiana è imperdonabile. Di Weiss, peraltro, si conoscono le linee di fuga prodotte, solo per fare un esempio, con Umberto Saba, basti leggere il suo Canzoniere per ritrovare motivi e derivazioni della relazione analitica tra i due, durata un paio d’anni.

 

Fu Elisabeth Roudinesco a rimproverare agli psicoanalisti italiani di avere trascurato Weiss, quasi più ammirato nel panorama francese. Basti pensare al contributo della psicoanalista parigina Cinzia Crosali Corvi, che nell’importante trattazione sulla depressione (La depression, affect central dans la modernité), ricostruisce in modo accurato l’esperienza psicoanalitica di Saba con Weiss.

 

Il libro di Corsa ripercorre, passo passo, l’esperienza di Weiss dal punto di vista storico – la Trieste a cavallo tra impero austroungarico e irredentismo – biografico – gli anni di formazione di Weiss – e clinico – le contraddizioni e i paradossi di uno psichiatra psicoanalista in un orizzonte scettico e ostile verso la psicoanalisi. La peculiarità del lavoro consiste nella ricerca storica di archivio che ha permesso all’autrice, in collaborazione con altre ricercatrici, di accedere a materiali inediti e mai visitati prima.

 

L’identità psicoanalitica di Weiss, all’epoca di Trieste, consiste nell’apertura di uno studio privato, nella sua relazione con Federn, come analizzato, e con Freud, come supervisore. Identità vissuta nelle ambivalenze tra l’attività privata e l’esperienza pubblica di psichiatra.

 

Questa contraddizione è invero una costante e un vero dilemma per ogni psichiatra pubblico che intraprenda una carriera di psicoterapeuta, una costante i cui connotati sono stati espressi in modo assai chiaro da una bella autobiografia dello psicoanalista junghiano Ferruccio Cabibbe, Matrimonio manicomio, una coraggiosa disamina della sua e dell’altrui esperienza psichiatrica durante la rivoluzione democratica degli anni Settanta. Cabibbe menziona, tra gli altri, Mario Tobino che espresse, sul Corriere della Sera, “una posizione che si può definire reazionaria, non tanto perché si opponeva alla chiusura dei manicomi, ma per la cecità verso le disastrose condizioni di vita dei ricoverati” (p.87). Nonostante ciò Tobino scrisse pagine memorabili dedicate alle donne ricoverate presso il manicomio di cui era direttore.

 

Rita Corsa descrive il medesimo dilemma in Weiss, lo chiama “scotoma weissiano”. In quegli anni di ostilità verso la nascente psicoanalisi, la scissione era ancor più marcata, o forse non più di quanto accada anche ai nostri giorni, dove la “terapia”, in psichiatria, è spesso considerata nei termini di farmacoterapia e terapia comportamentista.

Tuttavia non è questo il punto, né la questione posta da Rita Corsa, piuttosto si tratta di accompagnare lo studio minuzioso della vita triestina di Weiss per comprendere la trama esistenziale antecedente al suo trasferimento, prima a Roma, poi, dopo l’introduzione delle leggi razziali del 1938, negli Stati Uniti, dove invece la scrittura di Weiss sarà feconda.

 

 

Corsa, per esempio, si domanda come mai, pur essendo Weiss tra i primi ad accorgersi, durante la sua attività di clinico, della natura psicogena dei traumi da guerra, abbia lasciato ad altri il compito di scriverne, quando egli stesso avrebbe potuto produrre pagine importanti.

 

Traspare dal libro un certo autoritarismo del Padre della psicoanalisi in alcune lettere, la supervisione di Freud avviene in gran parte per via epistolare, emergono anche alcune reticenze, o strane dimenticanze di Weiss riguardo al suo abbandono del reparto psichiatrico – quando avvenne esattamente? – come a esprimere una differenza tra i propositi di dimissioni e la realtà di come avvenne la fine del rapporto lavorativo, oppure come a nascondere la differenza tra quel che dichiara e quel che accade, oppure ancora come in una sorta di oblio, che, più che un rimosso, potrebbe essere legato a una sorta di frustrazione subita e volontariamente repressa. Insomma, il libro mostra un Weiss pioniere della psicoanalisi italiana e grande clinico, ma anche persona controversa, in ballo tra psichiatria e psicoanalisi.

 

La Parte IV del libro s’intitola “Creatività in esilio. Due artisti nella Trieste psicoanalitica”. I due capitoli sono dedicati rispettivamente ad Arturo Nathan e a Vladimir Bartol, scrittore sloveno, poco frequentato dai letterati italiani, a sua volta studioso di psicoanalisi. Arturo Nathan fu in analisi con Weiss e, come nel caso di Saba per la poesia, cambiò notevolmente il suo modo di dipingere. Weiss ricorda il caso Nathan nel libro che pubblicherà negli Stati Uniti, Sigmund Freud as a Consultant, del 1970, anno della morte dello stesso Weiss, quasi cinquant’anni dopo la sua esperienza di analisi con Nathan e di supervisione presso Freud.

 

Come ho osservato sopra, menzionando il libro di Cabibbe, l’esperienza di Weiss è stata comune a molti psicoanalisti che hanno lavorato in psichiatria senza essere riusciti a trovare modi per integrare le due esperienze. La psichiatria comunque si voglia considerarla, è terreno di durezze, contrapposizioni, battaglie politiche, rivoluzioni e restaurazioni. Un ambito che, in virtù del suffisso che abita il termine, appartiene solo alla medicina. La psicoanalisi e la psicoterapia sono ambiti di ascolto, interazione, scambi affettivi, sfumature linguistiche, qui letteratura, filosofia, antropologia culturale sono ambiti elettivi.

 

Eldorado Weiss, uomo mite e di grande cultura, fu psicoanalista per vocazione, passione, desiderio. Lo dimostrò lungo l’arco della vita, le sue origini ebraiche, condivise da un certo numero di psicoanalisti delle prime generazioni, certamente aiutarono a inventare un terreno dove la cura è conversazione, colloquio, scambio affettivo. Come psichiatra fu medico rigoroso e attento. Tuttavia, durante il periodo triestino, non riuscì mai a integrare le due professioni, che sembrano così simili, benché, in molti casi, siano addirittura incompatibili.

 

Oggi però ciò non accade riguardo alla professione medica, al contrario, proprio quando la professione medica in psichiatria cede il passo al controllo autoritario, all’uso smodato dei trattamenti sanitari obbligatori, alle contenzioni. In altri termini quando il medico sente la nostalgia di un tempo in cui era costretto a essere agente di pubblica sicurezza, per questo questa regressione può accadere solo in psichiatria. Anche questo è psicoanalisi, anche questo è storia.

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