Dialogo con Jerry Brown e Carl Mitcham / Illich. We the People

24 Novembre 2018

Brown: Nella prossima ora avremo una grande opportunità e uno speciale privilegio. Abbiamo ospiti, nel nostro studio di Los Angeles, Ivan Illich e Carl Mitcham, due cari amici di cui spero apprezzerete il contributo. Restate in ascolto, sarà istruttivo. Ivan Illich è autore di due celebri testi: Descolarizzare la società, molto influente negli anni Settanta, e Nemesi medica. Ha inoltre scritto vari altri saggi come Rivoluzionare le istituzioni, La convivialità, Genere e Nella vigna del testo, il suo ultimo libro, un commentario su Ugo di San Vittore, santo e letterato del xii secolo. 

Assieme a noi, qui in studio, abbiamo anche Carl Mitcham, che insegna Scienze umane alla Penn State University, dove Ivan Illich e i suoi amici e colleghi si incontrano, per alcuni mesi l’anno, proprio per studiare i temi che nel corso della prossima ora faremo del nostro meglio per spiegare e condividere. 

Ivan, cominciamo dal libro che ha segnato il mio primo incontro con la tua opera, Descolarizzare la società. Puoi spiegarci cosa avevi in mente quando lo hai scritto e come ti appare la realtà odierna? La scuola infatti è tuttora una questione aperta all’interno della nostra società. Perdura una certa dipendenza dai professionisti dell’insegnamento che sembra determinare il modo in cui apprendiamo o non apprendiamo. Mi domando se abbiamo fatto qualche progresso nella costruzione di una realtà in cui le persone abbiano la sensazione di poter decidere del proprio apprendimento.

 

Illich: Verso la fine degli anni Sessanta, nel giro di un anno e mezzo, ho avuto la possibilità di organizzare una dozzina di conferenze rivolte a un pubblico che si occupava di educazione e istruzione, temi che avevo trattato in qualità di storico. La domanda che mi sono posto era: da quando le persone nascono «bisognose»? Bisognose, per esempio, di un’educazione? Da quando abbiamo bisogno che qualcuno ci insegni la nostra lingua madre? Così ho chiesto al pubblico: «Vi ricordate chi ha insegnato a camminare ai vostri figli?». Su cento persone, almeno una trentina hanno alzato la mano, e io rivolto a loro ho aggiunto: «Ne deduco che siete tutti laureati in Scienze dell’educazione». 

Volevo inoltre capire da dove venisse l’idea, diffusa in tutto il mondo, che le persone dovessero essere riunite in gruppi di almeno quindici, perché altrimenti non sarebbe una classe, ma non più di quaranta, perché allora sarebbero svantaggiati, e questo per non meno di ottocento ore l’anno, perché altrimenti non sarebbero abbastanza, ma non più di millecento, perché in quel caso si tratterebbe di prigionia, il tutto suddiviso in cicli di quattro anni. Come è potuto accadere che un processo folle come la scolarizzazione sia divenuto una necessità? Mi sono reso conto che si trattava di qualcosa di simile a una progettazione delle persone, perché la nostra società non si limita a produrre oggetti, ma costruisce persone. E non lo fa attraverso i contenuti dei corsi di studio, ovvero tramite ciò che ci viene insegnato, ma attraverso quel vero e proprio rituale con cui ci fa credere che l’apprendimento sia il risultato dell’insegnamento, che esso possa essere frammentato e suddiviso in competenze, che i suoi vari pezzi possano poi essere assemblati gli uni con gli altri, e che sia la formazione a dare valore a ciò che viene messo in vendita sul mercato. E in effetti è così: maggiore è la spesa per l’istruzione di una persona, più questa guadagnerà nella vita. E questo nonostante la certezza – come apprendiamo dal bellissimo libro di Ivar Berg Education and Jobs: The Great Training Robbery – che dal punto di vista delle scienze sociali non esiste alcun tipo di relazione tra il contenuto del programma di studi e ciò che le persone realmente fanno di soddisfacente nelle loro vite, per loro stesse o per la società. Da allora sono stati pubblicati almeno altri trenta o quaranta studi che dimostrano la stessa cosa. Il curriculum non ha assolutamente alcun effetto su ciò che le persone riescono a ottenere. La funzione latente dell’istruzione, il curriculum nascosto che forma l’individuo come persona bisognosa che sa di aver soddisfatto una piccola parte del proprio bisogno di educazione, è decisamente più importante. È questa la ragione per cui me ne sono occupato.

 

Brown: Quindi Descolarizzare la società poggia sull’intuizione che l’industria dell’istruzione educa le persone, o piuttosto le manipola, facendo loro credere di avere specifici bisogni che solo la scuola è in grado di soddisfare?

 

Illich: Le convince di avere bisogni. Non tutti coloro che ho conosciuto da ragazzo avevano bisogni. Per esempio, magari avevamo fame, ma non traducevamo questa fame in un «bisogno» di nutrimento. Avevamo fame di una tortilla, di una comida, non di calorie. L’idea che le persone siano nate con dei bisogni, che questi possano essere trasformati in diritti, e che questi diritti possano essere tradotti in qualcosa di dovuto, è uno sviluppo del mondo moderno, ed è ragionevole, accettabile e ovvio solo per quelle persone in cui questi bisogni sono stati prima suscitati e quindi soddisfatti, persone che sono state oltretutto convinte di avere meno di altri. Quella carriera scolastica nella quale tutti ci impegniamo e che dovrebbe creare pari opportunità è così divenuta il metodo più efficace, mai sperimentato prima, per dividere l’intera società in classi. Tutti sanno a quale livello dei loro dodici o sedici anni di educazione si sono fermati e quale sia il valore del grado di istruzione ricevuto.

 

Brown: In questo modo si ottiene una precisa definizione del posto che si occupa all’interno della gerarchia sociale in base a quanto si è scolarizzati. È molto diverso se hai finito i quattordici anni di educazione arrivando a una laurea specialistica o se hai mollato prima la scuola come spesso avviene nel posto in cui vivi. 

 

Illich: È la maniera più semplice per declassare la maggioranza della popolazione.

 

Brown: Così facendo si prende una persona che non ha niente e si «modernizza» la sua povertà, dato che si crea una persona che non solo non dispone di molti beni materiali, ma che viene anche privata di quella fiducia in se stessa che suo padre o suo nonno un tempo avevano.

 

Illich: E si può oltretutto creare un mondo in cui questa persona avrà costantemente bisogno di qualcosa… Ho a lungo cercato un termine adatto per questo qualcosa che mi sfuggiva e per il quale ho provato a trovare un aiuto contestuale. Sai, è come quando ti siedi davanti a un computer e attivi Word Perfect che ti chiede di quale aiuto hai bisogno. Poi l’ho trovato il termine adatto: istruzioni per l’uso. Si è incorporato l’insegnamento nell’oggetto con cui si entra in contatto. Abbiamo creato un mondo in cui le persone sono costantemente grate di essere prese per mano per imparare il modo in cui si usa un coltello o una macchina del caffè, o il modo in cui si può procedere nella composizione di un testo.

 

Brown: In sostanza stai dicendo che viviamo in un mondo che rende le persone sempre più dipendenti, ma non dipendenti dalla natura o dagli amici bensì da coloro che fanno funzionare le istituzioni, che si tratti di una scuola o di…

 

Illich: Non voglio arrivare a tali livelli di paranoia. Peraltro il modo in cui funzionano le istituzioni è esattamente ciò che Mitcham ha analizzato in profondità nel corso degli anni. Il punto è che le persone vivono sempre più in un artefatto, anzi divengono loro stesse artefatti, si conformano con soddisfazione a quell’artefatto perché loro stesse sono state manipolate. Questo è il motivo per cui entrambi ci occupiamo degli oggetti del mondo odierno per ciò che sono, in quanto determinano la possibilità stessa dell’amicizia, del trovarsi davvero faccia a faccia l’uno con l’altro. Solitamente, chi si occupa di filosofia degli oggetti, degli artefatti e della tecnologia si preoccupa soprattutto degli effetti che la tecnologia ha sulla società. Le moderne tecnologie hanno inevitabilmente prodotto una polarizzazione della società, inquinato l’ambiente e compromesso talune semplici capacità innate rendendole dipendenti dagli oggetti.

 

Brown: Come l’automobile.

 

 

Illich: Come l’automobile che riduce il valore d’uso dei piedi. Come l’automobile che rende il mondo inaccessibile quando in realtà «automobile» in latino significa «andare da qualche parte usando i propri piedi». E invece l’automobile lo rende impensabile. Di recente mi hanno dato del bugiardo perché ho raccontato che sono sceso a piedi dalla cordigliera delle Ande. Eppure tutti gli ispanici lo facevano tra il xvi e il xvii secolo. Si è persa l’idea che qualcuno possa semplicemente camminare! Magari si può fare jogging la mattina, ma non si può andare a piedi da nessuna parte! Il mondo è divenuto inaccessibile perché guidiamo.

 

Brown: Dunque gli oggetti, come una macchina o persino una scuola, cambiano chi siamo.

 

Illich: Cambiano chi siamo e, ancor più profondamente, cambiano il modo in cui funzionano i nostri sensi. Tradizionalmente lo sguardo era concepito come un modo di sfiorare, di carezzare. Gli antichi greci parlavano della visione come di un atto in cui i miei «psicopodi», i lembi della mia anima, si protraggono per toccare il tuo viso e stabilire tra noi quella relazione chiamata vista. Successivamente, dopo Galileo, al tempo di Keplero, venne formulata l’idea che gli occhi fossero dei recettori in cui la luce portava qualcosa dall’esterno, facendo sì che l’altro fosse separato da me anche nel momento in cui lo guardavo, anche se lo fissavo e il suo volto mi piaceva. Le persone hanno cominciato a considerare i propri occhi come una sorta di camera oscura. Nella nostra epoca la gente concepisce, ed effettivamente usa, i propri occhi come se fossero parti di una macchina. Si parla di interfaccia. Ma a chiunque mi dicesse: «Vorrei interfacciarmi con te», risponderei: «Per favore vai altrove: in bagno, o dove meglio credi, davanti a uno specchio». A chiunque mi dicesse di voler comunicare con me, domanderei: «Non sai parlare? Non sai dialogare? Non ti rendi conto dell’enorme divario che ci separa, così profondo che per me sarebbe offensivo essere programmato nel modo in cui lo sei tu?».

 

Mitcham: Credo che la parte in cui Ivan parla dell’importanza degli artefatti, o degli oggetti, e di come influenzano il modo in cui esperiamo noi stessi e ci relazioniamo con gli altri, sia quella del suo lavoro che ho sempre considerato più stimolante per il mio modo di riflettere e ragionare sul mondo nel quale vivo. Un mondo che cento anni fa, o anche solo cinquanta, quando ero ancora ragazzo, era caratterizzato da una prevalenza di oggetti naturali. Pietre, alberi, animali, galli… persino in città prevaleva la vegetazione naturale. Ora tutto è cambiato. Viviamo in un mondo in cui l’artificialità del nostro ambiente ne ha sopraffatto le basi naturali, il contesto del passato. Come Ivan ha ben evidenziato, quell’artificialità sta subendo una radicale trasformazione dovuta a ciò che ha definito come schermi di aiuto contestuale. Oggi passiamo più tempo davanti a un qualche schermo – che sia quello della televisione, del computer o del piccolo orologio digitale che indosso in questo momento – di quanto non ne trascorrevamo faccia a faccia con altri esseri umani fino a un recente passato. 

 

Brown: E in fin dei conti anche la città che vediamo è, in un certo senso, uno schermo, con i cartelloni, gli edifici… È uno specchio della trasformazione tecnologica e della manipolazione della natura. Lo stiamo vedendo, ma che cos’è ciò cui stiamo assistendo?

 

Mitcham: È il modo in cui cominciamo a fare esperienza del mondo, come quando guidiamo una macchina e il parabrezza si trasforma in una sorta di schermo sul quale il mondo si appiattisce. Ivan, quale espressione usava Barbara Duden?

 

Illich: La prospettiva del parabrezza. Peraltro, nella biblioteca della Penn State ho trovato il report di un meeting di tecnici specializzati in parabrezza svoltosi in Texas. L’anno scorso sono stati pubblicati tre volumi con ottocentosettanta contributi su come progettare la visione attraverso il parabrezza, che ci fa sempre essere dove ancora non siamo giunti.

Brown: Perché si guarda in avanti.

 

Illich: Si guarda ciò che ci sta davanti, dove non siamo ancora giunti, cosa che ovviamente genera sensazioni destabilizzanti. È come se si è con qualcuno che, piuttosto che essere lì con te in quel momento, pensa sempre a dove sarete la settimana seguente o nella prossima ora. Questo complica terribilmente l’interazione, perché le persone non riescono più a staccarsi dall’idea che ciò che vediamo è stato programmato e manipolato da qualcun altro.

 

Brown: Ma le persone sono sempre state soggette a qualche tipo di dominazione all’interno della società. Questa non che è una nuova forma di controllo.

 

Mitcham: Non è dominazione: è trasformazione…

 

Illich: Fino a poco tempo fa, tutte le culture di cui siamo a conoscenza erano fondate sull’idea che la gerarchia fosse qualcosa di naturale, un dato di fatto. Era considerata come una condizione umana condivisa da chi viveva ai tropici o da chi viveva nei climi freddi, da chi partecipava a una politeia sofisticata come quella greca (senza dimenticare la schiavitù e chissà quanti altri orrori) o da chi viveva in un monastero del xii secolo. Era qualcosa di dato nel quale si viveva e che si doveva imparare ad accettare. Le persone non parlavano di «cultura», anzi il termine stesso non esisteva, bensì parlavano della forma che l’arte di soffrire assumeva per loro qui e non altrove. Altrove, chi c’era sapeva come soffrire la propria condizione umana. Tutto ciò è stato spazzato via, ma ciò che questi diversi modi di soffrire la condizione umana avevano in comune era un qualche tipo di gerarchia che aveva dato origine all’idea stessa di gerarchia. 

Noi due non ci incontravamo ormai da un anno, e quando ci siamo visti e ci siamo inchinati l’uno di fronte all’altro, ho avuto la netta sensazione di essere stato profondamente segnato da alcuni tuoi scritti che ho letto di recente. D’altronde anche tu hai fatto un simile inchino. Appunto, l’inchino… Non ci si inchina davanti a uno schermo e diventa impossibile, o molto difficile, per coloro che vedono costantemente delle non-persone su uno schermo. Ricordo il giorno in cui un bambino mi disse: «Questa sera ho visto Kennedy, il presidente Bush e poi anche E. T.». Per amor del cielo, io non sono come loro. Sono una persona che vuole rispettarti, che vuole guardarti con ammirazione. Tutto questo è stato profondamente minato. Ed è per questo che la questione della dominazione è importante: l’abuso produce dominazione.

 

Mitcham: L’abuso dello schermo porta alla dominazione?

 

Illich: Ci sono molteplici tipi di dominazione. 

 

Brown: Ma torniamo alla gerarchia, e al suo permanere. Quando la si evoca viene in mente il Medioevo, con il re, il clero e i contadini, ma se poi si guarda al nostro mondo democratico, dove in teoria siamo tutti uguali, la realtà si rivela ben diversa.

 

Illich: È una realtà fatta di dominazione, o di superiorità se si preferisce, e dunque di manipolazione. In un regime di uguaglianza rapportarsi all’altro a partire dall’alto diventa manipolazione.

 

Brown: Quindi stai dicendo che, in un contesto di uguaglianza, inchinarsi davanti a qualcuno è di per sé un errore? 

 

Illich: È un errore perché probabilmente quella persona finirà con il manipolarti, troverà i mezzi e gli strumenti per controllarti. C’è però un’enorme differenza tra il controllare qualcuno partendo dall’assunto che siamo tutti uguali e riuscire a sfruttare, comandare e negare un’altra persona in un contesto gerarchizzato. L’idea stessa di potere è un’idea sofisticata, come quella del denaro o dei watt che possono essere caricati ovunque, è un’idea molto moderna. Ci fa credere che donne e uomini possano lottare per il potere. Nella società tradizionale dove i soli umani erano Adamo ed Eva, la loro relazione era un’armonia, come una quinta in musica… Quando ascolti una quinta non percepisci i due distinti suoni che si combinano per formarla.

 

Brown: Cos’è una quinta? Una nota?

 

Mitcham: Due note che si armonizzano.

 

Brown: Un accordo.

 

Illich: Se prendi un accordo, lo dividi in due o tre e lo ascolti, ottieni ciò che le persone, per gran parte della storia, hanno considerato come bello, come musica. Questo è stato l’unico modo di concepire la musica fino a Bach. Successivamente, tra il 1730 e il 1890, si sviluppò una concezione completamente diversa che diede origine alla musica moderna, cioè l’idea che fosse possibile fare musica a partire dai toni temperati, ovvero da toni artificiali basati su logaritmi e costruiti in modo da essere leggermente fuori proporzione ma tali da permettere di creare arrangiamenti sinfonici di uso internazionale. Personalmente sono del tutto dipendente da questo terribile e degenerato caos che è la musica moderna, ma so bene che non ha nulla a che vedere con la musica tradizionale gregoriana, o greca, o con qualsiasi tipo di musica del passato, in cui chi ascoltava non percepiva i singoli toni che, unendosi, davano vita a un vero e proprio arrangiamento. L’unica cosa che veniva percepita era la relazione tra i due suoni di un accordo. Il mondo ha perso il senso di questa proporzionalità, la percezione che la nostra amicizia non è Jerry-più-Ivan e una qualche interazione tra loro, come fossimo due schermi, due programmi o due macchine, ma che si tratta di qualcosa di immateriale che è bello di per sé. È questa la sensazione che mi sembra debba essere salvata, ma non lo si può fare né in politica, né nella vita pubblica: la si può salvare solo coltivandola, stando insieme davanti a un piatto di spaghetti e a un bicchiere di vino.

 

Brown: Mi sembra allora di capire che se ai tuoi esordi eri più interessato a riflettere e scrivere su temi quali la medicina, la scuola, gli strumenti, l’energia o il trasporto, ora sei più interessato a concentrarti sull’amicizia, sulle persone concrete sedute attorno a un tavolo. Per spingerti in questa prospettiva è cambiato il mondo o sei cambiato tu?  

 

Illich: Entrambi, suppongo. Per la prima volta nella mia vita mi sono trovato circondato da persone che hanno più o meno venticinque anni, ovvero sono nate all’incirca nello stesso anno in cui io sono caduto, per due settimane, in quella che in America viene definita, in gergo medico, depressione e che io invece chiamo melanconia, accidia. 

 

Brown: Che è uno dei sette peccati capitali.

 

Illich: Che è la passività derivante dalla presa di coscienza di quanto sia incredibilmente difficile per un uomo fare la cosa giusta.

 

Brown: Conosciuta anche come indolenza in alcune traduzioni.

 

Illich: Il termine più corretto è accidia. Ho trascorso questo periodo di profonda apatia, al punto che non volevo continuare a scrivere La convivialità. Poi mi sono detto: «Tu non hai figli, ma se li avessi avuti sicuramente non avresti mollato, perché non saresti più riuscito a guardarli in faccia. Dunque ora ti dai una mossa e finisci il lavoro». 

Oggi però devo parlare in maniera diversa da come facevo negli anni Sessanta o Settanta. Quando rivelai alla gente gli orrori invariabilmente prodotti dalla «medicina che fa ammalare», perché crea più malati di quanti non riesca ad aiutarne, o dall’inverosimile sistema educativo cui abbiamo già accennato, o dal tempo perso a causa dell’aumento del traffico, che obbliga la maggior parte delle persone a trascorrere molte ore in fila per far sì che pochi, come me, te e persino Mitcham, possano essere onnipresenti, queste erano le nostre principali preoccupazioni. Oggi, invece, ciò che più mi preoccupa, e le persone lo capiscono, è il modo in cui la tecnologia ha reciso quel filo che ci univa gli uni agli altri, distruggendo l’amicizia. Tuttavia, il nostro compito non è quello di correre per il mondo ad aiutare chi è meno fortunato di noi: qualcuno deve farlo e noi dobbiamo collaborare, ma il vero obiettivo è rimuovere lo schermo dalla nostra stessa mente. 

 

 

Brown: In definitiva, se prima ti occupavi di grandi questioni sociali, negli ultimi anni ti sei focalizzato su temi più immediati come l’amicizia. Mi ha colpito il fatto che, quando ho usato il termine «comunicazione», hai detto che i computer comunicano mentre le persone parlano, intrattengono conversazioni. Credo che lo stesso valga per il termine «relazione». Si può avere una relazione con uno strumento, ma l’amicizia esiste solo tra esseri umani. Credo che una delle caratteristiche più evidenti del sofisticato mondo moderno sia il modo in cui il gergo tecnologico abbia permeato la concezione che abbiamo di noi stessi e della nostra vita quotidiana. Nel tuo libro Nella vigna del testo hai catturato la mia attenzione con una citazione in latino alla nota 53. Chi è l’autore?

 

Illich: È una lettera di Ugo di San Vittore a un amico.

 

Brown: Ugo di San Vittore è un uomo vissuto nel xii secolo. Lui parlava di «carità», ma quando diceva carità intendeva amore?

 

Illich: Certamente.

 

Brown: Ne leggo un brano, quello in cui afferma che l’amore non ha fine: «A Renolfe, mio amato fratello, da Ugo, un peccatore. L’amore non ha fine. La prima volta che ho sentito questa frase ne ho intuita la veridicità, ma ora, caro fratello, la mia personale esperienza mi ha dimostrato che davvero l’amore non ha fine. Perché ero straniero, e ti incontrai in una terra straniera. Tuttavia, quella terra non era davvero straniera, perché lì ho trovato degli amici. Non so se sono stato io il primo a fare del prossimo un amico o il contrario, ma lì ho trovato un amore che ho a mia volta amato, del quale non potrei mai stancarmi, perché la sua dolcezza ha riempito il mio cuore che, con mia enorme tristezza, ha potuto racchiuderne solo un poco. Non ho potuto accogliere tutto quel che c’era, ma ne ho raccolto quanto più ho potuto. Ho colmato ogni mio recesso, ma non potendo contenere tutto ciò che vi ho trovato, ho accettato quel che ho potuto e ho portato il fardello di questo prezioso dono di cui non avvertivo il peso, perché il mio intero cuore mi sosteneva. E ora, dopo un lungo viaggio, il mio cuore ancora arde, e nulla di quel dono è andato perduto, perché l’amore non ha fine».

 

Illich: Se oggi un uomo scrivesse a un altro uomo una lettera del genere, penseremmo subito che sia omosessuale. E perché no? Ma se l’avesse scritta a una donna, diremmo che sicuramente hanno una splendida relazione. Ma davvero abbiamo bisogno di concetti così alienanti? Vorrei rifarmi a una grande intuizione rabbinica (ma anche cristiano-monastica) che soggiace a ciò che greci come Platone o romani come Cicerone già sapevano dell’amicizia: io trovo me stesso attraverso i tuoi occhi. Quella piccola cosa, lì, che in latino hanno chiamato pupilla… Nei tuoi occhi posso scorgere il «fantoccino» di me stesso. Un puntino nero nel tuo occhio.

 

Brown: E da lì viene anche il termine «pupillo».

 

Illich: Pupillo, fantoccino, persona, occhio… ma non sono il mio specchio. Sei tu nel tuo sguardo a farmi dono di ciò che Ivan è per te, ed è questo che ti definisce come «io» qui e ora. Sto appositamente evitando di affermare che si tratti della mia persona, della mia individualità, del mio ego. No… qui c’è l’altro che ti riflette, l’altro al quale ti sei dato. Questo è quanto ci dice Ugo di San Vittore, o quanto ci dice la tradizione rabbinica. Per essere pienamente umano, devo aver ricevuto e accettato me stesso come dono da parte di qualcuno che mi abbia alterato, oggi diremmo distorto, attraverso il suo amore. 

Nella tradizione antica, greca e romana, l’amicizia è sempre stata concepita come la più alta manifestazione della virtù. Per virtù si intende «l’abituale tendenza a fare la cosa giusta» promossa da ciò che i greci chiamavano politeia, vita politica o vita comunitaria. So per certo che si trattava di una vita politica alla quale non sarei stato felice di partecipare in quanto includeva la schiavitù ed escludeva le donne, ma devo nuovamente rifarmi a Platone e Cicerone. Essi concepivano l’amicizia come il frutto, come il fiore più bello, che nasce dalle interazioni che hanno luogo in una società politica sana. È proprio questo che rende, caro Jerry, la nostra lunga relazione così sofferta, appunto il fatto che ogni volta che siamo insieme mi fai sentire il peso di non essere come te. So che organizzare politicamente la comunità e la società è la tua vocazione, ma non è la mia, e non credo che oggi l’amicizia possa nascere e fiorire dalla vita politica. Al contrario, credo che se qualcosa come una vita politica esista ancora nel nostro mondo tecnologico, questa non possa che nascere dall’amicizia. Il mio compito, dunque, è quello di coltivare un’amicizia disciplinata, autonegante, cauta, raffinata. E sempre reciproca. Io e te, e spero una terza persona, da cui forse potrebbe nascere una comunità. Perché forse è qui che possiamo capire cosa sia il bene. Per farla breve, se un tempo, nella nostra tradizione occidentale, l’amicizia era il supremo fiore della politica, credo che la vita comunitaria, ammesso che ancora esista, sia in qualche modo il risultato dell’amicizia coltivata da chiunque inizi una relazione. Questo, ovviamente, rappresenta una sfida per l’idea di democrazia che soggiace a ciò che di norma le persone dicono: significa che ognuno è responsabile delle relazioni di amicizia che instaura e che dalla bontà di tali relazioni deriverà la bontà della società stessa.

 

Brown: Quindi siamo partiti da un mondo in cui una società sana era il fondamento della virtù e la virtù era il fondamento dell’amicizia, mentre oggi è vero il contrario. Ora sembra che si debba prima instaurare una relazione di amicizia, e all’interno di questa vada poi praticata quella virtù che potrebbe portare alla nascita di una comunità, la quale, a sua volta, potrebbe generare una società capace di portare a un tipo di politica completamente diverso.

 

Illich: Esatto.

 

Mitcham: Lasciatemi azzardare un commento su questo perché mi sembra che…

 

Brown: … ci siamo capiti?

 

Illich: In effetti ci siamo capiti.

 

Mitcham: In un certo senso, Jerry, è ciò che stai cercando di fare con We the People. Ho visitato la vostra sede a Oakland e ho visto che hai creato un contesto in cui ciò che viene prima di tutto è la tua amicizia con le altre persone, e l’amicizia e le relazioni tra le persone che fanno parte della comunità. E da questo potrebbe nascere una qualche politica. Ma ciò che ho più colto quando ho visitato We the People a Oakland è stata prima di tutto l’ospitalità tua e degli altri che erano lì con te.

 

Illich: Ecco il termine corretto: «ospitalità». Una volta l’ospitalità era una condizione che derivava da una società politica sana, dalla politeia, mentre oggi potrebbe essere l’origine della politeia, ovvero della politica. Tuttavia questo risulta difficile, perché l’ospitalità implica una soglia oltre la quale io possa condurti, mentre la tv, internet, i giornali e l’idea della comunicazione hanno abolito i muri che separavano l’interno dall’esterno e, di conseguenza, anche l’amicizia, la possibilità di condurre qualcuno oltre l’uscio. L’ospitalità richiede un tavolo attorno al quale le persone possano sedersi, e un posto per dormire nel caso in cui siano stanche. Si deve appartenere a una qualche subcultura per poter dire: «Qui ci sono dei materassi in più». Ed è ancora considerato molto inappropriato immaginare che momenti come questi possano essere i migliori di una giornata o di un anno. L’ospitalità è fortemente minacciata dall’idea di personalità, dallo status culturale. E invece penso che se dovessi scegliere una parola nella quale riporre speranza sarebbe proprio «ospitalità». Una pratica dell’ospitalità che recuperi la soglia, la tavola, la pazienza e l’ascolto e da lì crei un terreno fertile per la virtù e l’amicizia, da una parte, e promuova la rinascita della comunità, dall’altra.

 

Brown: Vorrei porti una domanda sull’istituzionalizzazione dell’ospitalità. Ricordo una tua affermazione – «l’ospitalizzazione ha sostituito l’ospitalità» – legata alla questione dell’istituzionalizzazione dei valori e ho ben presenti i tuoi rimandi alla storia del buon samaritano che diviene il mio prossimo. Oggi però siamo in un mondo fatto di bisogni, di diritti e di istituzioni che si fanno carico di tutto. Sulla base di ciò che abbiamo appena detto, puoi aggiungere qualcosa sulle implicazioni dell’istituzionalizzazione, che nella mia mente associo all’immagine del progresso, e di questa realtà di cui stiamo parlando, fatta di amicizia, di amore e dell’idea di fondare quella che definiamo una comunità su un modo spontaneo e non istituzionalizzato di stare insieme? 

 

Illich: L’ospitalità, ovvero l’essere disposti ad accogliere qualcuno che non vive sotto il nostro stesso tetto, che non viene dallo stesso lato del nostro uscio, che non dorme nei nostri letti, sembra essere una delle caratteristiche più universali, se non la più universale, tra quelle osservate dagli antropologi. In greco, i termini xenia e xenos erano usati anche per significare ospitalità.

 

Brown: Dunque il termine usato per «straniero», ovvero xenos, significava anche ospitalità.

 

Illich: Zeus era anche chiamato Xenos in quanto era il dio dell’ospitalità.

 

Brown: Eppure la stessa radice si trova nel termine «xenofobia», cioè la paura dello straniero. Quindi può significare sia amore che paura per lo straniero.

 

Illich: Sì, xenofobia rimanda a ospitalità. Ma in quell’epoca l’ospitalità, ovunque esistesse, prevedeva una distinzione tra coloro che, pur non venendo dalla Ionia o dalla Panfilia, due regioni greche, erano comunque elleni e i bárbaros, i barbari. L’ospitalità era riservata principalmente agli elleni. Era un atto che riconosceva l’esistenza di un dentro e di un fuori, e non era indiscriminatamente per tutti. Poi, un giorno, fece la sua comparsa Gesù di Nazareth, un tipo indisponente che, parlando di qualcosa di straordinariamente grande e mettendolo in pratica, distrusse un principio basilare. Quando gli venne chiesto: «Chi è il mio prossimo?», raccontò la storia di un giudeo, derubato e picchiato, e di un palestinese, chiamato samaritano perché veniva dalla Samaria, ma che era di fatto un palestinese. Dapprima erano passati due giudei che non avevano prestato attenzione all’uomo ferito, poi era passato il palestinese che, accortosi del giudeo, lo aveva preso tra le braccia e lo aveva accolto come un fratello, facendo qualcosa cui l’ospitalità ellenica non lo obbligava. Questa rottura della regola che limitava l’ospitalità ai membri di un gruppo ristretto, la sua estensione a un gruppo quanto più vasto possibile, e l’idea che siamo noi a determinare chi è nostro ospite, potrebbe essere considerato il messaggio centrale della cristianità. 

Successivamente, intorno al iii secolo, la Chiesa venne finalmente riconosciuta, i vescovi assunsero un ruolo simile a quello dei magistrati e la prima cosa che fecero fu creare delle case di ospitalità, istituzionalizzando una vocazione ispirata da Gesù, una vocazione personale. Furono dunque creati i xenodocheion: gli ospizi per alloggiare gli stranieri. La cosa interessante è che, in breve tempo, un discreto numero di importanti pensatori cristiani dell’epoca come Giovanni Crisostomo – parliamo di milleseicento anni fa – ribatterono che così facendo, istituzionalizzando la carità, o l’ospitalità, e trasformando un atto individuale in un atto sociale, i cristiani avrebbero smesso di essere conosciuti per ciò che li aveva resi celebri: per avere sempre un materasso, una crosta di pane raffermo e una candela a disposizione di chiunque bussasse alla loro porta. Tuttavia, per ragioni politiche, la Chiesa divenne, dal iv-v secolo in poi, e per circa un migliaio di anni, il principale strumento per dimostrare che lo Stato poteva essere cristiano. Esso infatti pagava la Chiesa affinché si prendesse cura, istituzionalmente, di una piccola parte dei bisognosi, sollevando così le normali famiglie cristiane dallo scomodo dovere di avere una porta, una soglia, sempre aperta per chi bussava magari dopo essere stato rifiutato da altri. 

Questo è ciò a cui mi riferisco quando parlo di istituzionalizzazione della carità, la radice storica dell’idea dei servizi e dell’economia dei servizi. Ora, personalmente non riesco a immaginare che un tale sistema possa essere riformato, anche se a fartene carico fossi tu o altre persone coraggiose di cui ho grande stima. L’impossibile incarico che queste persone si assumerebbero sarebbe quello di lavorare a una riforma del sistema dei servizi in grado di ridurre al minimo i mali che produce. Personalmente, insieme a Mitcham e ad altri amici, mi propongo invece di risvegliare in tutti noi la capacità di comprendere e far proprio l’esempio di quel palestinese, come dico sempre al posto di samaritano: io posso scegliere e devo scegliere, sono io che devo decidere chi voglio accogliere tra le mie braccia, in chi voglio perdermi, di chi è il volto che voglio guardare da vicino, il volto che voglio osservare, carezzare amorevolmente con il mio sguardo tattile, e da chi accetto, come un dono, di vedermi riflesso per ciò che sono.

 

Da Franco La Cecla, Ivan Illich e l'arte di vivere, Eleuthera, novembre 2018.

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