2 / Controversie microbiche

5 Agosto 2020

Quel che Bruno Latour ha mostrato in I microbi è che, in materia di scienza, la diffusione di un’idea, pur geniale o salvatrice, non avviene solo in virtù della sua forza, richiede anche l’intervento di altri attori, sia “naturali” che umani, micro-organismi, esperti, amministratori pubblici. Pasteur scatena le sue battaglie in tutti i luoghi dove ampi movimenti sociali sono assillati da un problema, ogni volta asseconda le loro richieste, ma impone loro un metodo per soddisfarle; recluta nuovi alleati, ma attribuisce la sua forza alle ricerche di laboratorio, come se soltanto da lì possa uscire la rivoluzione che modifica la società intera. Quando, negli anni Ottanta dell’Ottocento, l’industria serica entra in crisi in gran parte delle regioni mediterranee a causa di un morbo che colpisce i bachi da seta, le indagini al microscopio rivelano che il male si sviluppa soprattutto nelle crisalidi; basta dunque elevare la temperatura di qualche grado per affrettare l’uscita delle farfalle e poterne controllare la salute. Ancor prima, Pasteur era entrato nel campo della medicina veterinaria debellando una terribile malattia che colpiva pecore e mucche, il carbonchio, provocata dal bacillus anthracis. Mentre gli igienisti sono ancora prigionieri dell’idea di una spontaneità del morbo, diffuso genericamente dall’ambiente, i pasteuriani prelevano il responsabile del contagio e lo spostano nel laboratorio di rue d’Ulm, dove rendono visibili gli agenti invisibili grazie a processi di coltura, in cui il grado di virulenza del microbo è attenuato. Nel maggio 1881, Pasteur si reca in una fattoria di Pouilly-le-Fort, nella Beauce, inietta una serie di vaccini in 25 pecore, mentre altre 25 agiscono da test di comparazione. Solo le prime sopravvivono, a conferma dell’oracolo pronunciato dalla scienza; il germe responsabile del carbonchio viene sconfitto, come accade in quegli anni per il colera, il cui vaccino è isolato dallo spagnolo Ferran, dopo le ricerche del medico tedesco Robert Koch (anch’egli impegnato in controversie con Pasteur). La maggiore risonanza internazionale Pasteur la conobbe nel luglio del 1885 quando, dopo aver preparato il vaccino estratto da colture di midollo di animali infettati dalla rabbia, procede vittoriosamente ad inocularlo ad un bambino alsaziano di nove anni, morso da un cane.

 

Il segreto dei successi di Pasteur, sostiene Latour, sta nell’aver portato i problemi macroscopici degli igienisti alla scala microscopica del laboratorio, cosa che non riesce ad esempio agli studiosi di tubercolosi. In laboratorio si acquista forza perché i fenomeni vengono ritradotti e semplificati in modo da renderli controllabili; diceva Georges Canguilhem che “il laboratorio è […] un luogo di elaborazione di artifici destinati a rendere manifesto il reale”, ed è questo a consentire alla scienza di entrare in risonanza con la tecnica e a quest’ultima di intervenire con efficacia. Lo sa bene Pasteur: “Fuori dai loro laboratori, i fisici e i chimici sono soldati senz’armi sul campo di battaglia”. I pasteuriani installano laboratori in ambienti dov’erano prima sconosciuti, birrerie, cantine, stalle, trasformate in modo tale da obbedire alle condizioni sperimentali; apprendono dai contadini e dai veterinari le modalità di diffusione delle malattie, le associano a un microbo che viene diluito centinaia di volte prima di inocularlo, in modo che si sviluppi sotto pelle come in un brodo di coltura. In laboratorio si può “mimare” la variazione di virulenza, spostare il microbo su specie animali diverse per stabilire quali siano più recettive e come ridurne la nocività. Si può dunque “simulare” un’epidemia, ma padroneggiando gli elementi in gioco: purezza del gruppo di contagio, momento dell’inoculazione, separazione dei gruppi di controllo. Quando fiale di vaccino vengono diffuse nelle stalle, il microbo selvaggio è diventato un bacillo addomesticato; si è costruito il teatro della prova e lo si è reso visibile a un vasto pubblico. 

 

I medici, dapprima riluttanti, finiscono per riconoscere ai microbi un ruolo nello sviluppo delle malattie, soprattutto quando Pasteur mostra che con il nuovo attore si può spiegare anche quanto appariva inspiegabile, ad esempio come il microbo sporifichi dal sangue di animali infetti sepolti, grazie all’intervento dei lombrichi. Anche se il nuovo sapere si innesta su conoscenze antiche, connesse alle pratiche agrarie, da un punto di vista pratico il microbo non esisteva prima di Pasteur, sostiene Latour. Scoprire il microbo non vuol dire trovare alla fine il vero agente sotto altri divenuti falsi; ogni volta che si definiscono nuove prove e si costruisce un nuovo attore, bisogna mostrare che la nuova traduzione include tutte quelle precedenti e collegare il microbo del laboratorio alla malattia all’esterno. Scoprire non è sollevare il velo, è inventare e collocare al di sotto. Ecco creato l’ibrido della malattia sperimentale: non una cosa inerte ma un attore, un oggetto-soggetto che interagisce con le pratiche dei ricercatori, che interviene nei contesti sociali e vive nella zona metamorfica fra natura e cultura. Un’entità prima sconosciuta, microbo o virus, trova posto nel mondo scritto delle tabelle e dei grafici, su cui sono riportati gli esiti dei brodi di coltura, entra nel “mondo di carta” della letteratura scientifica. Allo stesso modo, spiegava Latour in Politiche della natura (Cortina, 2000), il suolo della foresta amazzonica è riprodotto e raffigurato nella teca comparatrice (pedocomparator) in cui vengono classificati i campioni raccolti dagli agronomi. Una volta rappresentato e fattosi astratto, il nuovo oggetto viene trasportato lungo le reti che collegano laboratori sparsi per il mondo; ogni passaggio introduce nuove informazioni che trasformano quell’ibrido che è il grafico, ma ogni volta si può ripercorrere il cammino che dal segno conduce alla cosa, al suolo o al microorganismo. 

 

Ph Mattia Balsamini.


La prospettiva “costruttivista” che Latour sviluppa, incentrata sulle pratiche di produzione della conoscenza, sfugge ai riduzionismi della sociologia della scienza, evita le derive relativistiche post-kuhniane: si tratta di un costruttivismo “realista” che guarda alle dinamiche di formazione dei saperi come opere collettive in cui sono in gioco anche i non-umani. Nell’introduzione a Essere di questa terra (Rosenberg & Sellier, 2019, raccolta di saggi di Latour dal ’95 al 2014), Nicola Manghi spiega come quella prospettiva sia l’esito dei lasciti che hanno segnato la formazione del pensatore francese: gli esordi nel campo dell’esegesi biblica, l’incontro con Marc Augé negli anni Settanta, collaborando con l’organismo incaricato di promuovere lo sviluppo delle scienze nei paesi ex-coloniali, e infine le suggestioni della semiotica conosciuta attraverso Paolo Fabbri. Non si tratta per Latour di negare oggettività alle scienze, di rifiutare l’esistenza di una realtà conoscibile, ma di porre attenzione ai passaggi grazie ai quali la scienza viene istituita, riconoscendo ad ogni attore coinvolto la giusta quota di agency. Se la scienza è obiettiva lo è perché sa rispondere alle obiezioni che le si possono muovere, se è responsabile è perché, letteralmente, sa dare risposta prima o poi alle domande che si pone.

 

Viviamo ancora nell’eredità platonica, coltiviamo l’illusione di poter accedere alla luce del vero che sta fuori dalla caverna delle rappresentazioni sociali, sogniamo l’alba chiara in cui finalmente ci sarà data l’armonia e la pace sotto la comune obbedienza alle leggi della scienza e della politica, sfuggendo ai contrasti in cui vivono i gruppi e le culture. Insomma, crediamo che esista una sola natura, di cui la scienza rispecchia la verità oggettiva, a cui si oppongono le molte culture, differenti, relative e cariche di soggettività. È su questa separazione fra natura e cultura che la nostra modernità si è fondata: non vogliamo mescolare l’autorità politica con quella scientifica e rifiutiamo di riconoscere che la natura, che pur ci trascende, è una costruzione artificiale sorta in laboratorio, è opera umana quanto la società. E quest’ultima a sua volta è il frutto dei giochi fra gli uomini, ma insieme li trascende, impone le sue leggi come la natura. È questa la mossa su cui si è edificata la modernità, spiegava Latour in Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica (1991, ’95 Eleuthera): grazie ad essa si è prodotta la “grande barriera” fra Noi e gli altri, primitivi e barbari, che mescolano ingenuamente culture e natura. L’antropologia, Lévi-Strauss incluso, guarda all’indigeno come a un annodatore di fili in cui si intrecciano aspetti fisici, mentali, sociali, religiosi; la società degli altri resta vincolata all’ordine dei cieli, le leggi delle cose restano mescolate al valore degli umani. I popoli che diciamo senza storia commetterebbero l’errore di proiettare sulla natura le proprie credenze e il proprio immaginario; e noi crediamo che solo l’errore vada spiegato, interpretato in termini di una pre-scienza vittima di preconcetti inconsapevoli o di ricadute di interessi sociali. La verità, al contrario, per i modernisti, si spiega da sé, è autofondativa, ha conquistato il metodo per accedere alla realtà oggettiva. Diventare moderni, spiegava Latour in Chiarimenti (conversazioni con Michel Serres, Barbieri, 2014), significa fare due volte la rivoluzione copernicana, separando il passato dal presente e separando il mondo conosciuto dallo spirito che conosce, secondo il gesto che in modo esemplare percorre la filosofia da Cartesio a Kant e oltre. Distinguendo nettamente il collettivo dal mondo, edificando lo spazio della cultura umana come scissione radicale dalla natura, crediamo di esserci definitivamente allontanati anche dal passato del mito e dell’ignoranza. Latour riprende l’esortazione che era di Serres: invece di coltivare il mito di una scienza depurata da ogni mito, possiamo comprendere l’odierna tecno-scienza solo riportando alla memoria le pratiche compiute dall’umanità arcaica. Esiste tutta una mitologia dei gesti antropologici delle scienze, dalla geometria alla biologia – purificare, distillare, sublimare… – che reimmergono i saperi che vorremmo oggettivi in quel passato da cui una presunta “rottura epistemologica” ci avrebbe fatto uscire per sempre. Le nostre tecniche più evolute rinnovano antiche pratiche sacrificali, suggeriva Serres in Statues (Grasset, 1987): cortocircuiti temporali raccordano la tragedia del Challenger al rituale del Moloch, che imponeva il sacrificio di bambini al dio Baal, gli olocausti delle mucche pazze rinnovano le immolazioni delle vittime animali. 

 

Basando la validità del “fatto” scientifico sull’autorità dell’esperimento di laboratorio, i moderni hanno fondato la forza sulla ragione e la ragione sulla forza e poiché negavano di farlo sono apparsi invincibili, afferma Latour. Ma ecco che il nostro tempo moltiplica gli ibridi, oggetti quasi-soggetti, al tempo stesso naturali e sociali. Era già questa la lezione di Primo Levi (rimando alla voce Ibrido apparsa su Doppiozero), la cui opera è un’esplorazione, come egli scrive nella premessa a L’altrui mestiere, dei “legami trasversali che collegano il mondo della natura con quello della cultura”, già a partire dal tentativo di comprendere quell’essere ambiguo che è l’uomo, “ibrido impasto di argilla e di spirito”. In realtà, proprio questo i moderni hanno sempre fatto, vietandosi di pensarlo: costruivano ibridi (campi coltivati e fiumi canalizzati, pacemaker e buco dell’ozono) e poi, con un lavoro di depurazione, distinguevano l’area degli umani e del sociale da quella delle cose. Ma anche le cose hanno una storia, i presunti oggetti sono attivi, socializzati, sono anch’essi soggetti che agiscono, e il sociale è riempito di cose che, come il virus odierno, spostano le dinamiche delle relazioni sociali. Le nostre società sono collettivi umani-naturali: embrioni congelati, computer, bombolette spray, il virus dell’Aids o il covid-19, impongono un intreccio e un groviglio in cui fatichiamo a distinguere ciò che attiene alle scienze, alla politica, all’economia, al diritto, alla religione. Le cose scivolano nelle cause, gli oggetti dei saperi che vorremmo disinteressati coabitano con le decisioni affidate ad organi di controllo politico o di polizia giudiziaria. Ma finché restiamo immersi nella piega aperta dalla dicotomia fra Natura e Cultura, sostiene il Latour di opere come Face à Gaia (2015, recentemente tradotto con il titolo La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, Meltemi), restiamo inermi, nella teoria e nella pratica, rispetto a quelle realtà ibride che sono il dissesto climatico o le pandemie. Sociale e naturale si con-fondono nella zona metamorfica in cui avvengono scambi, transizioni e transazioni, fra “potenze d’agire” di origini e forme molteplici, umane e non-umane: entità attive si impegnano in prove di forza, difendono interessi e stringono connessioni complesse e tutte agiscono in quel collettivo che è il cosmo. 

 

Ph Mattia Balsamini.

Abbiamo disanimato una sezione del mondo, la materia inerte del regno della Necessità, mentre abbiamo sovranimato un’altra sezione, il Regno della Libertà, della coscienza soggettiva, aprendo le implicanze problematiche testimoniate dalle aporie delle tre Critiche kantiane. L’accusa di vitalismo rivolta a Pasteur, colpevole di aver introdotto un nuovo agente, il microbo, irriducibile alla chimica del tempo, è per molti versi analoga a quella rivolta all’ipotesi Gaia, formulata nel 1979 dallo scienziato inglese James Lovelock. Anche quest’ultima introduce nuovi personaggi invisibili, estranei alla logica fisico-chimica, non semplici intermediari nella concatenazione di cause ed effetti, ma mediatori che aggiungono il proprio grano di sale al racconto, scrive Latour. Come il lievito che promuove la trasformazione dello zucchero in alcool o il virus pandemico, così altri organismi hanno in passato modificato l’atmosfera, il suolo e l’intero clima terrestre. Gaia è costituita da agenti che interagiscono fra loro, si alleano ed entrano in conflitto, compongono un sistema aperto, fragile e in divenire, senza che nessuna armonia possa disegnarsi. Definire la nostra era geo-storica Antropocene (o parlare di ominescenza, come faceva Serres) non significa solo riconoscere che l’impatto degli umani sull’ambiente si aggiunge a quello esercitato dai vulcani, dall’erosione o dalla chimica dei viventi. Impone anche la consapevolezza che la Terra non solo si muove, come chiedeva Galileo, ma è capace di azione e di comportamenti. La Terra torna a diventare soggetto, si esprime in termini di forze, d’interazioni e legami: proprio come facciamo noi umani, anche le cose, inerti e viventi, emettono e scambiano informazioni, ne conservano memoria, comunicano in base a codici. La scienza ridona un senso rigoroso al naturalismo tardo-rinascimentale, alla convinzione, che era di Giordano Bruno, di un mondo dotato di “sensibilità” tanto quanto Anthropos. “Sensibile” indica la capacità di individuare leggeri cambiamenti, segnali o influenze, e di innescare processi retroattivi, di sviluppare fragili connessioni in cui si inanellano, come sul nastro di Möbius, forze geologiche e tecnologie umane.  

 

“Essere di questa Terra” significa diventare consapevoli degli anelli retroattivi molteplici in cui natura e società si implicano a vicenda. Un tempo, ha ripetuto spesso Serres, potevamo sensatamente distinguere le cose che dipendono da noi da quelle che non ne dipendono; il saggio stoico non sperava di dettare legge al clima o alle epidemie, di controllare la nascita dei figli o di procrastinare la propria morte. Nell’era dell’Antropocene, invece, dipendiamo sempre più da quanto abbiamo scatenato con le nostre azioni e che ci si presenta come una potenza estranea; la natura, di cui la modernità progettava di farsi padrona, ci manipola proprio come fa il mercato finanziario che abbiamo creato. Ci siamo intromessi in modo sempre più massiccio in luoghi da cui siamo sempre stati assenti, abbiamo sbriciolato ecosistemi millenari, dalla polvere delle macerie si sono levati in volo parassiti sconosciuti; abbiamo aperto la strada alla recrudescenza di epidemie dovute a zoonosi, trasmesse dagli animali all’uomo, abbiamo offerto un terreno di coltura molto apprezzato dai virus, predisposto un ambiente in cui era loro facile trovare una nicchia. Già i microbi di Pasteur avevano trasformato le antiche forme della vita collettiva, facendo intervenire attori non-umani ed altri umani, medici e gendarmi, deputati a limitarne la diffusione. Quell’ibrido che è l’epidemia oggi in corso rappresenta al contempo un ritorno della natura e un ritorno del sociale; o meglio è la società stessa che andrebbe ridefinita, nel senso che in essa non agiscono solo i conflitti fra gli umani, ma entrano in gioco dei parassiti, “terzi” che sconvolgono la salute pubblica, “quarti” che li rappresentano, cioè li rendono visibili mostrandone gli effetti, “quinti” che cercano di proteggerci da essi, …. La sociologia, in quanto scienza delle associazioni, dovrebbe occuparsi anche delle pericolose retroazioni fra microbi ed umani, della convivenza fra parassiti e profitti, salute e società, biologia ed economia, geopolitiche mondiali e immaginari globali. A stabilire le forme delle relazioni fra gli uomini, le distanze e le prossimità, i contatti e le esclusioni, sono decisioni che diciamo politiche, ma imposte da quell’essere microscopico che s’intromette nelle relazioni sociali. Se viviamo nell’epoca della biopolitica è perché, al di là di Michel Foucault, le reti di potere non si limitano a disciplinare i corpi dei cittadini, a gestire la salute pubblica in nome dell’efficienza produttiva e degli interessi statali. La sfida di Gaia consiste nel ridefinire la politica: non più organizzazione del vivere collettivo dei soli umani, ma “composizione progressiva del mondo comune”. 

 

La crisi attuale, quella di cui il crollo finanziario del 2008 era solo un’increspatura di superficie, nasconde e rivela una rottura nella faglia profonda della nostra storia, a cui si potrà rispondere solo uscendo dalla politica intesa come luogo dei legami esclusivi tra gli uomini. Le nostre culture sono state “povere di mondo” (per usare la formula che Heidegger attribuiva agli animali), sono state forgiate da intellettuali acosmisti, per i quali la natura era al più risorsa da sfruttare o nemico da vincere. Questo Tempo di crisi (per riprendere il titolo del libro di Serres, Bollati Boringhieri, 2010) rende sempre più urgente promuovere una istituzione realmente “mondiale”, in cui sia il mondo stesso a essere rappresentato. È questo il compito che attende l’ecologia politica, continua a ripetere Latour dall’epoca di Politiche della natura: fondere le procedure del laboratorio e delle assemblee politiche per comporre la dimora comune, l’oikos, il collettivo di umani e non umani. Al parlamento, l’organo che “rappresenta” la moltitudine dei cittadini, si aggiunge il laboratorio, il luogo in cui gli scienziati hanno messo a punto gli apparati che consentono ai non umani di aver parola. Ma in democrazia le scelte si muovono sullo sfondo di quell’ingrediente inevitabile del sapere che è l’incertezza: non ha più valore la contrapposizione fra gli scienziati, che non discutono perché offrono conferme sulla base di fatti incontrovertibili, e i politici, che discutono senza potersi mai mettere d’accordo. Chiedere agli scienziati di risolvere i problemi è spesso, ne abbiamo fatto recente esperienza, solo il modo più rapido per accendere controversie che la “natura” non risolve, almeno nell’immediato.  

 

La vera “mondializzazione” non è quella dei mercati ma è quella che fa di Gaia, della Terra intera, una realtà interconnessa, intessuta di reti in cui gli oggetti muti comunicano incessantemente fra loro prima che a farlo siano gli umani. Le nuove scienze della vita e della terra (per le quali Serres ha proposto la formula BioGea, Asterios, 2016) non trattano più il reale come insieme di oggetti separati, manipolabili in laboratorio; si occupano dei legami che fanno comunicare le cose tra loro, sono tutte somiglianti all’ecologia, cioè a un sapere che connette l’insieme degli esseri alle condizioni fisico-chimiche del vivere in comune, mescolanze e realtà ibride fra natura e cultura. L’oikos deve fondarsi su di uno “stato di diritto di natura” in cui l’amministrazione del clima, dei virus, degli animali, si componga progressivamente con le esigenze della vita pubblica. La Terra va riconosciuta come soggetto di diritto in quanto agisce e reagisce globalmente al di là delle frontiere effimere che le nazioni hanno tracciato. Non si tratta di proiettare sulla Natura quanto credevamo di esclusiva pertinenza degli umani, il diritto o la giustizia, ma di riconoscere che le cose stringono contratti fra loro, stabiliscono insiemi di regole per coabitare: “non vediamo più la differenza che separa una pace fra gli uomini da un contratto tra i fiori”. Contratto, ricordava il Serres del Contratto naturale (Feltrinelli, 1990), significa il tratto che tira e lega, rimanda alla corda, quasi oggetto con il quale gli uomini stabiliscono legami fra loro, con gli animali e con le cose: è alla con-cordia, all’unità di cuore, che si affidano i collettivi in mare e in montagna, cioè in quei sistemi globali, dalla nicchia fragile, dove il gruppo mette in gioco la propria vita. Un diritto davvero naturale richiede una “carta dei diritti delle cose”, che imponga l’abbandono della logica proprietaria e invasiva dei parassiti, in nome di quel patto di simbiosi e reciprocità che siamo chiamati a stringere con la Terra, di cui siamo gli inquilini ultimi arrivati.

 

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