Le Corbusier e Adriano Olivetti

7 Maggio 2014

A un primo sguardo, i punti di contatto tra Adriano Olivetti e Le Corbusier sono parecchi: l'idea che la tecnica è al servizio dell'uomo, l'attenzione verso il mondo nuovo che arriva dagli Stati Uniti, in particolare per l'organizzazione del lavoro di stampo taylorista, la necessità di teorizzare i propri progetti di società e poi dargli corso (Le Corbusier attraverso il CIAM, Olivetti con il Movimento Comunità), un fondo di spiritualità, l'aver compreso che il XX secolo vede l'irrompere delle masse nella storia e quindi come sia necessario riaggregarle in nuove morfologie sociali. Se si aggiunge che Le Corbusier, come Picasso, Einstein, Toscanini, Bertrand Russell, Chaplin e qualcun altro, è un "personaggio Novecento", una personalità che, attraverso l'amplificazione dei nuovi media (giornali, radio, televisione, cinegiornali), è riuscita a travalicare il proprio specifico disciplinare, è quasi inevitabile che il cammino dei due si dovesse incrociare.


L'incontro o, forse meglio, il mancato incontro, è il tema del libro Le Corbusier e Olivetti. La Usine Verte e il centro di calcolo elettronico (Quodlibet), monografia della studiosa sarda, ma di studi catalani, Silvia Bodei. L'opera racconta minuziosamente, riportando alla luce documenti d'archivio e raccogliendo testimonianze, le due occasioni d’incontro tra l'architetto svizzero e l'imprenditore piemontese.

 


Una prima volta avviene nel 1936, dopo uno scambio di lettere che comincia nel 1934. Olivetti è un imprenditore poco più che trentenne ingabbiato dal fascismo, con il quale pure ha buoni rapporti in questi che sono gli "anni del consenso", ma all'opera per trasformare l'azienda paterna in un gruppo internazionale, con una nuova concezione del lavoro e del rapporto tra fabbrica e comunità. È il periodo del Piano Regolatore della Valle d'Aosta e delle nuove costruzioni (la fabbrica a vetri, i servizi sociali) dei giovani architetti razionalisti Figini e Pollini. Le Corbusier li dichiara suoi allievi e propone un piano di grandi costruzioni cercando disinvoltamente di scavalcare i due architetti, che, naturalmente, si oppongono. Anche Olivetti ha delle perplessità, sia per la natura dei rapporti sia per il tipo di progetto, troppo magniloquente per la piccola Ivrea. Le Corbusier è in quegli anni all’opera su un progetto analogo: il villaggio industriale di Bata, in Cecoslovacchia, la cui distopia è raccontata con grande verve da Marius Szczygiel in Gottland.


Un secondo incontro, che è il cuore del libro, avviene quando la Olivetti si getta nell'avventura dell'elettronica che la porta a realizzare, prima azienda al mondo, un computer main frame (uno scatolone orizzontale) che commercializza nel 1959. È in quel torno di tempo che Adriano pensa a una fabbrica esemplare, una fabbrica manifesto, come già era stata Pozzuoli progettata da Luigi Cosenza con il giardino di Piero Porcinai, in cui il mondo nuovo dell'elettronica, quello che si vede nel documentario aziendale Elea classe 9000 (1960) per la regia di Nelo Risi e le musiche di Luciano Berio, potesse trovare la sua sede. L'area individuata è Rho, alle porte di Milano, a fianco all'autostrada Milano-Torino (Ivrea), nel centro della pianura padana (come visualizza Corbu in uno schizzo preparatorio).

 

 

La morte improvvisa di Olivetti, nel febbraio 1960, rende il figlio Roberto, poco più che trentenne, l'interlocutore di Le Corbusier, insieme all'architetto interno Emilio Tarpino e alla mediazione di Jean Petit. Il libro si potrebbe leggere come un analitico romanzo aziendale, con i sopralluoghi di Le Corbusier, le sue idee fisse (la modularità costruttiva, il dilemma tra aria condizionata o ricircolo d'aria, la disposizione degli edifici, il valore simbolico di alcune parti come un sorprendente museo interno), il valore di Roberto Olivetti e dei suoi collaboratori che non si fanno schiacciare dalla forte personalità dell'architetto svizzero – anzi Roberto, dopo aver visitato il convento di Ronchamp, scrive una bellissima lettera all'anziano maestro in cui dichiara di volere una fabbrica impregnata di un'atmosfera spirituale, "propizia alla preghiera e alla ricerca" – ma noi sappiamo già il finale. La divisione elettronica viene venduta nel 1964 alla General Electric e il progetto resta in sospeso, finché la morte di Le Corbusier, nel 1965, rende vani i cinque anni di lavoro di cui restano solo bellissimi schizzi.

 

 

Il libro insiste nella parte finale sulle analogie tra le idee di Usine verte lecorbuseriana e le idee di fabbriche comunitarie olivettiane: a me pare però che il carattere impositivo dei progetti lecorbuseriani, la sua idea totalizzante dell’architettura, finisse fatalmente per confliggere con la visione di Adriano e poi di Roberto.
Qualche giorno fa Giovina Volponi, che fu assistente personale di Olivetti per quattro anni, mi raccontava che, dopo aver assunto Luciano Gallino su suo suggerimento, Adriano commissionò al giovane sociologo uno studio sull'azienda. Questi, compiute analitiche ricerche, si ripresentò da Olivetti con un ponderoso lavoro. A casuale apertura di pagina Adriano trovò una minuziosa parte sull'organizzazione del tempo libero del personale e sussurrò: "eh no: qui non ci siamo". Per nostra fortuna, sono passati più di cinquant'anni, Gallino è molto migliorato. Temo che, se il progetto si fosse realizzato, Le Corbusier avrebbe trovato pane per i suoi denti.

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