I tarocchi dei Bembo

11 Maggio 2013

Recensione visionaria della mostra: Tesori nascosti di Brera: Tarocchi del XV secolo. I tarocchi dei Bembo. Una bottega di pittori dal cuore del Ducato di Milano alle corti padane, "quelle carte de triumphi che se fanno a Cremona", tenutasi nelle sale della Pinacoteca di Brera dal 21 febbraio – 7 aprile 2013.

 


 

In una lattiginosa mattina di ottobre, il tesoriere ducale di Cremona, Antonio Trecco, ricevette una missiva dal reggente di Milano, Francesco Sforza, che, impegnato nella guerra contro la Serenissima, era attendato nel feudo di Calvisano, poco distante da Brescia. Una cappa di bruma e di uggia gravava sulla città.

 

“Perchè el Mag[nifi]co Sig[no]re Sigismondo [Malatesta] ha rechesto ad la Ill[ustrissi]ma Madonna Bianca nostra consorte uno paro de carte da triumpho per zugare, ti commettimo et volemo che subito ne debij fare fare uno paro de belle quanto più sarà possibile pincte et ornate con le arme ducali et al insigne nostre et mandaraile subito como serano facte. Apud Calvisanum XXVIIJ octobris 1452."   

(Le Missive dello Sforza sono conservate presso l’Archivio di Stato di Milano, Registro Missive n. 7, foglio 348, anno 1452, in Emilio Motta, "Altri documenti per la libreria sforzesca", Il Bibliofilo, X (1889), pp. 107-111.)



Senza por tempo in mezzo, il Trecco inviò subito un messo a un pittore suo conterraneo, in quei giorni impegnato a Brescia, che reputava essere il più idoneo ad assolvere l’incarico sforzesco, avendo egli già eseguito, tempo addietro, un analogo mazzo di Tarocchi per il duca Filippo Maria Visconti.

 

L'imperatore, Milano, Brera Brambilla

 

Erano le idi di novembre quando Bonifacio riuscì a mettere finalmente piede a Milano. Aveva all’incirca trent’anni, occhi sognanti e mani affusolate da artista. Sebbene la missiva del tesoriere ducale lo avesse colto alla sprovvista, aveva risposto con prontezza alla sua chiamata e, abbandonata all'istante l’opera a cui stava lavorando a Brescia, insieme ai suoi fratelli, Ambrogio, Benedetto e Gerolamo si era subito messo in viaggio per Milano. Malauguratamente la piena dell’Adda lo aveva rallentato, così era arrivato nel capoluogo del ducato in ritardo rispetto al previsto e ora temeva di avere perduto la commessa, magari già affidata dallo Sforza a qualcun altro – gli artisti che gli gravitavano attorno erano così tanti che ci sarebbe stato da aspettarselo. Lungo la strada aveva appreso che il signore di Milano trascorreva molto tempo sul cantiere della fortezza viscontea della quale aveva promosso i lavori di rinnovo; lo avrebbe cercato lì. Si avviò, dunque, di buon passo verso Porta Giovia, sperando d’incontrare anche quell’architetto fiorentino giunto da poco in città e di cui aveva molto sentito parlare, l’Averulino detto il Filarete, apprezzato da tutti nel ducato perché scevro da quell’eccesso di razionalità che connotava i suoi colleghi toscani. Discutere d’arte con lui gli avrebbe fatto bene. Mentre camminava, elencava meccanicamente le richieste di materiale da avanzare all’economo dello Sforza per por mano al lavoro che aveva in mente: una pressa a caldo per il cartone; foglia d’oro zecchino e foglia d’argento in gran quantità (questi suoi nuovi Tarocchi avrebbero dovuto rilucere); punzoni bene affilati e una serie di bulini con punte ad angoli diversi, a mandorla, a mezzo tondo, piano con sezione quadrata, piano rigato (non voleva sorprese, meglio essere preparati ad ogni evenienza e con tutti gli strumenti pronti all’uso). Gli sarebbe necessitato anche del gesso della grana più fina e pigmenti blu lapislazzulo (conosceva uno speziale della Vetra che li importava personalmente dall’Oriente, intendeva fargli visita al più presto per verificarne di persona la qualità).

 

Motto A bon droit, Raccolta Colleoni

 

Abbisognava inoltre di una buona dose di carminio e anche di porpora e di rosso rubino per le vesti, oltre a un giallo brillante per le lumeggiature, e poi di un verde chiaro e di uno più scuro per l’erba dove i personaggi e gli animali dei suoi Arcani Maggiori avrebbero poggiato piedi e zoccoli. L’indaco e il violetto se li era portati con sé, insieme ai suoi diletti pennelli. La richiesta dello Sforza precisava, inoltre, che sulle carte dovessero comparire anche le Insegne del casato visconteo e lui non sapeva risolversi se scegliere l’aquila, il biscione, oppure il sole, o ancora il motto di famiglia: a bon droyt, vale a dire "a buon diritto"; o l’altro ancora: phote mante, “bisogna resistere”. Li aveva già tutti impiegati nel mazzo di Trionfi che aveva realizzato qualche anno avanti per il duca Filippo Maria e non gli andava di ripetersi. Si frugò nella tasca della giubba alla ricerca del tozzo di pane che vi aveva riposto – era quasi mezzogiorno e i morsi della fame avevano iniziato a farsi sentire – quando le sue dita incontrarono alcune monete. Si trattava dei sisini d’oro che il Trecco gli aveva corrisposto come anticipo per le spese di viaggio e che lui non aveva ancora toccato. Ne estrasse uno e iniziò a rimirarlo. Sul recto aveva inscritti i titoli dello Sforza: duca di Milano, conte di Pavia e di Angera, signore di Cremona e uno scudo inquartato con l’aquila e la biscia. Sul verso, recava, invece, una Croce fiorata. Appropriato, pensò e in quello stesso istante decise che lo avrebbe riprodotto sul retro delle sue nuove carte e utilizzato come simbolo dei Denari. Soddisfatto d’aver trovato la soluzione, cominciò a fischiettare e accelerò il passo.

 

Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini, non osava quasi toccarle quelle sue nuove carte da gioco venute da Milano. Scosse la testa e sorrise. Ancora una volta il suo ex suocero era riuscito a sbalordirlo. Sebbene lui fosse più incline alla pittura mentale e asciutta di Piero della Francesca, che, proprio in quei giorni, gli stava eseguendo un ritratto a fresco nel tempio restaurato dall’Alberti, non poteva negare che la profanità fulgida e l’esibita mondanità cortese di quelle miniature sforzesche lo attraessero come fa il magnete con il ferro. Nonostante per parte sua prediligesse lo scarno registro cromatico di Piero, scandito dal ritmo binario dell’alternanza del rosso col blu, doveva ammettere che quell’oro lombardo lo traeva a sé, come gli scintillii attirano la gazza ladra.

 

“Re regine cavalieri e fanti erano giovani vestiti con sfarzo come per una festa principesca; i ventidue Arcani maggiori parevano arazzi di un teatro di corte; e coppe denari spade bastoni splendevano come imprese araldiche ornate da cartigli e fregi” pensò il Malatesta, inconsapevole d’esprimersi con parole non sue, che anticipavano, in un’arcana premonizione, quelle di un Italo futuro.

 

Iniziò a disporre le 78 carte sopra il piano di un tavolo, a formare un quadrato di 9 per lato, l’ultima fila mancante di 3. Nel muoverle, le sfiorava quelle carte venute da Milano, rilucenti di bagliori, e gli pareva che i colori balzassero fuori con splendida vivezza, come se fossero stati appena stesi. Erano fatte di cartoncino pressato e ricurvo, lunga ciascuna quasi venti centimetri e larga nove. Attratto da una voluta, si soffermò a rimirare i dettagli profusi dal maître cartier negli intrichi vegetali di quelle numerali, arabeschi e sinuosità di una verdeggiate boscaglia, di una “selva selvaggia” che si avviluppava alle coppe, alle spade, ai bastoni e ai denari, in un gioco capriccioso e suadente.  

Regina di lance

Come trasognato, indugiò a rimirare i re, le regine, i cavalieri e i fanti parendogli di rivivere in quel microcosmo incantato i fasti del corteggio nuziale dello Sforza, per la somiglianza delle vesti di questi coi panni della corte di quegli. Maneggiandole con grazia, iniziò a spostare prima una carta e poi un’altra, intrecciando destini possibili; quasi fosse stato il suo mestiere il medesimo delle Parche, avvicinò una dama a un cavaliere, con pronuba intenzione; subito dopo la Ruota della Fortuna all’Imperatore, a monito della caducità del potere – del proprio in primis –; la sua mano, incline alla coincidentia oppositorum, approssimò in seguito il Sole alla Luna e, poi, il re di spade alla Morte a fatal chiusura della danza di ogni guerra. Osservandole meglio si rese conto che le carte si prestavano ad un numero infinito di abbinamenti possibili, nei quali si poteva leggere un analogo numero di storie incrociate, non esclusa la sua.

 

Un timido bussare alla porta lo costrinse ad interrompere quell’itinerario fantastico tra gioie e dolori, nella stanza era entrato Roberto Valturio, il suo consigliere personale, venuto a rammentargli gli impegni di governo. Radunate, dunque, a malincuore le carte, il signore di Rimini le ripose nel forziere e, mentre ne richiudeva il coperchio, un raggio di sole, filtrato dagli scuri, dardeggiò per un attimo su quell’oro lombardo facendolo rilucere.

 

Per esigenze narrative ho liberamente “mischiato le carte”, prendendo spunto da tutti i mazzi pervenutici  attribuiti a Bonifacio Bembo (Cary-Yale, Brera-Brambilla, Pierpont, Carrara). Un altro arbitrio riguarda il sisino, che non era una moneta d’oro, come fu invece il fiorino visconteo.

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