Italia

12 Maggio 2012

Riga, una collana che avvicina ai grandi innovatori del Novecento

 

Riga è nata nel luglio del 1991 senza nessun particolare programma. Volevamo piuttosto fare la rivista «che ci sarebbe piaciuto leggere». Una rivista dedicata al contemporaneo, ad autori e temi che ci sembravano rilevanti nel corso dell’ultimo secolo, ma non solo. Una rivista che conservasse la memoria del passato, e insieme che si protendesse sul futuro.

 

Marco Belpoliti, Elio Grazioli

 


 

Nella scena seconda del secondo atto dell’Amleto entrano gli attori, sono gli artisti della compagnia stabile dell’illustre teatro cittadino che ora, persa la stima e la popolarità a causa delle «ultime innovazioni», come precisa Rosecrantz, sono costretti a viaggiare. Amleto è perplesso di trovarli lì a recitare nella scena della sua follia, e domanda ai due amici d’infanzia se gli attori non si sono per caso arrugginiti da dover diventare una compagnia viaggiante. «No, vanno col solito passo», risponde pronto Rosecrantz. «Ma ora c’è, signore, una nidiata di bambini, falchetti che urlano a squarciagola e vengono entusiasticamente applauditi. Sono loro la moda, adesso, e se la prendono talmente con i teatri comuni - così li chiamano - che molti che portano la spada hanno paura delle penne d’oca e non osano più andarci». Al che Amleto replica: «Cosa? Sono bambini? Chi li mantiene? Chi li sovvenziona? Smetteranno di lavorare quando non potranno più cantare? E dopo, se dovessero diventare attori comuni - com’è probabile, se non hanno altri mezzi -  non diranno che i loro autori gli fanno torto a farli sbraitare contro la loro stessa professione?» Rosecrantz non può che acconsentire, e subito spiega: «In effetti, c’è stato un gran bailamme da tutte e due le parti, e la gente non considera peccato provocarli alla rissa. Per un certo periodo non si vedeva un copione se dentro non c’erano il poeta e l’attore che si azzuffavano sulla questione».


 Fa una certa impressione ritrovare in questa recente traduzione dell’opera di Shakespeare una fedele parabola di quello che accade ai nostri giorni. Sia che si legga la vicenda degli attori del Globe scacciati dalla «nidiata dei falchetti» come la storia del passaggio dal vecchio ordine a un presunto nuovo ordine politico e sociale, sia che la si interpreti come il continuo succedersi delle generazioni nel mondo dello spettacolo, dell’arte e della letteratura, in ogni caso vien da pensare che, da che mondo è mondo, le cose non sono mutate.


Rosecrantz, che nel dramma recita la parte dell’utile idiota, certifica l’avvenimento: «Oh, c’è stata una grande battaglia di cervelli»; al che il suo amico di gioventù, l’unico che insieme a Ofelia ha il dono del doppio regno, della duplice cittadinanza, che è poi quello della vera giovinezza che produce follia, gli chiede: «E i ragazzi hanno vinto?» «Sì, caro Amleto», verrebbe voglia di rispondere, «i ragazzi hanno sempre vinto e sempre vinceranno: dalla loro hanno l’esuberanza della giovinezza, la forza e la prepotenza di chi non ha ancora un passato da difendere, l’arditezza di chi ha idee semplici ed efficaci ficcate in testa». Eppure, anche i giovani dopodomani saranno vecchi. E allora? Allora tutto ricomincerà da capo. Il Principe di Danimarca mette fine a questi dubbi con un’ennesima riflessione sul cambiamento avvenuto nel Regno di Danimarca dopo la morte del padre e l’ascesa al trono dello zio: quelli  che lo sbeffeggiavano, ora soffrono molti ducati per avere un ritratto del nuovo sovrano: «Perdio, c’è qualcosa di più che naturale, in questo, se solo la filosofia riuscisse a scoprirlo». Chissà cos’è quel «more than natural» a cui allude Amleto che la filosofia dovrebbe chiarire?


Queste domande - cosa succede oggi in Italia? I ragazzi hanno vinto? C’è qualcosa di più che naturale, in questo? - riecheggiano di continuo nelle pagine di «Riga» che seguono. Esse raccolgono la corrispondenza epistolare tra i due curatori e i diversi invitati, attraverso cui, nel tono spesso colloquiale e vitale che fa il «corrispondere», si mandano i più diversi materiali del proprio operare artistico e letterario. Parlando di sé come del proprio lavoro, rispondendo alla provocazione di un interlocutore, scegliendo le parole di un altro per spiegare i propri pensieri, danzo spazio ai furori, alle pulsioni, ai dubbi e persino all’immancabile narcisismo d’artista, tutti s’interrogano sulle ragioni del proprio fare e tutti, nonostante le evidenti diversità, esprimono qualcosa di concorde, una specie di comune consapevolezza che richiama alla mente la saggezza folle di Amleto. Questa consapevolezza la si potrebbe riassumere così: la vita scorre sempre uguale a se stessa, e dunque immemore di sé e delle proprie annose ripetizioni, tuttavia, di generazione in generazione, accade qualcosa di inatteso: uno scatto, una frattura, una novità. Questa novità non è forse l’opera d’arte?

 

Del resto, i discorsi che vanno e vengono, le lettere degli interroganti, le risposte contratte, ellittiche e paraboliche – come sono sempre le parole degli artisti e degli scrittori quando parlano di sé –, i grovigli, gli intrecci, i nodi, d’amore e a volte persino d’odio – entrambi mai detti, ma sempre presenti – girano in tondo attorno alla medesima domanda: come conciliare i ritmi della vita con quelli dell’arte? Ciascuno si inventa i propri modi per catturare gli uni negli altri: alcuni ricorrono al diario, al resoconto, alla fotografia istantanea, all’appunto, al frammento in cui trapeli qualcosa del tutto; altri si appostano nei «luoghi magici» della pittura e della letteratura nella speranza di cogliere l’attimo creativo; altri ancora si affidano alla tontaggine clownesca, ironica e tragica al tempo stesso, che rende attoniti e perciò più disponibili; altri ricorrono al discorso filosofico che da secoli, per noi tutti, è una certezza attraverso cui transitare diretti verso ulteriori verità; poi ci sono quelli che prediligono la durezza silicea delle parole e non cercano che selci e pietre focaie del linguaggio su cui far sprizzare qualche scintilla di realtà.

 

Il lettore capirà poco a poco da sé, leggendo queste pagine, che queste persone appartengono, grossomodo, a una medesima generazione; eppure non troverà niente di generazionale, nel senso che questa parola ha assunto oggi: niente di quella «nidiata di bambini, falchetti che urlano a squarciagola e vengono entusiasticamente applauditi». Tuttavia qualcosa perfino di generazionale resta in esse, nel senso che si diceva prima: della temporalità che contiene in sé sia l’uguale che la novità, l’immemore come lo scarto. Forse è per questo che i due curatori hanno voluto intitolare il numero ITALIA, e forse per questo, dopo aver riletto le lettere, i racconti, le poesie, i testi teatrali, le canzoni, dopo aver guardato i disegni, i progetti e le opere riprodotti, si sono convinti che per sapere cosa succede oggi in Italia – come ieri nel Regno di Danimarca – bisogna rivolgersi non solo, e forse non tanto, ai politici e ai sociologi, ai maghi dei sondaggi e agli opinionisti della carta stampata, ma a chi, con costanza e dedizione, spesso invocando un salutare isolamento, si pone i problemi del proprio fare.

 

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