Affittacamere: imprenditori o dipendenti Airbnb? / La pensione di Ruth

9 Novembre 2016

Voglio bene a mio genero. È un valente professore di letteratura inglese e un gran montanaro. Però dopo più di un mese a casa sua e di mia figlia, il sospetto che la presenza del suocero non sia l’ingrediente ideale per la felicità di un giovane matrimonio mi decide a cercarmi un’altra sistemazione. Dopo tutto sarà solo per una decina di giorni e poi potrò trasferirmi nel bilocale a Sunnyside, nel Queens, per il quale sono in parola con la proprietaria. Avrei dovuto entrarci già da una settimana, ma la sciagurata si è imbarcata in lavori di ristrutturazione che hanno ritardato la consegna delle chiavi e prolungato la mia condizione di ospite.

Presa la decisione eseguo la solita ricerca su Airbnb. Scelgo una camera a Flushing, quartiere sulla punta orientale della municipalità di New York. In fotografia il posto sembra decente, ha ventisette valutazioni di ospiti tutte cinque stelle, non è caro e mi permette anche di accorciare i trasferimenti con l’università. Dovrò condividere il bagno con i padroni di casa, Ruth e figlio, ma la colazione è compresa nel servizio. C’è anche un impianto di Karaoke di cui mi è garantito il pieno utilizzo. 

 

Arrivo e mi cadono le braccia. La camera sarà tre per tre, quattro a essere generosi. Ci stanno dentro il letto appoggiato alla finestra, un mobiletto a due cassetti e basta. Mancano l’armadio, sostituito da alcuni attaccapanni appesi alla porta, e soprattutto un tavolo per lavorare. Non c’è nemmeno una sedia. Mi rendo conto che la foto della camera pubblicata su Internet era presa dall’interno verso l’esterno. Si vedevano solo il letto e la strada al di là della finestra, ma niente della stanza vera e propria. Solo un deficiente non se ne sarebbe accorto, ma ormai è troppo tardi. Il pagamento con la carta di credito è già scattato e poi dove vado? Arrangio le mie cose meglio che posso, poi faccio un giro fuori. La visita alla biblioteca di Flushing mi rincuora. È aperta tutta la settimana con orari davvero comodi: nove del mattino-nove di sera da lunedì al venerdì, dalle dieci alle cinque il sabato e solo pomeriggio la domenica. Rincuorato me ne torno da Ruth. In salotto c’è Ramón, il figlio tredicenne ipnotizzato dai cartoni animati che lampeggiano sul maxischermo televisivo. Non gli vedrò fare altro per nove giorni. Mi siedo al grande tavolo della sala da pranzo e scopro di aver diritto agli altri pasti, oltre che alla colazione. Ruth e un’altra signora più giovane, che mi sembrerebbe la domestica, si alternano ai fornelli e mi invitano a servirmi quando è pronto. È una frittura micidiale di pesci, cipolle e verdure.

 

Mi ricorda le lezioni di teoria per l’esame della patente, quando ci spiegavano che nel motore a scoppio la frizione funziona a bagno d’olio. 

Non c’è un pasto comune, ma un servizio mensa continuato. Uno arriva, si serve e si siede a tavola. Quando ha finito posa le stoviglie nel lavandino e se ne va. Io resto perché non ho un altro posto dove stare e anche per esplorare il territorio. Pian piano mi rendo conto di non essere l’unico ospite di Ruth, come avevo invece immaginato in base all’annuncio su Airbnb. Con me sta mangiando una ragazza scorbutica, anglo, occupata a prender appunti su un quaderno fra un boccone e l’altro. Ma fino a qualche minuto fa c’era anche un giovane, arabo direi, in procinto di partire per Chicago il giorno dopo. Quindi saremmo già in tre. Quando sto per andarmene a letto arriva una signora sulla trentina, dal sorriso aperto. Chiacchiera volentieri. È una diplomatica di Est Timor, a New York per l’annuale assemblea delle Nazioni Unite, sezione diritti umani. Non devono passarsela bene nel suo paese, penso, se mandano i loro diplomatici su Airbnb. O forse hanno un senso formidabile dell’etica pubblica. In ogni caso con lei siamo già in quattro. Dove la mette Ruth tutta questa gente? Io sto al piano terra. La mia camera è stata infatti ricavata murando l’ingresso, il che mi concede il privilegio di un’entrata privata. Mata, la diplomatica di Timor, dorme al primo piano, dove ci sono altre due camere, quelle della padrona e del figlio. E gli altri? Nel basement, cantina o seminterrato in italiano, anche se la traduzione non rende perfettamente l’idea.

 

Ce l’hanno tutte le case indipendenti e nel Midwest serve da rifugio durante i tornado. Viene quasi sempre attrezzato con i servizi e a volte anche la cucina per allargare la capacità ricettiva della casa. Ma in una città affamata di alloggi come New York, tanti padroni di casa hanno ricavato dal seminterrato appartamenti da affittare. Questo avviene spesso in regime di illegalità, perché il comune permette la locazione dei seminterrati solo a patto di rispettare precise regole di abitabilità – una certa altezza dei locali, presenza di finestre con un minimo di luce, assenza di altri pensionanti nella casa – che sono in genere ignorate dai proprietari.

Da una seconda conversazione con la ragazza scorbutica viene fuori che nel basement di Ruth ci vivono in tre. Dovremmo quindi essere in cinque ospiti, disposti così: la timorese al piano alto, io in mezzo, la scorbutica e altri due nel seminterrato. Però c’è anche la presunta domestica, che potrebbe essere una pensionante anche lei, con la differenza di pagare la retta, tutta o in parte, coi servizi resi in casa. Dove dorma, non mi è, e non lo sarà fino alla fine, dato saperlo. Nel resto del mio soggiorno le cose si complicheranno. Arriverà un altro diplomatico di Timor Est e nel basement risulterà vivere in pianta stabile un ragazzo indiano gentilissimo, ma escluso (non riuscirò a scoprirne il motivo) dalla tavola comune. A lui si aggiungerà alla fine un distinto gentiluomo del Kerala in visita al figlio. Quest’ultimo deve essere un mostro di ingratitudine per mandare il padre venuto da lontano a dormire sottoterra. O forse abiterà anche lui in una casa strapiena di gente. 

 

 

Durante i nove giorni che ho passato da Ruth, credo che in casa ci siano sempre state fra le sei e le otto persone. L’elasticità la dà proprio il seminterrato. Lo esploro la prima sera quando vado in bagno (non godo del privilegio dei servizi al piano di sopra, dove stanno ospiti che sembrano leggermente più importanti di me). È un locale basso e privo di luce solare. Non ci sono camere, ma solo dei tramezzi di plastica fra un letto e l’altro. Qualche comodino, due scarpiere strapiene e i soliti attaccapanni completano l’arredamento. C’è anche un divano per le conversazioni fra chi non riesce a prender sonno. 

Sono lì da una settimana quando una sera si presentano quattro coreani, ospiti di Ruth per come lei li tratta, che disdegnano la cucina della padrona di casa e si preparano la cena per conto proprio. Da dove saltano fuori? Non dal basement, in quel momento al tutto esaurito. Il mistero si chiarisce la mattina dopo quando, dalla mia finestra, li vedo arrivare per colazione. Hanno una camera da qualche parte nel vicinato, chiaramente priva di cucina. Ruth deve far parte di una rete di quartiere che smista le persone in cerca di alloggio.

 

Questo ad integrazione sotterranea di Airbnb, a questo punto la faccia pubblica di un’organizzazione informale, basata sul passaparola, dell’offerta di posti letto a buon mercato. E a pensarci bene lo stesso deve avvenire sul lato della domanda. Gli ospiti di Ruth, che è originaria delle Filippine e ha ancora dei famigliari là, arrivano in prevalenza dall’Asia meridionale: India, Indonesia, Malesia, Sri Lanka, Timor. Il passaparola deve funzionare anche là e sicuramente riuscirà a trovare una sistemazione, già prima di partire, alle persone dirette non solo a New York, ma a tutti i capolinea delle rotte dell’emigrazione.

 

Nei miei nove giorni da Ruth imparo diverse cose. Già vivere a Flushing ti spiazza. Esci dalla metro e ti sembra di essere a Hong Kong: negozi, banche, supermercati, giornali, pescivendoli, chiese e sinagoghe, tutto è cinese. Gli ultimi quarant’anni hanno completamente cambiato la faccia del quartiere. Un tempo a maggioranza anglo, Flushing è oggi uno di quei territori sospesi fra due continenti, come Little Italy cent’anni fa, che si creano quando l’emigrazione è omogenea, concentrata in poco tempo e indirizzata verso un’area limitata di una città.

Poi capisco, ma per davvero, come possano esistere punti di vista opposti, e ugualmente legittimi sullo stesso evento. Per esempio i viaggi di Giovanni Paolo II. Io Woityla l’ho sempre patito. Penso che abbia canonizzato un po’ troppi franchisti e che non gli dispiacessero i dittatori sudamericani. Ma la diplomatica timorese mi racconta di quando il Papa al suo arrivo a Timor Est si inginocchiò a baciare la terra. Il paese era allora occupato dall’Indonesia, che dopo l’intervento militare del 1975 se l’era anzi annesso e lo considerava una sua provincia. Ma dato che Giovanni Paolo II arrivava appunto dall’Indonesia e che baciava la terra solo quando atterrava in una nuova nazione, il suo gesto voleva dire riconoscere Timor Est come un paese sovrano. Ci diede speranza mi racconta Mata, che allora andava al liceo e faceva parte del coro che accolse il Papa all’aeroporto.

 

 

Il signore arrivato dal Kerala non deve passarsela male. Ha viaggiato in Europa per turismo e conosce abbastanza bene l’Italia. Ha fatto i soliti giri: Roma, Firenze e Venezia. Mi dice che gli siamo simpatici e che da noi si è sentito a casa. Perché quando prendiamo il caffè in un bar ci fermiamo a fare quattro chiacchiere. Non ce ne andiamo via di corsa come i tedeschi. Cinquant’anni di storia in comune dalla CEE all’Unione Europea, il mercato unico, il Parlamento Europeo, il Manifesto di Ventotene, quella litania lì di cui ci riempiamo la bocca ogni volta che salta fuori un problema un po’ serio, bisogna-che-intervenga-l’Europa, non contano niente agli occhi di un osservatore attento. La linea della conversazione (per Sciascia sarebbe quella della palma) è più forte dell’euro, ci separa dalla Germania e ci unisce all’India e al sud del mondo.

 

Non me n’ero mai reso conto, ma esiste anche la globalizzazione dei poveri. È leggibile, come accade a quella dei ricchi, con la metafora della rete. A patto però che i nodi di questa uno non se li immagini tutti uguali ma distinti per grandezza e importanza: contano quelli da dove si possono intercettare i flussi di informazione. Vitale è conoscere ed essere conosciuti. Ruth è di casa nell’Asia sud-orientale, regione in cui la sua pensione è evidentemente rinomata come un possibile punto di riferimento a New York. E lo stesso rapporto funziona a Flushing, dove lei è figura nota e di cui lei padroneggia, in tutta evidenza, la mappa dell’offerta e della domanda abitativa sul breve periodo. Nel gran mare della globalizzazione il nodo sui cui è posizionata Ruth è modesto, questo è ovvio. Tuttavia è attraversato da flussi informativi importanti quanto basta a garantire un discreto profitto a chi li controlla. Fin qui nulla di nuovo. L’emigrazione funziona da sempre grazie a reti di sopravvivenza e sfruttamento stese sia sulle aree di partenza sia su quelle di arrivo: la mafia italo-americana è stata, nella sua criminalità, una versione particolarmente efficiente di questo fenomeno. 

 

 

Nell’età del software, qui sta la novità, le reti dei poveri rappresentano le fondamenta di un sistema di comunicazione al cui vertice si collocano le compagnie della sharing economy, sul tipo di Airbnb o Uber. In queste, più ancora che nei colossi alla Google o Amazon, si incarna l’idea chiave del nostro tempo: il software come strumento che consente di estrarre capitale da tutto quanto esiste. La gente si è sempre arrangiata, ma oggi è possibile coordinare l’affaticarsi di miliardi di formiche operose e far sì che i loro guadagni, miserabili se presi uno ad uno, non si disperdano in tanti rivoli improduttivi, ma fin da subito si ammassino a formare capitale. Il guadagno dell’affittacamere di un tempo, che prima di entrare nel circuito della finanza doveva percorrere il periglioso cammino del risparmio personale fino all’investimento in buoni del tesoro, oggi è sin dalla nascita inserito in una struttura che lo mette immediatamente in circolazione trasformandolo in parcella dei flussi finanziari mondiali. 

Tutto ciò avviene in un regime di doppiezza, quella stessa che Marx scopre nella merce, entità che sotto il velo del rapporto fra le cose nasconde la realtà delle relazioni fra le persone. Estrarre capitale dovunque non vuol dire altro che trasformare tutto in merce, la cui doppia natura travasa così nel mondo. Allora Airbnb non è una compagnia d’affari, il cui scopo è il profitto, ma una comunità di ospitanti e di ospiti. E una come Ruth, cos’è? una piccolissima imprenditrice o una dipendente di Airbnb? Lei di sicuro si vede nella prima posizione e ci tiene ad apparire così. Ma se si pensa alla direzione del flusso delle conoscenze, a dov’è che si raccolgono le informazioni, al luogo, cioè, in cui è sistemato il potere, allora Ruth lavora per Airbnb ventiquattr’ore su ventiquattro. E soprattutto lei è Airbnb: la sua pensione è un ghetto infame, ma lei lo gestisce come una comunità dove si mangia allo stesso tavolo e si conversa amabilmente sui casi del mondo.

 

 

Negli anni sessanta gli operaisti di Quaderni Rossi si lanciarono anima e corpo nell’inchiesta sulla Fiat: capire cosa succedeva nei reparti di Mirafiori era il passo indispensabile per poter anche solo immaginare un’alternativa al capitale fordista. Oggi bisognerebbe ripetere la stessa operazione, dal basso e con l’identica passione, per le compagnie dove si organizza il capitale dell’età del software. Ma ci troviamo in una situazione incredibilmente più sfavorevole che cinquant’anni fa. La ragion d’essere di quelle compagnie è la raccolta di informazioni. Per l’appunto è dall’informazione che traggono profitto. Tuttavia, dato che il flusso delle conoscenze risale inesorabile dalla base al vertice, le compagnie del software sanno ogni cosa dei propri utenti, cioè tutti noi, mentre questi non sanno niente di loro. Se ricercatori armati di carta e penna riuscirono cinquant’anni fa a smontare cognitivamente la catena di montaggio, gli strumenti per decrittare le aziende/comunità del nostro tempo, Google, Airbnb, Amazon, Uber e simili, mi pare siano invece ancora da inventare. Dico così perché sono nato e cresciuto nell’età della carta e sono conscio della mia ignoranza se chiamato a esprimermi su fenomeni propri dell’era digitale. Gli unici che forse possiedono gli attrezzi adatti alla bisogna sembrano essere gli hackers, a patto che ricalibrino i loro obiettivi. Non è di altri scandali politici e/o finanziari che abbiamo bisogno, ma di ricostruire la filiera che trasforma i dati estratti dalle nostre vite in capitale.

 

Alla fine dei nove giorni di Flushing entro nell’appartamento che ho affittato a Sunnyside. Gioia della solitudine. Giro per il bagno, la cucina, la camera e il salotto. Ed è lì che scopro come il divano sia apribile e si possa trasformare in un letto a due piazze. In un angolo c’è anche un tramezzo di vimini, persino elegante. Potrei usarlo per separare questo vano dal resto della casa e affittarlo ad almeno mille dollari al mese, penso per un attimo.

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