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San Lorenzo / Faber navalis

21 Dicembre 2020

La forza delle immagini, più spesso di quanto si direbbe, dipende meno dalla qualità artistica che dalla scelta del soggetto. A paragone delle opere di grandi maestri della stessa epoca, il livello delle incisioni che compongono la raccolta di Giacomo Franco (Habiti d'huomeni et donne venetiane ..., Venezia 1614) è decisamente modesto. Ma l’argomento scelto per una di esse ha ben pochi confronti, e non solo nel panorama del tardo Rinascimento. 

 

 

L’incisione contiene una sorta di lunga didascalia: “Questa è la porta del maraviglioso Arsenale, nel quale del continuo si fanno galere, ed altri vasselli da guerra, e questa gente che si vede è la maestranza, la quale entra la mattina ed esce fuori la sera, con bellissimo ordine”. 

In altre parole, è l’uscita degli operai alla fine di una giornata di lavoro. Il luogo di cui si parla è da secoli uno dei più importanti cantieri navali d’Europa, rinomato al punto che anche Dante ne aveva parlato nell’Inferno (21, 7-15):

 

Quale ne l’arzanà de’ Viniziani 

bolle l’inverno la tenace pece

a rimpalmare i legni lor non sani, 

ché navicar non ponno – in quella vece 

chi fa suo legno novo e chi ristoppa 

le coste a quel che più vïaggi fece; 

chi ribatte da proda e chi da poppa; 

altri fa remi e altri volge sarte;

chi terzeruolo e artimon rintoppa.

 

L’Arsenale viene descritto da Dante attraverso un minuzioso (e informato) elenco dei lavori che si potevano svolgere durante l’inverno: rivestire di pece gli scafi, specie quelli vecchi, ripararli turandone le falle e rinsaldando le fiancate, realizzare nuovi remi, sistemare i cordami, rattoppare la vela maggiore (artimone) e quella minore (terzeruolo).

 

Nell’incisione di Giacomo Franco – qui sta la singolarità della scena – gli operai hanno finalmente concluso la loro giornata ed escono dall’ingresso principale ciascuno verso le proprie case; le occupazioni che hanno appena abbandonato si intuiscono dagli strumenti che portano con sè: uno stringe una sega, altri due operai camminano con l’ascia appoggiata sulla spalla. Ma c’è anche chi si allontana con pezzi di legno sotto braccio o sulla testa (sono i resti delle lavorazioni altrimenti inutilizzabili?); un altro con la mano sull’elsa di uno spadino forse è lì per mantenere l’ordine. 

Sulla sinistra un’altra scritta: “Qui si paga la maestranza”. Per questo un operaio si è avvicinato a una grata dietro alla quale si intravvede l’addetto ai salari; un altro infatti viene verso di noi col denaro in una borsetta.

Come nella scena descritta da Giacomo Franco, e per secoli, l’immagine dei maestri di legname è accompagnata dall’ascia. Gli strumenti del lavoro hanno una sorprendente durata nel tempo, che deriva dall’efficienza della loro forma, ma anche dalla persistenza delle pratiche esecutive. Ed è la lingua stessa che certifica questa continuità: si chiamava ascia anche quella usata dagli artigiani del legno in età romana.

 

 

Eccone una su un monumento funerario della prima metà del I secolo d. C. a Ravenna. È una grande stele in pietra con quattro ritratti a mezzo busto: sopra, quello di Publio Longidieno, che l’iscrizione latina identifica come faber navalis; accanto a lui una liberta (con ogni probabilità la moglie), e sotto altri due suoi ex-schiavi. 

In basso, invece, una scena di lavoro: se nel ritratto in alto Longidieno indossa la toga, l’abito per eccellenza del cittadino romano, qui invece si è messo una tunica molto più pratica. La nave è ancora nel cantiere, come si deduce dal sistema di pali che la sostengono; il faber navalis è salito in alto e sta lavorando proprio alla fiancata, sagomando con l’ascia una delle tavole dello scafo; sotto i suoi piedi (ma lo scultore voleva intendere lì accanto) c’è una specie di cassetta, con quella che sembra proprio una serratura (contiene i suoi attrezzi?). 

 

Il bassorilievo fu voluto in questa forma da Longidieno stesso: nell’iscrizione si dice esplicitamente che il monumento funerario fu eseguito quando egli era ancora vivo, prassi normale nel mondo antico (e testimoniata dal passo del Satyricon di Petronio, in cui Trimalcione dà prova dei suoi gusti da parvenu elencando i soggetti che vuole scolpiti sul proprio sepolcro). Il faber navalis di Ravenna non aveva troppa fiducia nella capacità comunicativa delle immagini: fece infatti aggiungere alla scena una vera e propria didascalia (“Publius Longidienus (...) ad onus properat”), che potremmo tradurre così: “Publio Longidieno si affretta a svolgere i suoi impegni”.

Longidieno era un civile, ma si può escludere che questa fosse una nave da guerra? Pochi chilometri a sud del centro urbano di Ravenna, c’è una località che anche oggi si chiama Classe: qui si trovava in età romana una delle sedi della flotta imperiale (classis). E dove c’è una flotta, ci devono essere cantieri navali. 

 

 

L’impostazione della scena non lascia dubbi sul fatto che il ruolo di Longidieno fosse esecutivo. In modo inaspettato, è il passo di una commedia di Plauto (Miles gloriosus, 915-921) a spiegarci meglio quale fosse il funzionamento delle mansioni e delle gerarchie all’interno di un cantiere navale antico: “Se l'architetto è bravo, una volta che abbia tracciato un bel progetto della chiglia, costruire la nave è cosa facile, ammesso che la struttura sia stata impostata a dovere. Ora, nel nostro caso, la chiglia è ben costruita, e l'architetto ha a disposizione maestri carpentieri (fabri) esperti. Se il nostro fornitore non ritarda a rifornirci del legname necessario – conosco bene la nostra abilità – presto la nave sarà finita”. 

Un ragionamento tecnico inatteso in un testo comico (oltretutto a parlare è la puttana Acroteleuzio), tanto che Pasolini nella sua versione romanesca della commedia (Il vantone, 1963) lo sfronda e lo riduce al minimo: “È meglio, eh ingegné? / Più ce stai sopra, su un progetto, e più riesce / – se è buono il materiale...”. Sta di fatto che, stando a Plauto, la struttura delle navi veniva progettata da un architectus e poi realizzata dai fabri navales.

 

 

Alcuni secoli dopo, vediamo altri carpentieri navali in un oggetto dei Musei Vaticani, un prodotto di lusso eseguito con una tecnica diffusa nel mondo romano tra III e IV secolo d. C., il vetro dorato. Un personaggio che l’iscrizione identifica come Dedalius è in piedi al centro del vetro, circondato da sei operai impegnati in differenti occupazioni. Anche questo è un cantiere navale, come si deduce dal profilo di imbarcazione in basso a sinistra, e tutti stanno sagomando assi di legno con pialle, trapani ad arco, scalpelli e martelli, seghe e asce. Dedalius, nome che riecheggia quello del mitico artista Dedalo, ha un ruolo di comando e molto probabilmente è un militare: lo suggeriscono gli abiti, la spada che pende dal fianco sinistro, lo stesso bastone (vitis) nella destra.

 

 

Per millenni il legno è stata la materia insostituibile delle navi, e lo sarà ancora fino a tutto il Settecento. Quando i redattori dell'Encyclopédie di Diderot e D'Alembert affrontano il tema della marineria, scelgono di inserire la tavola con la veduta di un cantiere navale (Planches, VII, 1765). 

 

Al centro un vasto bacino ospita la complessa struttura lignea che dovrà sostenere il vascello; due paratoie impediscono per ora che entrino le acque del mare. Questa volta sono decine gli operai che, attorno al bacino, trascinano e sistemano grandi assi e travi, proporzionate ai grandi vascelli che stanno innalzando. Sulla destra, un gruppetto in abiti ben più eleganti rispetto a quelli dei manovali sta esaminando un grande disegno con il profilo del vascello da costruire. Qua e là alcuni danno ordini agitando un bastone. E dappertutto, chinati o inginocchiati, i manovali si danno da fare con le asce. 

Gli alberi si trasformano in una nave. Quando Goethe – da poco arrivato a Venezia – va a visitare l’Arsenale (5 ottobre 1786) si ferma a osservare gli operai “nei vari lavori” e a guardare come trasformavano “il bellissimo legno di quercia”, occasione per riflettere “sullo sviluppo di quest’albero veramente prezioso”. Passano pochi anni e lo scrittore tedesco pubblicherà il suo Saggio sulla metamorfosi delle piante (1790). 

 

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