Villes balnéaires du XVIIIe siècle à nos jours / Tutti al mare

12 Febbraio 2017

Uno dice “vado al mare”, e immagina spazi aperti e aria pura, ben distanti dal caos cittadino e dallo smog delle fabbriche, dal cemento e dall’asfalto, dai rumori e dai miasmi metropolitani, dallo stress di una quotidianità pervicacemente imbruttita dal continuo correre. Ci si immagina una vita alla Celentano, se pure ricca di sabbia e di iodio, sotto il segno tanto agognato quanto misterioso di una natura madre e matrona. Le scuse non mancano: si va al mare innanzitutto per ragioni salutari, poi per sgranchire il corpo e mettere la mente a riposo, per staccare dal tran tran, rituffarsi nelle silenziosità nutritive del liquido più amniotico che ci resti. Il tipo da spiaggia mostra le chiappe chiare, si sa, ma anche un’atavica voglia di benefica wilderness. Tanto fittizia quanto irresistibile. 

 

 

L’invenzione del mare come attrazione turistica viene da qui, come azione parallela all’espandersi della (si fa per dire) civiltà industriale, ricerca di una purezza quasi atavica, desiderio di ritrovare se stessi, la propria supposta autenticità: nessuna artificiosità, nessuna sovrastruttura, niente cupidigia, niente secondi fini, niente di niente. 

 

Ma è bastato poco perché questo programma insieme salutista ed esistenziale, tanto imperativo quanto ingenuo, rivelasse il rovescio della medaglia. Da una parte, la natura scappa da tutte le parti, ricompresa dietro l’abile e avida mano umana, che, strutturandola, le fornisce un senso e un valore.

 

 

L’ambiente marino supposto selvaggio, il paesaggio nudo e crudo, gli elementi naturali esigono quel minimo di supporto tecnico che possa farli godere al meglio: non foss’altro che una strada ferrata atta a unire città e mare, smog e aria pura, cultura a natura; o, ancor più, una carrozza a cavalli dove privarsi degli abiti civili, indossare il costumone a strisce (tutt’altro che adamitico) ed entrare in acqua al riparo da sguardi indiscreti. Susanna senza vecchioni. D’altra parte, ecco tutto un programma di costruzioni e di investimenti, di progettazioni e di speculazioni. L’ambiente marino diviene un luogo formidabile per l’invenzione architettonica, la sperimentazione urbanistica, la (ri)costruzione funzionalista del paesaggio. Come mostra la straordinaria esposizione parigina “Tous à la plage.

 

 

Villes balnéaires du XVIIIe siècle à nos jours”, in corso alla Cité de l’architecture & du patrimoine (Trocadéro) sino a domani, è tutto un fiorire di stazioni balneari dalle forme più varie e imprevedibili, ma con un preciso modello costruttivo dove tornano alcuni elementi identificativi: lo stabilimento balneare, il Casinò e il Grand Hotel, innanzitutto, ma poi anche il pier, l’ippodromo, il campo da tennis, quello da golf, la promenade, lo chalet, il parco, sino a che, via via che il raffinato turismo d’élite si trasforma in assalto indifferenziato alle spiagge, dalla marina cittadina si passa al design per una villeggiatura di massa. Ed ecco spuntare schiere di cabine, tende e tendoni, ombrelloni a raffica, siede sdraio, radioline portatili e mangiadischi, lenti scure, creme abbronzanti, costumi da bagno più o meno osé, ombrellini parasole, materassini gonfiabili, canotti e pedalò, pinne fucile ed occhiali, ventilatori, jukebox , gelati confezionati, accessori da campeggio, arredamento essenziale per bungalow sedicenti esotici o per roulotte immancabilmente roventi. 

 

Questo perché, una volta inventato il tempo libero (che, appunto, da prerogativa per pochi ricchi diventa diritto imprescindibile per lavoratori d’ogni ordine e grado), si deve a tutti i costi evitare l’horror vacui. Cosa fare, dopotutto, al mare? Dilemma tipico per famiglie e single. Una volta fatto il bagno e le sabbiature, nuotato e preso il sole, come riempire la giornata? Le idee non sembrano mancare: ed ecco gli sport acquatici e le sfilate in bikini, le gare sulla spiaggia e l’inevitabile struscio (la drague, dicono acutamente i francesi), la roulette per chi può permetterselo oppure il cinema all’aperto, le mostre di pittori della domenica, sino ai giochi d’acqua più o meno terrificanti nell’ossimorica piscina a bordo del mare. 

 

 

La Balbec proustiana (la normanna Cabourg) diviene presto un ricordo piagnucoloso, cedendo il passo alle masse sudaticce di corpi mal arrostiti, palestrati e cosparsi di sabbia, dove gente come il Gasmann del Sorpasso, per non dire il Jerry Calà di Sapore di mare, sguazza con relativa convinzione. In mostra alcuni frammenti di film di cassetta mostrano un geniale Louis de Funès che a Deauville fa goffamente la corte a una signora discinta con barboncino al seguito, o che a Saint-Tropez, da gendarme grondante pruderie, dà la caccia a serissimi nudisti che non intendono dare bella mostra di sé.

 

 

Dal cucchiaio alla città, e viceversa, l’invenzione della villeggiatura lungo tutto il corso del Novecento – dall’Inghilterra alla Germania, dalla Francia atlantica a, progressivamente, tutto il Mediterraneo – si rivela essere un eccezionale spazio creativo per architetti d’ogni genere, che seguono, e in parte anticipano, gli usi e le abitudini, i desideri e i valori, le esigenze e i loisir della gente comune, come anche le scelte commerciali, gli investimenti finanziari, le speculazioni edilizie di chi ritrova in tutto ciò, manco a dirlo, un tornaconto personale da capogiro. Così, se i primi luoghi balneari nascono nelle periferie dei centri portuali già esistenti, ecco fiorire a poco a poco intere città espressamente dedicate al modello del turismo marino, e con loro i litorali interamente cementificati, i villaggi vacanze, i camping e i megahotel dalle forme ad alveare, gli ecomostri, i resort esclusivi, le città lacustri, le isole flottanti, gli arcipelaghi artificiali come la celebre palma di Jumeirah a Dubai. 

 

 

Sino a che, viene suggerito nelle ultime sale, rovesciando del tutto i propri scopi iniziali la città balneare – con le esigenze ecologiche e di sostenibilità, di rispetto del territorio e di riconfigurazione del paesaggio che sembrano oggi caratterizzarla – finisce per diventare il modello della città di domani. Chissà. A inizio mostra c’è tutt’altro: vediamo in video un gruppo di serissimi architetti intenti a costruire, con encomiabile puntigliosità, intere città fatte di castelli di sabbia. Destinate, c’è da immaginarlo, a essere inghiottite dall’acqua delle imminenti maree. L’impegno profuso sembra tanto più intenso quanto più emerge il retropensiero della fine ineluttabile. Un monito per il progetto futuro?

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