La scoperta dell'esistenza / Breve ritratto di un maestro: Franco Fergnani

10 Novembre 2019

Franco Fergnani, professore per trent’anni di Filosofia morale presso la facoltà di Filosofia dell’Università Statale di Milano, entrava in aula sempre un po’ stropicciato. Spesso, a prescindere dalle stagioni, avvolto nel suo vecchio immancabile impermeabile beige. Talvolta portava sul collo i segni lasciati dal rasoio di una barba fatta troppo in fretta nella solitudine della sua casa. Raramente l’ho visto in giacca. Per lo più indossava maglioni a v con camicia, spesso a scacchi e cravatta annodata stretta. La sua camminata appariva sempre come sospesa nel vuoto, in equilibrio precario su di una corda. Rasente alle mura la sua sagoma appariva nei chiostri della Statale come una figura solitaria e eccentrica. Entrava in aula come catapultato. Posava la sua borsa strapiena di libri sulla cattedra prima di sedersi. L’aula era sempre strapiena di studenti che lo attendevano. Si faticava a trovare posto.

 

Dopo aver estratto confusamente i libri che gli sarebbero serviti nel corso della lezione e aver sistemato i suoi appunti prendeva non senza una incertezza iniziale la parola. Rapidamente calava un silenzio assoluto. Il tono della voce era caldo e intenso. Via via la sua parola si rinvigoriva e appariva affilata come una lama mentre il ritmo del suo ragionamento diveniva incalzante. Franco Fergnani sapeva unire in modo singolare la chiarezza cartesiana dell’esposizione con un pathos tragico-esistenziale che sembrava incarnare ciò di cui parlava: Kikerkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Jaspers, Levinas, Merleau-Ponty, ma, soprattutto, l’Heidegger di Essere e tempo e Sartre. Talvolta sembrava che quella sua straordinaria chiarezza gli servisse innanzitutto per non essere aspirato dal vortice della passione e dalla evidente inquietudine che lo animava. La sua erre arrotata imprimeva alla parola un accento inconfondibile. L’andamento della lezione era sempre, metodicamente, spiraliforme: prima scolpiva un concetto davanti a noi evidenziandone la sagoma grossolana.

 

Poi entrava sempre più nel dettaglio con estro da cesellatore. L’avanzamento del suo pensiero non era mai linearmente progressivo: riprendeva e ritornava ogni volta su ciò che aveva spiegato con una pazienza e una attenzione che solo i grandi professori hanno. Era la maestria unica, inconfondibile, della sua profonda dedizione alla didattica. Presentava un concetto per poi riprenderlo secondo prospettive divergenti e molteplici, con una ricchezza sorprendente di aggettivi sempre suggestivi nel mentre il suo discorso si andava articolando verso altri concetti. Ne variava così le definizioni disegnandone con rigore i contorni in modo tale da renderlo sempre più prossimo, vicino, visibile a chi lo ascoltava come se lo ponesse lì, in mezzo a noi, come un “oggetto” posato sopra la cattedra al fine di mostrarcelo in tutte le sue sfaccettature. A quel punto il concetto era divenuto una specie di limone che la forza paziente del suo pensiero e della sua parola sapevano spremere con movimenti precisi e ripetuti, lentamente rotatori, sino ad estrarne tutto il succo. Infine lo contaminava con altri concetti restituendogli una ampiezza che disegnava sempre un orizzonte più vasto.

 

 

La luce della sua parola e del suo ragionamento non si separava mai dall’evocazione di un fondo che si sottraeva ad ogni esercizio di padronanza. La sua parola portava la luce ma, insieme alla luce, indicava l’orizzonte dove la luce non avrebbe mai potuto arrivare; una zona d’ombra, densa, impossibile, alla quale il carattere altamente didattico delle sue lezioni rinviava sempre. “Ecco cos’è un maestro”, spesso mi ritrovavo a pensare al termine delle sue lezioni. Un vero maestro non mostra infatti di possedere tutto il sapere, ma agisce ogni volta, in ogni lezione, mostrando l’impossibilità di possedere tutto il sapere. Di qui l’atteggiamento umile che lo contrassegnava. Lo scolpire, lo spremere, l’illuminare erano atti costantemente pervasi dal rinvio ad un altrove più enigmatico che lo impegnava in prima persona e, di conseguenza, impegnava ciascuno dei suoi allievi. Restavamo così incantati e turbati ogni volta. Alla fine di ogni lezione ne avremmo voluto ancora di quel succo. Si restava a parlare tra noi di quello che avevamo ascoltato. Ecco cos’è un maestro: la sua parola non riempie ma mette in moto, accende il desiderio di sapere, provoca domande.  

 

I suoi occhi scuri, piccoli rispetto al tondo del volto caratterizzato dalla presenza di un naso ingombrante, erano vivissimi e profondi. Quando si parlava con lui si aveva sempre la sensazione che facesse fatica a guardare direttamente negli occhi il suo interlocutore. A volte però accadeva all’improvviso che puntasse il suo sguardo dritto nel tuo. Mi è capitato; allora si poteva avere la sensazione di un contatto profondo, unico, di una vicinanza intensa e strana. Perché Franco Fergnani era un uomo in fuga, braccato, era davvero – come definisce la realtà umana una citazione a lui carissima, ripresa da Heidegger e Sartre –, un “essere delle lontananze (Wesen der Ferne)”. Più volte mi capitò, nei tre anni nei quali lavorai con lui, spesso dopo una lunga sessione di esami, di camminare attorno all’Università o nei suoi chiostri parlando di Sartre sul quale io stesso feci la mia tesi di laurea in Filosofia. Erano conversazioni mai formali, vive, accalorate. Fergnani vi si impegnava come fossi un suo vero interlocutore, senza mai assumere toni paternalistici o dogmatici, senza mai giudicare. Si era poi incuriosito della mia passione per Lacan. Inizialmente aveva provato a scoraggiarmi dicendomi: “fai attenzione, c’è troppo teatro.” Poi, quasi subito dopo, come gli capitava frequentemente, ritornava umilmente sui suoi passi: “no, scherzavo, se vuoi tenere un seminario su di lui fallo pure.” E così feci per tre anni grazie alla sua generosa ospitalità. Un insegnamento sull’opera di Jacques Lacan entrò per la prima volta all’Università Statale di Milano accolto dalla sua cattedra. Una stranezza se si considera che i suoi rapporti con la psicoanalisi non erano affatto privi di critica. Ebbi in quei tre anni l’onore e l’emozione di parlare nell’aula dove lui insegnava. 

 

Questo testo è tratto dalla “Prefazione” a F. Fergnani, Jean-Paul Sartre, la scoperta dell'esistenza, Feltrinelli 2019, ultimo numero della collana Eredi diretta da Massimo Recalcati.

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