Scoprire cosa c’è sotto / Scavare buche

5 Ottobre 2017

Avete mai provato a scavare una buca? La risposta ovviamente è: Certo! Chi non l’ha fatto, almeno da bambino? Mettere le mani nella sabbia e scavare un buco, per poi accumulare l’arena ed erigere una montagna, una piramide, un castello, lì accanto. L’umanità stessa nella sua infanzia ha scavato. Scavare appartiene ai gesti fondamentali dell’uomo. Quando tra i 12.800 e 12.500 anni fa i nostri progenitori scelsero di diventare sedentari, cioè agricoltori, cominciarono a scavare buche nella mezzaluna fertile. 

   

La domesticazione delle piante ha come gesto necessario lo scavare buche. Per piantare, per dissodare, per togliere dal terreno i risultati del duro lavoro agricolo. Tra i primi ci furono alcuni tipi di frumento, l’orzo, la segale, tutte specie annuali in via di diffusione in quella zona di transizione. Il primo frumento coltivato con successo, scrive Stefano Bocchi in Zolle (Cortina), fu il piccolo farro: Triticum beeoticum. Dell’importanza dello scavare buche restano tracce evidenti nelle danze africane dove i gesti di piantare, scavare, sollevare sono conservati in modo esplicito. Ma c’è anche lo scavare per inumare, per seppellire, fondamentale aspetto nelle attività sociali, di cui resta memoria nello scavare per nascondere dei bambini: interrare un oggetto, un pupazzo o una bambola, un gioco. Per nascondere, per non farlo trovare, e poi per ritrovarlo. I bambini sono dei seppellitori, oltre che degli scavatori. 

   

Nell’Amleto Shakespeare fa dire a un personaggio, un becchino: “I seppellitori sono i gentiluomini più antichi, continuano la professione di Adamo”. Lo ricorda William Bryant Logan nel suo libro La pelle del pianeta (Bollati Boringhieri), che rammenta che quello che fa Adamo, scacciato dal Paradiso terrestre, è proprio mettersi a scavare per dissodare la terra: diventa agricoltore, ma anche seppellisce i morti nella medesima terra. 

  

Fondamentale nello scavare buche l’uso della mano. Bryant Logan ricorda che il gesto che compie chi scava a mano, ad esempio il bambino, assegna alle singole dita un ruolo specifico. Il mignolo è il più debole delle dita, e perciò deve essere protetto; l’anulare, che è il dito dell’anello da adulti, segue il medio, il quale si erge da solo, e spesso simboleggia il fallo in diverse culture; l’indice è quello che di solito segnala, volta le pagine, quello che Gesù alza per indicare: come dito segue il medio e fa forza; il pollice è invece il più forte, secondo la legge salica francese vale come la metà della mano; del resto, è il pollice opponibile che ci ha fatto uomini. Tuttavia nello scavare il pollice fa forza, ma meno delle altre quattro dita insieme. 

  

Nella sua lode della mano in Massa e potere (Adelphi), Elias Canetti parla della pazienza delle nostre estremità superiori. Com’è diventata paziente la mano? Lo scrittore sostiene che è l’effetto dell’accarezzare i peli, del passare le mani nella peluria da parte delle scimmie antropomorfe che ci hanno preceduto nella catena evolutiva. Sarebbe stato l’atto dello spulciare a dare forma alla mano nel corso di milioni di anni, gesto che permane ancora oggi nella carezza, anche se spulciare, in verità, è ben più complesso che scavare una buca. Naturalmente la mano è diventata quella che è perché i nostri progenitori sono scesi dagli alberi, e hanno smesso di usarla per appendersi ai rami. 

   

Scavare buche ha però a che fare con un’altra questione, come ha osservato uno psicoanalista inglese, Darian Leader, in Mani. Come le usiamo e perché (Ponte alle Grazie): la necessità di fare sempre qualcosa con le mani. Leader parla di attività come arrotolare pezzi di carta, manipolare oggetti (il cellulare, per esempio), mettere le mani in tasca, o altro ancora. Scavare fa parte di questi insopprimibili movimenti che le mani compiono. Perché? Per via di un di più di energia, un eccesso, che c’è nel nostro corpo, e che deve trovare il modo in cui “sfogarsi”. “Perché non scaviamo una buca?”, mi sono sentito chiedere da ragazzo. Lo facevamo con le mani: scavare per poi riempire con l’acqua, o con altre cose. Scavare per andare a fondo nella terra; scavare per piantare dei semi o delle piante, e aspettare che crescano. 

  


 

I ragazzi, i maschi in particolare, sono attirati dalle macchine scavatrici: le mitiche Caterpillar. Dai buchi sono attratti anche gli anziani, i pensionati in particolare, che affollano i luoghi dove si scava: un cantiere, una linea che posa cavi, un guasto alla rete del gas o dell’acquedotto. Stanno lì a guardare i buchi e sono chiamati: umarelles, un modo bolognese per dire: “anziani”. Si sa che da vecchi si fanno alcune cose che si facevano da bambini, in una sorta di cerchio che si chiude, anche se gli umarelles guardano i buchi e non scavano. 

   

Diversi sono gli strumenti per scavare che usano i bambini: barattoli, bastoncini, cucchiai, tazze, che suffragano la mano e fanno più forza, come spiega Bryant Logan che ha scritto un interessante saggio, “L’arte di scavare buche” nel suo libro sulla pelle del Pianeta. C’è poi la vanga, la zappa, l’escavatrice, la pala meccanica, la livellatrice, come si è detto. Ci sono mezzi meccanici che scavano buchi profondi, estirpano alberi, creano anfratti nel terreno. Il più interessante di tutti è l’aratro. L’erpice, uno dei primi strumenti umani per arare i campi, molto antico, “riprende il gesto della mano che trascina le dita in mezzo alla terra” (Bryant Logan). Smuove la terra e spezza le zolle. In tempi arcaici non era una lama, bensì una fila di bastoncini appuntiti trascinati da un bue. Nel corso di 4.000 anni l’aratro si è evoluto, per quanto, alla fin fine, non sia cambiato molto; ha sempre cercato di imitare l’incurvatura della mano umana e “la sua ingegnosa capacità di sollevare e appiattire allo stesso tempo”. 

  

Bryant Logan cita il più bell’aratro creato da un inventore newyorkese, Jethro Wood (1774-1834), ossessionato dall’idea di progettare l’incurvatura più adatta a dissodare la terra con il minimo sforzo. Wood ne scriveva anche al presidente americano Thomas Jefferson, anche lui dedito alla medesima ricerca. Nella sua lettera all’Ufficio Brevetti nel 1819 Wood prova a descrivere l’erpice ma non ci riesce. Le parole non bastano. Alla fine però lo realizza.   

   

Un tempo le buche erano sacre. Ci sono popolazioni, come gli indiani Hopi, che ritengono di essere nati da una buca scavata nel terreno, uscendo dal formicaio dove erano ospiti delle formiche. Anche i Pueblo e gli Anazi scendevano nelle Kivas, sorta di camere del fango per le loro cerimonie e riti di iniziazione. Le caverne sono delle buche, solo molto più grandi. Ci sono molti  simboli legati alla buca e certamente questa è collegata all’utero femminile, alla cavità da cui tutti noi proveniamo. L’agricoltura, lo ricorda Bryant Logan, è piena di significati simbolici che rinviano alla sessualità e quindi alla generazione, a partire dagli strumenti atti a scavare buche o a riempirle, che hanno significati fallici in molti popoli dell’Africa.  

  

Bryant Logan racconta una cosa molto interessante di sé. Verso i sei o sette anni era convinto che si potesse raggiungere la Cina scavando un buco. Così si era messo a realizzarlo con un amico. Un’impresa presto abbandonata: i giochi durano poco, specie se faticosi. Gliel’aveva suggerita la raccolta delle patate effettuata con il padre (molto belle le pagine nel libro di Bocchi, agronomo ed esperto di erbacee, dedicate proprio alla patata: “La produzione nascosta”). Perché voleva scavare? Perché questa gli era sembrata la via più breve e rapida per raggiungere la Cina: dall’altra parte del globo. Un bambino che vuole andare da qualche parte ha solo tra possibilità, dice Bryant Logan: camminare, pedalare o scavare. 

  Non sapeva che così facendo evocava un antico mito dell’umanità, quello degli antipodi: i popoli che vivono a testa in giù e gambe in su in un altro continente simmetrico al nostro, ma posto dall’altra parte del globo. Gabriella Moretti l’ha raccontato, questo mito in un bel libro, Gli antipodi (Pratiche Editrice); leggende che ritroviamo nella cultura latina e anche in quella medievale (Artù e Morgana), come nell’Alice di Carroll, la cui protagonista scivola nel buco o pozzo che sia e capita in un altro mondo. C’è ancora una reminescenza di questo luogo opposto nei disegni che Saint Exupery ha tracciato per il suo Piccolo Principe

   

Italo Calvino, poi, aveva pensato di creare un personaggio simmetrico al suo Palomar, e di chiamarlo Mohole. Il primo, come si sa, è dedito all’osservazione, e prende nome dal celebre telescopio situato sul Monte Palomar; l’altro invece è ispirato a un importante buco scavato negli anni Sessanta dagli scienziati per raggiungere il mantello, lo strato spesso 3.200 chilometri, posto tra la sottile crosta (5-50 chilometri di spessore) e il nucleo fuso e incandescente del nostro pianeta, quello che volevano raggiungere i protagonisti del Viaggio al centro della Terra di Verne. La spedizione degli anni Sessanta del XX secolo si proponeva di chiarire com’era fatta la misteriosa discontinuità di Mohorovicic, detta anche Moho, lo strato che si trova alla base della crosta. Il tutto per capire meglio la storia della Terra, la sua origine, e anche i terremoti che si scatenano, la dinamica della tettonica a placche, e altro ancora. Nel 2011 la ricerca è ricominciata provando a trapanare, o meglio a forare, la terra. 

  

Calvino voleva raffigurare con Mohole la parte oscura dell’essere umano. In un’intervista del 1983, dopo l’uscita del libro Palomar (Mondadori), aveva detto che Palomar era l’alto, il fuori, mentre Mohole rappresentava il basso, l’oscuro, gli abissi interiori: “Mi proponevo di scrivere dei dialoghi basati sul contrasto tra i due personaggi, uno che vede i fatti minimi della vita quotidiana in una prospettiva cosmica, l’altro che si preoccupa solo di scoprire cosa c’è sotto e dice solo verità sgradevoli… Solo alla fine ho capito che di Mohole non c’era alcun bisogno perché Palomar era anche Mohole: la parte di sé oscura e disincantata che questo personaggio generalmente ben disposto si portava dentro non aveva alcun bisogno di essere esteriorizzata in un personaggio a sé”. L’attrazione del buco è sempre forte, perché, come evidenzia lo scrittore ligure, il buco è anche l’oscuro, il nascosto.

  

Concludendo, possiamo rubare a Bryant Logan una bella formula: “Le buche sono luoghi archetipici della scoperta”. Secondo lui ci sono almeno tre motivi per cui “il luogo più misterioso della Terra si trova sotto di noi” e non altrove. E dipendono sempre dalle buche. Ci sono buche fatte per interrare: “semi, radici, fogne, fondamenta, tesori, cacche di cane, defunti”. Poi buche atte a estrarre: “acqua, potassa, torba, caolino, patate, zinco, petrolio, tesori nascosti, antichi defunti”. Tutto quello che sbuca dalla terra, prima o poi vi farà ritorno, scrive; e tutto ciò che finisce dentro è destinato a venire estratto. La terza questione riguarda la difficoltà di scavare buche: le buche sarebbero dotate di volontà propria. Chi ha scavato buche lo sa. Si svegliano gli antichi abitanti della terra, forze ctonie; la buca resta sempre misteriosa e insondabile. Chissà se quelli del progetto Mohe lo sanno? Arriveranno mai al mantello? Scopriranno l’origine dei terremoti? Speriamo che non aprano strade per far risalire la lava incandescente al centro della Terra fino a noi. Ci bastano già i vulcani.

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