La mostra alle Scuderie del Quirinale / Nel corpo dell’“Inferno”

21 Dicembre 2021

 

Dopo aver superato i tre controlli all’ingresso (temperatura, green pass e ticket) e aver lasciato gli “ingombri terreni” nel guardaroba, si accede all’Inferno salendo le scale – ovviamente elicoidali, seppure ascendenti. Su, al primo piano dell’Inferno, avvolti dal buio spezzato dalle “disperate strida” degli allarmi fatti scattare dai visitatori vinti dalla seduzione del colore, inizia il percorso ideato da Jean Clair e Laura Bossi per commemorare i settecento anni dalla morte di Dante. Ospitata dalle Scuderie del Quirinale dal 15 ottobre al 9 gennaio 2022, la mostra raccoglie le rappresentazioni dell’Inferno dantesco – da cui il titolo Inferno – succedutesi nei secoli. Lo spettatore, trasformato in un novello abitante degli inferi, percorre passo a passo le dieci sale tematiche fino a «usci[r]», letteralmente, «a riveder le stelle» (Riveder le stelle è appunto il titolo dell’ultima sala che raccoglie, tra le altre, le “stellari” opere di Anselm Kiefer e Gherard Richter), in un crescendo tanto emotivo quanto cronologico che, nella parte finale, lo costringe a un faccia a faccia con il proprio inferno: ovvero con l’ormai umano – troppo umano – inferno contemporaneo che, nel “sistema esegetico” di Jean Clair, viene individuato e rappresentato dalla prigione, dall’alienazione della vita in fabbrica e nelle metropoli, dalla follia e, naturalmente, dagli orrori della guerra.  

 

Niente Purgatorio, niente Paradiso. In questo monumentale omaggio alla Divina Commedia, il Sommo Poeta è Inferno e nient’altro che Inferno. Come scriveva già nel 1561 Pierre Boaistuau in un passaggio delle sue Histories prodigieuses – passaggio non a caso posto in esergo da Georges Bataille al saggio Le deviazioni della natura –: «Fra tutte le cose che possono essere ammirate sotto la volta del cielo, non si vede niente che risvegli di più lo spirito umano […], che provochi nelle creature un’ammirazione o un terrore più grande che i mostri, i prodigi, le abominazioni per cui noi vediamo le opere della natura rovesciate, mutilate e troncate».

Lo spazio immaginifico dell’Inferno è abitato dal mostruoso, dall’anomalo, dall’abietto e da tutte quelle “visioni d’eccesso” che sortiscono quel malessere così «oscuramente legato a una seduzione profonda». Questi capricci della natura di cui, sottolinea il filosofo, è responsabile la natura stessa, costituiscono il secondo termine della dialettica delle forme. Una forma che, soprattutto nel caso dell’Inferno, coincide in modo assoluto con il corpo umano: in questo senso viene intesa da Jean-Luc Nancy nel suo On the soul – testo che fa da corollario a quel Corpus che tanto deve al pensiero batailliano – dove afferma che «se c’è un corpo, esso ha una forma […]. Il corpo è la forma […] in quanto è forma, essenzialmente forma, cioè corpo».

 

L’inferno è fatto di corpi. L’inferno è l’inferno dei corpi. Dilaniati, decomposti, mutilati, messi in massima tensione, trasformati in massa amorfa, ammassati: sono i corpi, sempre e solo i corpi, a lottare per la salvezza dell’anima. La rappresentazione pittorica dell’Inferno, dal medioevo ai nostri giorni, sembra infatti aver incessantemente tentato di rispondere alla deleuziana domanda: Cosa può un corpo?

La stessa topografia dell’Inferno – cui tanto spazio è dedicato nella mostra – viene spesso immaginata come anatomia, come corpo mostruoso e fagocitante. Esiste infatti una relazione tanto biunivoca quanto ontologica tra spazio e corpo poiché il corpo è in quanto spazio. Come scrive Nancy, il corpo è «ciò che si potrebbe anche chiamare un luogo. I corpi sono i luoghi dell’esistenza, e niente esiste senza un luogo, senza un là, un “qui”, un “qui è”», ed è per questo che, secondo l’autore, l’ontologia del corpo è l’ontologia stessa. Motivo in parte ripreso anche da Giorgio Manganelli che Dall’inferno – straordinario testo pervaso da riflessioni logico-illogiche sulle impossibili categorie spazio-temporali che strutturano quel (forse) luogo infernale in cui l’autore si immagina (forse) morto, intrappolato in un kafkiano eterno processo di tribunale – si domanda: «che significa, topograficamente, esser morto?» e, «giacché ignoro in qual luogo io mi trovi […] che significa "mi trovo"? Ho forse una così chiara coscienza del mio consistere, che possa di me dire che io mi trovo "qui"?». E prosegue, in perfetta concordanza con Nancy: «ma se siamo in qualche luogo, dobbiamo pur “essere”», altrimenti, come sarebbe mai possibile poter affermare di “essere” all’inferno? 

 

 

In uno dei saggi contenuti nel monumentale catalogo della mostra (Inferno. pubblicato da Electa), L’inferno. Una topografia del male, Laura Bossi ci ricorda come questo luogo indicibile, impensabile e infigurabile sia stato invece immaginato dal «pensiero umano […] irrimediabilmente ancorato allo spazio», come una caverna, un «abisso nero e oscuro», suggerendoci un’ulteriore analogia con quel corpo che si concepisce, sempre secondo Nancy,  «nella tenebra, e come tenebra esso stesso»: «concepito e formato nella caverna di Platone e come questa stessa caverna», laddove «il corpo-caverna è lo spazio del corpo che si vede da dentro», da quel luogo indicibile, proscritto e accessibile alla sola, disincarnata, immaginazione. 

 

Protagonista assoluta del corpo-inferno è la bocca, quella bocca che per Bataille «è l’inizio, o, se si vuole, la prua degli animali […] la parte più animata, cioè la più terrificante per gli animali vicini». Quella parte del corpo animale che nella visione dell’Inferno viene assunta come metafora della paura di essere divorati fino a trasformarsi, come nel caso della splendida Miniatura della bocca dell’Inferno dal Libro d’ore della Vergine di Claude Molé (1550 circa), nella «terribile figura di Satana [dove] la bocca e l’ano sono intercambiabili» – scrive lo stesso Clair nel saggio di apertura del catalogo nel quale circumnaviga Bataille senza tuttavia mai nominarlo (si pensi a quel corpo “tubolare” teorizzato in L’ano solare, in cui apertura anale e boccale coincidono per opposizione) –: aperture spalancate sempre pronte a fagocitare e precipitare l’uomo in «quell’abisso infernale e ghiottone, quel ventre sempre inappagato, quella caverna brulicante di mostri […], quell’antro boccale e anale allo stesso tempo». Se la bocca è per Bataille prerogativa degli animali, poiché la complessa articolazione del corpo umano ne ha parzialmente obliterato la prominenza, ci sono tuttavia dei casi in cui il potenziale di violenza dell’orifizio orale «riprende repentinamente il sopravvento» – scrive il filosofo –, ossia quando «il terrore e la sofferenza atroce fanno della bocca l’organo delle grida strazianti». Forse non è un caso che nel bel catalogo Electa, al capitolo dedicato a Primo Levi e curato da Marco Belpoliti che ci ricorda come il chimico torinese usasse «l’espressione “animale-uomo” per parlare dei deportati nel Lager» – a sottolineare la perdita di umanità trasmutata in animalità – faccia seguito proprio il capitolo intitolato L’urlo del male dove si indugia sugli orrori della guerra.

 

 

 

Proprio agli orrori della guerra (in particolare alle torture perpetrate in Bosnia in quei giorni di cui aveva letto su Le Monde) pensava Nancy mentre preparava la conferenza sul corpo tenutasi alla Regional School of the Fine Arts (Le Mans, 8 aprile 1994). Intitolata provocatoriamente On the Soul – perché «l’anima è la differenza del corpo da se stesso, il rapporto con l’esterno che il corpo è per se stesso […]. L’anima è la forma del corpo» – in essa il filosofo ribadisce come il corpo, per essere corpo, debba essere sempre un’entità impenetrabile e, allo stesso tempo, estesa ed esposta all’esterno poiché si costruisce sempre in relazione ad un altro corpo («distinto da altri corpi. Un corpo inizia e finisce contro un altro corpo»). Dopo aver specificato il significato di “ex” nel termine estensione, si concentra su quello di tensione sottolineando come il corpo (vivo) possieda sempre una tension, o tonos, che lo distingue dalla rigidità cristallizzata dei cadaveri. In questo modo l’autore evidenzia involontariamente il paradosso dell’immago infernale, dove i corpi dei defunti continuano a contorcersi, ribellarsi, dimenarsi (ed è proprio questa parossistica tensione del “corpo infernale” ad aver affascinato, tra gli altri, Auguste Rodin e ad averlo guidato nella realizzazione della Porta dell’inferno di cui si può godere, all’interno della mostra, un calco in gesso e numerosi disegni preparatori) in pose che ricordano da vicino – e non a caso – le orrorifiche e disumane convulsioni dei malati di mente che abitano la parte finale della mostra.

 

In questa lettura “corporea” dell’Inferno dantesco condotta prevalentemente attraverso la lente di Jean-Luc Nancy, preme un’ultima osservazione di carattere “quantitativo” poiché, prerogativa dei corpi che abitano l’inferno, è quella di presentarsi prevalentemente come “masse”: montagne di corpi accatastati, ammucchiati, spinti gli uni contro gli altri (ed è anche  questo elemento “quantitativo” ad affascinare, ad esempio, i seguaci di Hieronymus Bosch iperpresenti nella mostra), laddove è proprio il concetto di massa a occupare la posizione antinomica a quella di corpo nell’elaborazione teorica del filosofo francese. Infatti, se da una parte «c’è sempre una folla di corpi», dall’altra «non c’è mai una massa di corpi. Dove c’è una massa di corpi, non c’è più un corpo» perché solo «il cadavere forma una massa». È questo che accomuna l’Inferno tanto all’orrore della guerra quanto all’alienante vita delle metropoli: nel negare precisamente quella «determinazione singolare [che] è essenziale per il corpo» e, con esso, l’individuazione ed esistenza stessa del soggetto. 

 

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