Barroso / Marcello Fois, Pietro e Paolo

27 Novembre 2019

Per molti secoli la Sardegna è rimasta ai margini – ma forse sarebbe più appropriato dire: oltre i margini – della letteratura italiana. Le cose sono cambiate solo dopo l’unificazione nazionale: coincidenza vuole che risalga al 1871, cioè all’anno successivo alla presa di Roma, la nascita di Grazia Deledda, prima donna (e finora unica italiana) a vincere il Nobel per la letteratura dopo la svedese Selma Lagerlöf. Da allora il contributo degli scrittori sardi alla cultura letteraria si è fatto sempre più cospicuo. Alle figure eccezionali di Gramsci e Lussu ha fatto riscontro una presenza che di generazione in generazione si è consolidata, da Giuseppe Dessì a Salvatore Satta, da Sergio Atzeni a Salvatore Mannuzzu, da Giulio Angioni a Salvatore Niffoi, senza dimenticare, nel campo troppo sovente negletto della letteratura per ragazzi, la figura di Bianca Pitzorno. Accabadora di Michela Murgia è uno dei romanzi più pregevoli degli ultimi dieci anni, e per efficacia argomentativa ed esemplarità culturale anche la replica della scrittrice a Matteo Salvini – la sinossi dei due rispettivi CV postata su Facebook l’aprile scorso – meriterebbe di essere sottratta alle contingenze della cronaca. Poi c’è Marcello Fois, che va annoverato senz’altro tra i maggiori narratori italiani di oggi. 

 

L’ultimo romanzo di Fois, Pietro e Paolo, conferma da un lato uno dei tratti distintivi della tradizione narrativa isolana, cioè il riferimento a un passato ancestrale che anche in epoca moderna seguita a condizionare credenze e comportamenti (in Sardegna la letteratura d’invenzione ha quasi sempre una filigrana etnografica), dall’altro un Leitmotiv che percorre varie sue opere, la coppia maschile di protagonisti stretti da un legame ambiguo, fatto di amicizia e rivalità, di solidarietà e prevaricazione.  

Siamo all’epoca della Grande Guerra. Pietro e Paolo sono cresciuti insieme, ma appartengono a classi sociali diverse. Paolo è il rampollo della ricca famiglia dei Mannoni; Pietro Carta è figlio di un servo. Il protrarsi del conflitto provoca il reclutamento della classe 1899, e le aderenze dei Mannoni non bastano a scongiurare la chiamata alle armi di Paolo. A Pietro è allora richiesto di arruolarsi come volontario, per sostenere e difendere l’amico, di lui alquanto più insicuro e fragile. Dopo qualche mese, la svolta. A Pietro, che ha portato in grigioverde una robusta fibra popolana, è offerto di entrare fra gli Arditi, cosa che comporterebbe un distacco da Paolo: quindi, per non venir meno alla promessa fatta alla famiglia dell’amico, Pietro rifiuta. Irritato e deluso, il comandante del reparto sanziona la decisione separando comunque i due. Paolo, spedito in prima linea, tornerà dal fronte gravemente menomato, mentre di Pietro, che ha disertato, si perdono le tracce.

 

I Mannoni, persuasi che Pietro sia responsabile della disgrazia di Paolo, si vendicano gettando i Carta sul lastrico. Ovviamente le cose sono andate in maniera molto diversa da come sembra; ma non è il caso di fare anticipazioni, sia perché il volume è uscito da poco, sia perché l’esposizione delle vicende segue un ordine non lineare, e gran parte dell’efficacia del romanzo dipende proprio dal divario fra il protratto accumularsi delle attese (quali le ragioni della visita di Pietro? perché da due anni non torna a Nuoro?) e il progressivo chiarirsi della situazione. 

La narrazione comprende sedici capitoli, numerati a ritroso; il cambio di passo, con un crescendo drammatico destinato poi a stemperarsi in un finale sfumato – un fadeout gravido di sottintesi – avviene negli ultimi sei. In avvio vediamo Pietro, adulto, diretto all’alba a un appuntamento con Paolo. Mentre percorre il tratturo che attraversa una campagna aspra e familiare, una serie di retrospezioni ricostruisce gradualmente gli antefatti, un tassello dopo l’altro.

 

 

Vengono rievocate le scorribande dei due ragazzini nella campagna, le loro esperienze comuni, il sodalizio stretto sotto l’insegna sociale di una relazione di dipendenza; quindi il nuovo status di militari in zona di guerra, i dilemmi, gli equivoci. Sullo sfondo prende forma anche una figura femminile, Lucia (che forse avrebbe potuto assumere nella trama un ruolo di maggior rilievo). Una chiave di lettura è contenuta poi nelle richieste che i due giovani formulano – senza rivelarle, come di prammatica – nel santuario dell’omonima martire siracusana («– Che cosa hai chiesto? // – Dài, Pa’, non si dice. E tu? // – Eh, non si dice. // Risero»). Rispetto allo scioglimento della trama, una funzione di ‘rallentamento’ (come usano dire i narratologi) è svolta da un interludio extra-territoriale: sbandato e latitante, Pietro apprende da un camionista portoghese di nome Jorge quello che a suo dire era davvero avvenuto a Fatima l’anno prima (quanto di più lontano si possa immaginare da un evento miracoloso). Il divario tra apparenza e realtà, e anche tra verità e apparizioni, non è un’esclusiva italiana.  

 

In un’intervista di qualche anno fa, legata alla pubblicazione del libro sulla figura del leggendario bandito Samuele Stochino, detto la Tigre dell’Ogliastra (Memoria del vuoto, Einaudi 2006), Fois ha parlato della singolare capacità dei sardi di essere «onestissimi e delinquenti insieme, esaltati e depressi, tristi e felici». Da questa triade di opposti si potrebbero facilmente ravvisare corrispondenze in ambiti socioculturali completamente diversi; ad esempio, nel racconto Il servo di Primo Levi (Vizio di forma) si legge che «la gioia dell’ebreo è con un briciolo di spavento»; e quanto alla polarità esaltazione/depressione, la modernità ce l’ha resa fin troppo familiare. Il binomio più significativo è quindi il primo, quello fra delinquenza e onestà. Un intreccio o un’emulsione di rettitudine e malvivenza, di inclinazioni encomiabili e meritorie e di risvolti (o esiti) eslegi, irregolari o addirittura criminali, che riconduce non solo a un’irrisolta tensione fra norme morali concorrenti, ma alla convivenza di mondi diversi. Una condizione di frontiera dove, da sempre, chi sappia cercare trova materia abbondante per narrare storie. 

Per concludere, due osservazioni d’ordine formale.

 

In questo libro mi pare che lo stile di Fois ricorra più spesso che altrove a modi ellittici e frammentari, in omaggio a una retorica della brevitas che in Sardegna rappresenta un dato preletterario pressoché senza alternative (fin troppo facile sarebbe qui evocare il paragone con la cultura letteraria siciliana, dove laconicità e opulenza verbale si contendono invece da sempre il campo, a volte anche nell’opera dello stesso autore). In secondo luogo va rilevato che nell’italiano impeccabile della scrittura di Fois trovano posto sporadici prelievi lessicali senza traduzione, non saprei dire se nuoresi o pan-sardi. Fra questi, una menzione speciale spetta all’aggettivo (foneticamente italianizzato) barroso: che, se ho ben capito, sta a indicare una particolare mistura di arroganza e ostinazione, una protervia sfrontata e insistente, suscettibile di diventare carattere. Ecco un buon esempio di termine che potrebbe essere utilmente preso in prestito dalla lingua comune, e accolto nei vocabolari: anche perché non è che manchino, sul continente e altrove, persone cui s’addica tale attributo. Da questo punto di vista, tutto il mondo è Nuoro. O Lollove, frazione  del capoluogo menzionata nella pagina iniziale del romanzo, la cui popolazione arriva oggi a stento alla doppia cifra. 

 

Marcello Fois, Pietro e Paolo, Einaudi, pp. 150, € 17,50.    

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