David Bowie is everywhere

6 Maggio 2013

“All art is unstable.
Its meaning is not necessarily
that implied by the author.
 There is no authoritive voice.
 There are only multiple readings.”
(David Bowie)

 

 

All’entrata un fluire di creste gialle e rosse, di eyeliner marcati, di capelli lunghi diventati bianchi. Mamme con figlie di vent’anni di meno, uguali e irrimediabilmente diverse; una ha vissuto anni da celebrare, l’altra forse non ancora. Padri trentenni con in braccio neonati, signori che camminano appoggiati a un bastone. Sembra che non manchi nemmeno una generazione qui all’ingresso della mostra. “David Bowie is everywhere”. Raramente una massa di teste davanti a un quadro o a una foto in una galleria d’arte suscita interesse anziché irritazione. La mostra migliore è quella deserta. Ma ci sono eccezioni e l’exhibition in corso a Londra su David Bowie è una di quelle. Creste colorate, capelli cotonati che si interpongono, si sovrappongono e si stagliano su videoclip anni ’70, le ombre della gente che cadono sui vestiti di scena disegnati da stilisti eccentrici, tutto questo contribuisce a riempire l’ambiente di un’atmosfera pop, quasi da concerto. La sensazione è di essere nel bel mezzo di una performance.

 

 

Celebrare una rock star, per di più ancora in vita, in un museo blasonato, non necessariamente dedicato all’arte contemporanea, è un’idea forse arrischiata, senz’altro insolita. Si potrebbe fare un elenco piuttosto lungo di celebrità della musica che hanno attraversato qualche decennio rimanendo sempre sulla cresta dell’onda, influenzando il proprio tempo, da Bob Dylan a John Lennon, o Freddy Mercury, Michael Jackson, Iggy Pop. La scelta di David Bowie non è certo casuale e segue delle logiche che possono forse portare alla luce alcuni aspetti caratteristici della nostra epoca. Ma innanzitutto David Bowie è, e la struttura della mostra vuole darne la prova, un artista totale, eclettico, aperto a tutte le forme d’arte, sperimentatore, avanguardista e soprattutto preconizzatore dei nostri anni.

 

 

Dalla musica alla recitazione; qualche prova e gioco di fotografia: sono degli anni ’70 alcuni suoi sperimenti fotografici intitolati “Auras”, in cui utilizza una tecnica inventata negli anni ’30 dal russo Semyon Kirlian, detta proprio effetto Kirlian o aura fantasma, in cui viene utilizzata una forte carica elettrica che colpendo il soggetto fotografato provoca sulla pellicola impressionata un alone luminoso attorno ad esso. David Bowie utilizzerà alcune delle sue foto per la scenografia del tour del ’76 Station to Station. Musicista cantautore, attore di teatro e mimo, e una volta raggiunta la notorietà anche di cinema, prima di diventare David Bowie disegnava vestiti per sé e per la sua band: la sua attenzione per l’esibizione, fin dai primi anni, era per lui un fatto maniacale.

 

 

Sperimentare, portarsi sempre oltre, provocare, la mostra di Londra celebra una genialità che è stata sotto gli occhi di tutti per più di 40 anni. E che continua ad esserlo, perché è proprio il 2013 l’anno che vede l’uscita, dopo dieci anni di silenzio, del suo ventiquattresimo album registrato in studio, The Next Day. Già la copertina non lascia indifferenti, con quel quadrato bianco che campeggia su uno dei suoi dischi di maggior successo, Heroes del ’77. O forse quel quadrato è un buco vuoto, che come un tunnel lega (ma come? con quali emozioni, sensazioni, ricordi?) il passato con il presente. Durante la fine degli anni ’90 il suo spirito artistico esplorativo lo aveva portato a giocare anche con le parole, usando un programma chiamato Verbasizer  con il quale componeva i testi delle sue canzoni: lui selezionava e inseriva frasi, parole e il programma le mescolava a caso. Sperimentare, superarsi. David Bowie non è mai rimasto uguale a se stesso.

 

 

 

La mostra è anche un accumulo di reperti, di oggetti della sua vita, dai vestiti di scena, ai fogli originali dei testi da lui composti, con righe tirate e correzioni annesse, dischi, fotografie, e soprattutto i segni degli incontri e delle collaborazioni con alcuni tra i massimi artisti viventi, icone ispiratrici dello stesso Bowie. David Bowie e Andy Warhol si videro una sola volta, nel ‘71, e da quel giorno poco li unì se non una fredda stima reciproca: Warhol non apprezzò l’omaggio musicale di Bowie e Bowie non amò essere filmato da Warhol. Un altro incontro: sul set del poco fortunato Just a Gigolò, diretto da David Hemmings nell’80, Bowie conobbe Marlene Dietrich, per lui figura ispiratrice, soprattutto per quanto riguarda l’immagine androgina di cui la Dietrich fu una delle prime incarnazioni cinematografiche.

 

 

L’uso spettacolare che David Bowie ha fatto del proprio corpo, con quell’esibizione così marcatamente femminile, dal trucco ai vestiti attillati, è senz’altro il carattere più distintivo di tutta la sua vita da performer. La sua musica è stata sempre sostenuta da un desiderio di irruzione sul palco, di scardinare le regole dell’immaginario collettivo la cui simbolica tradizionale è caratterizzata da una netta distinzione di genere. La sua provocazione e interpretazione contiene intrinsecamente questa mescolanza di maschile e femminile, ed è stato questo a renderlo davvero unico. Ed è probabilmente per questo che è stato scelto David Bowie tra i molti musicisti da celebrare.

 

 

Perché David Bowie ha iniziato quattro decenni fa ad essere specchio dei nostri tempi, specchio degli anni 2000 intendo. Se abbia anticipato o influenzato non è facile dirlo, chi ha curato la mostra di Londra propende senz’altro per la seconda ipotesi. Quel che è certo è che l’androginia, con la sua potente fascinazione, ha negli ultimi anni invaso le campagne pubblicitarie dell’alta moda, da Versace a Dolce&Gabbana, e così il nostro immaginario. Quello che era scandaloso allora, adesso non lo è più, ma David Bowie ha individuato la direzione in cui l’evoluzione dei costumi sarebbe andata. Ecco perché “David Bowie is everywhere”.

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