Ugo Mulas. Sensitive Surface

12 Febbraio 2015

La mostra di Ugo Mulas alla galleria Lia Rumma, a Milano, è una mostra esemplare, da non perdere. La galleria, com'è noto, è su tre piani. Al pianoterra sono esposte solo quattro Verifiche: la prima e l’ultima insieme sulla parete di fronte all’entrata, la seconda e la penultima sulle altre due pareti, una di fronte all’altra. È la doppia cornice delle Verifiche, come ho già avuto occasione di far notare: la prima e l’ultima con il rullino stampato nero e la seconda e penultima i due “autoritratti”. Non è superfluo farlo notare di nuovo qui, si vedrà subito perché, la doppia cornice significa che Mulas identifica la propria opera con se stesso, persona e fotografo, come si suol dire, mettendo in gioco il nascondimento del suo volto con la macchina fotografica nel primo autoritratto e la sua sfocatura a favore del volto della moglie nell’altro.

Al primo piano, sorpresa assoluta, perché inedite, mai mostrate, credo, mai viste, una serie di “fotografie” che consistono in dettagli ingranditi di fotogrammi, diciamo così, del rullino nero soggetto delle due Verifiche, appese a fregio lungo tutte le pareti. È un vero spettacolo. Significa che Mulas era entrato anche dentro il rullino, l’aveva sezionato, ne aveva scrutato tutte le possibilità di diventare, così com’era, nero, vuoto, senza immagini, immagine esso stesso. E con che occhio, inutile dirlo, cioè con che intelligenza linguistica. Quella, del resto, che lo ha caratterizzato in ogni occasione. C’è il riquadro nero, ci sono i buchi e i dati della pellicola, ci sono i tagli più diversi che mettono in gioco tutti questi elementi. Perché non le ha mai esposte? Congetture a parte, sempre discutibili, qui valgono perché riguardano il cuore stesso della questione. Secondo noi non ne ha avuto occasione, non aveva ancora osato dire “Anch’io sono artista”. Ma lo stava facendo, così con la partecipazione alla mostra Campo Urbano, tra l’altro con ingrandimenti di rullini, o parti di rullini, appunto. È ciò che ribadisce la parte della mostra che si tiene nella sede napoletana della galleria, che noi non abbiamo visto ma è molto ben documentata sul sito (www.liarumma.it). Al secondo piano, sempre a fregio lungo tutte le pareti, sono esposte fotografie dell’altra produzione di Mulas, la precedente – e dunque si sarà notato che viene proposta una rilettura di Mulas all’indietro, cioè a partire dalle Verifiche e dunque come se tutte fossero “verifiche” e tutte “opere” –, quella che ha per soggetti opere di altri artisti o i gioielli o altro. Ci sono fotografie in bianco e nero e anche fotografie a colori, anche queste, com’è noto, mai proposte dallo stesso Mulas.

 

Verifiche, Omaggio a Niepce, 1968-70

 

Forzatura? Noi non crediamo, e anzi plaudiamo alla discrezione e intelligenza con cui lo si è fatto attraverso, dicevamo, l’allestimento per chi vuol cogliere, invece che dichiarativamente a parole, come stiamo facendo noi per presunto dovere critico. E, si noterà anche questo, in un’occasione di galleria privata e non di istituzione. L’operazione è in questo senso doppiamente intelligente: le mostre istituzionali che abbiamo visto in questi anni hanno inteso presentare l’opera di Mulas nella maggiore vastità possibile, per informazione, per studio, per questo mostrando anche il colore, i rullini e quant’altro. Ora la ghiotta occasione privata – ghiotta perché la galleria è di quelle “potenti” e di rinomanza internazionale – diventa invece scena per andare al centro della questione: Mulas artista, comunque la si voglia intendere. Allora la stampa degli inediti acquista un altro senso, critico appunto, per indirizzare la discussione su questo. Ciò che noi abbiamo voluto rimarcare.

 

Per noi infatti Mulas è stato artista sempre, in ogni parte del suo lavoro fotografico. Ha senso perciò, perché non ha l’aria di rivendicare precedenze o sfogare frustrazioni nei confronti degli “artisti che usano la fotografia”, vedere in questa mostra come le fotografie dei dettagli di opere nella casa del collezionista americano, per esempio, potrebbero essere state scattate vent'anni dopo da Louise Lawler o altri casi simili che non è il caso di enumerare.

 

Bello infine, e risolutivo, il titolo The Sensitive Surface, che segna proprio l’identificazione di cui dicevamo all’inizio: il fotografo è fotografia, superficie sensibile, ma anche sensitiva, e perfino suscettibile e permalosa, come indica l’aggettivo inglese.

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