Gli Appalachi di Shelby Lee Adams

6 Settembre 2012

Shelby Lee Adams è un fotografo americano che fin dagli albori della sua carriera, iniziata negli anni ‘70, si è sempre dedicato a ritrarre famiglie e piccole comunità montane dell’Appalachia, regione in cui è nato. Da qualche mese è disponibile il suo quarto libro fotografico Salt & Truth, pubblicato dall’editore statunitense Candela Books. Ho avuto modo di vedere alcuni degli ottanta scatti contenuti in questo volume durante un’esposizione nella bella Catherine Edelman Gallery di Chicago.

 

                     

 

Se si chiede a un americano “who are the Appalachian?” si può star certi di quale sia la prima reazione: una risatina, occhi che si abbassano e un inutile tentativo di ricomporsi. Alcuni poi si mettono a spiegare con tono serioso che gli appalachiani sono da sempre vittime di certi stereotipi denigratori. Povertà, ubriachezza, violenza. Si dice che si sposano tra fratelli e sorelle. Ma sono solo cliché che non vanno presi troppo sul serio, continua l’interlocutore con espressione grave.

 

                     

 

L’Appalachia è una regione degli Stati Uniti dell’est che si stende tra il Kentucky, il West Virginia, il Virginia, il Tennesse, il North Carolina. Nel cuore più profondo di questa zona ci sono montagne, boschi fitti e poche strade. O almeno questo era l’Appalachia fino ai primi anni ‘90, poi si è sviluppata l’urbanizzazione portando con sé autostrade, McDonald’s, centri commerciali, il tutto accompagnato, come dice nostalgicamente il fotografo Shelby Lee Adams, dal “the usual plastic that decorates the rest of the country”.

 

Tutti gli stereotipi, anche i più zoppi, hanno sempre un’origine più o meno storica, c’è sempre un evento, un particolare episodio da cui generalizzando si arriva al cliché e alla banalizzazione. Questa idea di un popolo di ubriachi ha origine durante il proibizionismo degli anni ‘20, l’Appalachia era infatti la grande riserva d’alcool dei vari Al Capone del Midwest, lì le montagne nascondevano barili di alcolici nell’attesa d’essere contrabbandati nelle grandi metropoli. E i molti episodi di violenza non mancano.

 

Che sia stata una zona in cui la povertà dilagasse incontrastata, o che lo sia tuttora in alcune remote profondità montane, non vi è alcun dubbio, tant’è che negli anni ‘60 il Presidente John F. Kennedy formò il President’s Appalachian Regional Commission nel tentativo di risollevare le sorti di questa area sottosviluppata e destinata a un degrado sempre più feroce. Da allora per una decina d’anni, grazie anche alla Lyndon Johnson’s War on Poverty, l’attenzione mediatica accresciuta portò alla circolazione a livello nazionale di immagini che ritraevano la povertà estrema di queste comunità.

 

 

In quegli anni Shelby Lee Adams era appena un ragazzo e nel college muoveva i primi passi verso la fotografia. La notizia dell’arrivo di una troupe televisiva nel suo paese d’origine lo accese di un tale entusiasmo che si prese la responsabilità di portare i giornalisti in giro per la fattoria dei nonni e a casa di amici, orgoglioso d’essere utile a un grande broadcast e di mostrare al mondo i luoghi della sua vita. Un anno dopo uscì un documentario che denunciava la povertà di quella zona, il degrado delle case e l’arretratezza delle persone attraverso le immagini dei famigliari e degli amici di Shelby Lee. L’intera comunità lo rimproverò duramente per essersi reso complice di un tale tradimento e di una simile opera di denigrazione. In tutte le prefazioni ai suoi libri fotografici, Appalachian Portraits (1993), Appalachian Legacy (1998), Appalachian Lives (2003) e l’ultimo Salt & Truth (2011), Adams insiste su questo momento cruciale della sua vita, sottolineando come la sua professione sia nata da un desiderio di riscatto, non solo personale nei confronti della propria comunità, ma anche dell’intera collettività appalachiana nei confronti dell’opinione pubblica americana.

 

Esplorando gli scaffali dedicati alla storia dell’Appalachia ci si stupisce per la quantità di volumi fotografici dedicati a questa regione e di come quasi tutti siano stati pubblicati a partire degli anni ‘70 e sempre da parte di autoctoni. È evidente come il bisogno di riscatto di Adams fosse condiviso in tutta l’Appalachia a seguito dell’invasione mediatica di quegli anni. La maggior parte delle fotografie di questi volumi mostrano i ritmi della vita di montagna, i lavori, gli utensili, gli animali, i campi. I titoli sono estremamente espliciti: Appalachia: a Self-Portrait, un lavoro collettivo del 1979, oppure The Face of Appalachia, pubblicato nel 2003 ma contenente fotografie degli anni ‘70 e ‘80. Sembrano fotografie-documento: cataloghi di attrezzi, di animali e di persone, il tutto staticamente in posa. A ben vedere c’è invece un desiderio di redenzione, e il messaggio lanciato all’osservatore non potrebbe essere più chiaro: guardate che grandi lavoratori siamo, dei veri hard worker! C’è però qualcosa che manca in queste immagini. È assente il contesto, l’atmosfera, qualcosa di essenziale per la forza dell’immagine è stato nascosto volontariamente, e la fotografia ne risente. Si intuisce che queste immagini del riscatto e dell’orgoglio della comunità non tollerano la povertà degli ambienti e lo squallore delle case. Molte di queste immagini ricordano certa pittura di paesaggio dell’Ottocento dove la staticità prevale sulla tensione drammatica.

 

 

Le immagini di Shelby Lee Adams invece non nascondono nulla. I suoi sono sempre soggetti umani e, più precisamente, è sempre lo sguardo del soggetto ad essere il centro del suo interesse. Per questo forse non ha bisogno di eliminare il contesto, perché quel che vuole mostrare non è la presentabilità al mondo contemporaneo degli appalachiani ma la dignità e la vivacità del singolo essere umano, anche se vive in una catapecchia con la tappezzeria fatta di giornali. Adams entra nelle case dei protagonisti delle sue foto e ci passa intere giornate, talvolta settimane. Penetra nella vita di queste persone alla ricerca del momento e dello sguardo giusto. Come molti fotografi usa le polaroid per testare la scenograficità del set. Sono trent’anni che ogni estate passa tre mesi a girovagare per le montagne, andando di famiglia in famiglia, di sguardo in sguardo. A volte ritrova gli occhi di bambine cresciute, fotografate 10 o 20 anni prima. E l’interesse del fotografo così come quello del fruitore è la stessa commistione di curiosità (forse un po’ insistita?) e stupore per il mistero, quello che si prova di fronte alle due immagini della ragazza afgana di Steve McCurry.

 

                     

 

Shelby Lee Adams molto spesso incornicia i propri soggetti individuando e sfruttando a proprio vantaggio le linee architettoniche degli ambienti casalinghi. Così facendo mescola due generi fotografici che solitamente si considerano ben distinti, il ritratto e la fotografia d’architettura. Il risultato è davvero originale e quel gioco di linee anziché distogliere l’attenzione dal soggetto lo esalta ancor di più, e l’occhio del fruitore scorre pulito lungo la composizione. I materiali poveri delle abitazioni entrano con forza nella fotografia: legno, ferro, carta. E lo squallore delle abitazioni, anziché provocare una sensazione di malessere, rende la fotografia tragicamente elegante innescando un cortocircuito concettuale: l’armonia della povertà.

 

 

A volte nelle sue fotografie si trovano singolari allusioni religiose, come quel Gesù Cristo tatuato e incorniciato da una struttura lignea, come se fosse una pala d’altare. Tutto di Wasp ‘05 rievoca l’immaginario del Cristo in croce: lo sguardo afflitto, il torace ossuto, i capelli lunghi, la barba incolta. Poi l’occhio cade inevitabilmente su quei segni della vita moderna che fanno scattare una sensazione di straniamento: l’orecchino al lobo sinistro, la collana stretta al collo e i tatuaggi alle braccia. Un’altra immagine religiosa è Leslie ‘07, una Madonna-uomo con il grembo vuoto. Il soggetto stringe nel ventre un’assenza e alle spalle un’aureola di legno incornicia un volto quasi interrogativo.

 

Sia Wasp che Leslie hanno un’espressione rassegnata.

 

 

Le fotografie che ci arrivano da queste montagne remote - tanto quelle di Adams quanto quelle degli altri fotografi – sono rigorosamente in bianco e nero. Quasi prevalesse il desiderio di preservare il passato dalla violenza del rosso e giallo alla McDonald’s.

 

C’è anche il bisogno di mantenere un dialogo con i maestri, ovvero con i grandi fotografi statunitensi come Dorothea Lange e Walker Evans, che durante la depressione degli anni ‘30 hanno documentato la povertà americana.

 

Adams non cade nell’agiografia e nemmeno nel suo opposto, la documentazione asettica. Il suo sguardo è empatico ma sa mantenere la distanza, sa essere oggettivo e attinge a questa oggettività le ragioni più profonde del suo stile.

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