Siegfried Lenz, un narratore di storie

16 Ottobre 2014

Siegfried Lenz, scomparso lo scorso 7 ottobre, era, con il collega Günter Grass e l’amico critico Marcel Reich Ranicki (scomparso nel 2013), uno dei tre “grandi vecchi” della letteratura tedesca contemporanea. Del secondo, deportato a Varsavia durante la seconda guerra mondiale, Lenz promosse l’approdo al mondo letterario della Germania occidentale postbellica, con entrambi partecipò per molti anni agli incontri del Gruppo 47, e con Grass condivise il sostegno all’SPD di Willy Brandt. L’opera più celebre di Lenz, il romanzo Lezione di tedesco, riedito in Italia da Neri Pozza nel 2006, apparve in un momento propizio: era il 1968, e fare allora i conti, anche in termini di confronto generazionale, con i temi del dovere, dell’autorità e della responsabilità sotto il nazismo valse all’autore la consacrazione in patria e la notorietà all’estero. Oggi, dopo una vita interamente dedicata alla scrittura, lo scrittore originario della Masuria e di stanza ad Amburgo è ancora tra i più popolari e, grazie a un felice connubio di complessità e sobrietà stilistica, tra i più letti e studiati nelle scuole. L’intervista che segue apparve sul «manifesto» all’inizio del 2010, quando Lenz vinse il premio Nonino.

 

Più che scrittore o romanziere, forse la definizione che le calza di più è quella di narratore di storie. È d’accordo? Crede che narrare storie veicoli un modo specifico di conoscere il mondo?

Mi piace: “narratore di storie”. Poiché in effetti mi sento membro dell’antica famiglia di quei narratori di storie che ai mercati, nei porti, ai matrimoni e ovunque si recassero gli uomini, raccontavano fatti realmente accaduti e anche ciò che non era mai accaduto in nessun luogo. Io stesso ho bisogno di storie per comprendere il mondo. Solo scrivendo le mie storie imparo a capire persone, azioni e conflitti.

 

Diverse Sue opere somigliano a parabole, paiono alludere a un messaggio, a una lezione, che però rimane sempre inespressa, a disposizione del lettore e della sua libertà interpretativa. Come spiega quest’ambiguità?

È una prassi letteraria. Tu scrivi qualcosa, e ciò che hai scritto rimanda a qualcosa al di fuori di sé. Quello che lo scrittore propone è frutto d’invenzione, il prodotto della sua immaginazione. E il lettore reinventa la storia e, nel migliore dei casi, attraverso la lettura ne fa la “propria” storia. O comunque questo è ciò che io mi auguro.

 

Ogni scrittore ha una propria “famiglia” di autori, una rosa di maestri o modelli senza i quali il proprio percorso poetico non sarebbe stato possibile. Quali sono stati per lei gli scrittori importanti?

Nel mio caso le radici della narrazione affondano spesso in America. È lì che si trovano alcuni “modelli”, colleghi spirituali per così dire, ai quali devo qualcosa: William Faulkner, forse prima di ogni altro, che con la sua Yoknapatawpha County ha creato un mondo certo limitato, ma dal valore universale. E poi ancora Faulkner, per come è riuscito a scrivere la storia fatale degli stati americani del sud. Certo, anche Steinbeck e Hemingway. Ma probabilmente mi hanno influenzato anche altri scrittori.

 

I temi che dominarono la coscienza tedesca nei primi decenni del dopoguerra furono quelli della responsabilità collettiva e della colpa, come dimostra anche il suo celebre romanzo Lezione di tedesco. Quali sono secondo lei i punti focali del dibattito tedesco dopo la riunificazione?

Credo che alcuni aspetti di quel mio libro siano ancora attuali, che abbiano un’importanza anche nella Germania di oggi, riunificata. Sono importanti in ogni società. Quindi si tratta piuttosto di questioni universali: la responsabilità, l’importanza di modelli morali e metodi educativi. I politici hanno perduto troppo spesso il loro ruolo di modelli, purtroppo, e non solo nel mio paese.

 

Più volte Lei, come un personaggio del suo ultimo libro (Landesbühne), ha sottolineato l’importanza della “fantasia”. È un richiamo alla poetica romantica e schlegeliana in particolare, quindi a quella capacità basilare dell’uomo che, per così dire, supera e completa la realtà? Nabokov ad esempio diceva che “l’immaginazione è una forma della memoria”…

I critici tedeschi hanno più volte rimarcato una frase di Landesbühne che trovavano degna di nota: “A volte la realtà va inventata”. Io stesso, dissi loro, ho bisogno di storie per accertarmi del mondo, della sua realtà. Se vuole, potremmo dire che la fantasia dello scrittore addensa la realtà in forma di storie… Ma forse così si va troppo oltre. Si potrebbe ricordare anche il pensiero di Max Frisch, come si legge nel suo Gantenbein: “Prima o poi ogni uomo s’inventa una storia che considera come la propria vita… o tutta una serie di storie”.

 

Ha mai temuto che la sua poetica, spesso definita “tradizionale”, sempre orientata all’umanità dei personaggi, agli aspetti “universali” dell’esistenza umana, possa esser rimproverata di “inattualità” da una certa prospettiva storico-critica?

In fin dei conti al singolo individuo non resta che richiamarsi alla bontà, al calore umano, all’umanità. Se questo è “tradizionale” – e presumo che con ciò Lei intenda: fuori moda! – allora molto volentieri. Sono convinto, infatti, che questo sia l’unico modo attendibile di vedere e affrontare la vita. Se poi un critico non è d’accordo, ho una lunga esperienza alle spalle: come scrittore bisogna saper accettare che il proprio lavoro susciti reazioni differenti, che generi consenso e rifiuto in egual misura. La letteratura si offre senza obbligare a una reazione o un effetto univoco. E questo vale tanto per il lettore quanto per il critico. La letteratura può essere accettata o rifiutata. È così che, molto apertamente, concepisco la letteratura. E non me la prenderò certo con un critico se non è d’accordo con il mio sguardo sul mondo.

 

Il suo ultimo libro apparso in Italia, Un minuto di silenzio (Neri Pozza 2009), può esser letto, al di là del significato primario del titolo (il momento di commemorazione di una persona scomparsa), come una lunga variazione sul tema del silenzio. Qual è per lei in quanto autore il valore del silenzio – o preferisce lasciar parlare i silenzi dei suoi personaggi e del suo narratore?

A volte il silenzio è qualcosa di molto riposante. Anche alla scrivania, il luogo dove preferisco stare in assoluto. Lì intrattengo dialoghi con i personaggi. Loro iniziano a parlare, sviluppano le loro idee sul mondo. Oppure tacciono. Come me.

 

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