Ancora Berlusconi?

3 Giugno 2013

Per l'ennesima volta qualche tedesco, che sia amico, conoscente o incontro casuale di viaggio, trovandosi di fronte a me, interlocutrice presumibilmente informata di cose italiane e in grado di spiegargliele nella sua lingua, mi chiede: «Ma lei/tu riesce/i a farmi capire perché gli italiani hanno votato e ancora votano Berlusconi?». Rispondo, affranta e sconsolata, con i miei soliti argomenti, leggermente modificati, come vuole la retorica vecchia e nuova, rispetto all'uditorio, rappresentato nel caso specifico da un insegnante medio, docente di latino e inglese in un rinomato Gymnasium teutonico.

 

 

Comincio col dirgli che se c'è una categoria professionale che NON vota Berlusconi, è quella formata dagli insegnanti statali della scuola pubblica (Berlusconi cordialmente detesta, ricambiato, la scuola pubblica e i suoi insegnanti, lui che ha studiato dai padri di qualche bel liceo confessionale). Quelli come te, spiego all'insegnante di latino e inglese, non lo votano perché sono istruiti, sono colti, hanno studiato e riescono a non farsi turlupinare dal senso dei messaggi che chiameremo politici, anche se sarebbe meglio definirli pubblicitari, del Nostro. Oltre a ciò, continuo, gli insegnanti ricevono uno stipendio fisso (circa un quarto del tuo, penso ma non lo dico), già bell'e decurtato di tasse e imposte, versate regolarmente alla base; chi invece si beve la sua propaganda sono molti di quelli che hanno da guadagnare dall'evasione fiscale (piccola o grande) e che pensano che Berlusconi, ricco ricchissimo, farà diventare ricchi anche loro esentandoli da «tasse e balzelli» (quindi via ici e imu per tutti, indiscriminatamente poveri e ricchi, così che i comuni non sanno come pagare lo scuolabus, ma che importa, tanto i ricchi vanno tutti in macchina alla scuola privata), nonché concedendo loro qualche «condono» (fiscale, edilizio, tombale ecc.) e qui la faccenda diventa difficile da spiegare perché il concetto, molto legato, tra l'altro, al senso cattolico del perdono dopo la confessione dei peccati, risulta intraducibile alla lingua e alla mentalità protestante, e così devo ricorrere a esempi e giri di parole.

 

Potrei continuare spiegando che gran parte del successo del personaggio (per quanto pluriindagato, multiincriminato, polisospettato ecc., e che invece di dimettersi accumula incarichi e gaffes e esibisce comportamenti volgari e di cattivo gusto, di fronte ai quali giubila il pubblico di cui sopra) dipende dal monopolio televisivo e dei giornali da lui esercitato, o ancor meglio da un sapiente e sfacciato uso delle televisioni in un paese nel quale l'informazione è acquisita ancora, in percentuali altissime, esclusivamente tramite il piccolo schermo.

 

 

Tutte cose – in particolare l'alleanza tra politica e televisione –  che accuratamente spiega lo studio Servi di due padroni. Come la poliltica e la televsione si uniscono per manipolarci meglio, Vol. I, Leggendo fra le righe i discorsi di Silvio Berlusconi di Marie-Caroline Beyler, giovane studiosa di comunicazione politica, in questo volumetto, primo di una serie dedicata ad alcuni oratori della politica moderna, tra i quali Jacques Chirac e George W. Bush.  Uomini politici unificati dall'aver fatto uso sapiente della cattiva retorica, quella diretta a convincere attraverso tecniche manipolatorie che sedano il logos e attivano il pathos così abilmente da farci dimenticare che esiste anche una retorica buona, indirizzata a persuadere stimolando l'argomentazione e arricchendo l'informazione. Attraverso un'accurata analisi di tre discorsi berlusconiani  rispettivamente del 1994, 2003 e 2009 (alcuni passi dei quali vengono accostati in maniera illuminante a espressioni retoriche di Mussolini: amore per l'Italia, patriottismo e simili), Beyler illustra l'uso mediatico col quale Berlusconi «pianta» in un «terreno» fertile, disposto ad accoglierli e a farli germogliare, i «semi» (la metafora è nientemeno che di Pasteur, che la usava per spiegare l'interazione tra il corpo umano e l'instaurarsi della malattia) di un connubio esiziale tra (cattiva) televisione e (cattiva) politica, «televisione per la politica e politica per la sua televisione» (p. 55). Se comunque il discorso della discesa in campo ci è abbastanza noto, particolarmente utile risulta l'analisi effettuata da Beylier dei meno noti discorsi del 2003 e soprattutto del 27 marzo 2009, nel quale Silvio Berlusconi esalta la nuova legge elettorale (che ancora non chiamavano Porcellum ma lo era), «legge elettorale voluta da noi e ingiustamente denigrata dalla sinistra» (ah, questi comunisti!). Nello stesso discorso di continua autoincensazione Berlusconi ripete più volte che grazie al suo governo l'Italia oggi è «rispettata e autorevole» nel mondo. Autorevole? Rispettata? All'estero? Ma ci siete mai stati? Ma chiedete al mio prof. di latino e inglese!

 

Lo studio di Beylier (in cui potevano essere evitati, diciamolo, i refusi e gli errori di lingua) è temporalmente e mediaticamente circoscritto, nel senso che prende in considerazione esclusivamente il medium televisivo, coi suoi aspetti di unidirezionalità e assenza di interattività, mentre non si occupa, per motivi cronologici, delle pratiche interattive e del tipo di comunicazione e informazione promosso dalla rete, iniziati più o meno contemporaneamente al ventennio berlusconiano. Guardiamo al futuro: la televisione non è stata né sarà «la nuova agorà» che promuove il dialogo. Lo è, lo sarà la rete? Forse, ce lo auguriamo, anche se in Italia proprio la rete (combinata con la vecchia forma del discorso in piazza), ha dato luogo a un nuovo populismo, quello del Movimento 5*****, con elementi sia opposti sia affini al populismo di Berlusconi: speriamo che questo esito sia soltanto una malattia infantile della politica informatica e auguriamoci che dalle sue ricchissime potenzialità nasca qualcosa di meglio.

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