Speciale

Dai Cicli infelici ai Versi ciclabili

1 Luglio 2012

Mi hanno rubato la bicicletta pieghevole stamattina. Quattro giorni fa, invece, due ruote e il sellino di un’altra bici, quella col seggiolino dove porto Sara, mia figlia. Mi trovo a scrivere queste righe per raccontare il mio rapporto con la bicicletta proprio nei giorni dei furti subiti, per uno strano e avverso allineamento dei pianeti delle due ruote, anelli ciclistici, di un Saturno decisamente a me contrario, o contrariato.

 

 

Abito a Pisa, città sufficientemente ciclabile. Migliaia di biciclette, tra residenti, pendolari, studenti. Nel 2005 iniziai a prestare attenzione ai telai delle biciclette abbandonate in città. Ne trovavo ad ogni angolo. Conoscevo raccolte fotografiche di bici derelitte a New York, ma non avevo ancora visto album simili per l’Italia dove, in quel periodo, non era ancora esplosa in rete una certa moda letteraria, saggistica o poetico-narrativa, intorno al mondo delle due ruote. Creai un blog dal titolo I cicli infelici, aggiornato tra il 2005 e il 2007 con il contributo di foto inviate da blogger e non, da tutta Italia, e a volte anche con avvistamenti esteri: i cicli infelici erano per me le biciclette abbandonate, i telai smembrati e arrugginiti sulle cui immagini proiettavo i concetti di “tristezza” o di “infelicità”. Una forma di esercizio del “vedere come”. Nessuna tristezza invece,  ci avrebbe visto Pablo Neruda che, ne Il libro delle domande, si chiedeva: “Come conquistò la sua libertà la bicicletta abbandonata?”.

 

 

Conclusa l’esperienza del blog fotografico mi assegnai il compito di scrivere una specie di “semiologia della bicicletta” per via poetica: nominare la bicicletta in versi, senza mai usare la parola “bicicletta”, nel tentativo di esaurire l’immaginario che ne avevo coltivato, dall’oggetto fino al segno grafico stesso della parola. Da qui nacque la raccolta di poesie Versi ciclabili (Orientexpress, Napoli, 2007).

 

 

La bicicletta è un universo che contiene molte galassie semantiche (soggetto/oggetto letterariamente poetico: Pascoli, Caproni, Neruda…; oggetto artistico/funzione di memoria/simbolo: dalle biciclette nella pittura di Mario Sironi alla ruota di Duchamp fino alle lenticolari personalizzate da Haring nel 1987 per un telaio Cinelli; icona cine-fotografica e mitologica: da Ladri di Biciclette di De Sica alla foto di Zavattini sui pedali fatta da Berengo Gardin, dal Tour de France come “epos” analizzato da Roland Barthes in Mythologies alla foto di Coppi e Bartali che al Tour del ’52 si scambiano la borraccia o che duettano cantando al Musichiere, fino al Totò al Giro d’Italia del 1948…).

 

 

In tali “galassie” si ritrovano sempre a contatto sia l’esperienza diretta che ognuno di noi ha fatto del mezzo “bicicletta”, sia la memoria collettiva nella quale quelle stesse galassie di significato si sono addensate nel corso del tempo.

 

 

Versi ciclabili era un tentativo di discorso poetico, e di meta-discorso, sulle varie galassie di senso contenute nell’idea stessa di bicicletta: una specie di manuale tascabile e in versi che non costruiva tesi, la bicicletta come filosofia,  ma che evidenziava gli elementi poetici ed evocativi che il mezzo in sé è in grado di generare. Nella seconda parte del libro, invece, “fuori pista”, proponevo uno sguardo sui paradossi della contemporaneità, o sugli spaesamenti dati dall’osservazione del sé, proprio alla velocità ridotta data dallo stare in piedi sui pedali: la bici offre un mondo visto per fotogrammi, al rallentatore o per “velocità propria”, per usare parole di Zavattini.

 

 

La bicicletta fisica per me rimane una specie di metro “protagoreo”: è in tutto “a misura d’uomo”, quindi a misura di tutte le cose, perché ogni sua parte richiama l’anatomia umana che andrà ad occuparla, ad azionarla. Ogni telaio, evocando il corpo che lo pedalerà, assume sempre una suggestione antropomorfa che non ne fa più mezzo tra mezzi, cosa, oggetto, strumento, ma simbolo di movimento: vivente. E’ forse per questo che i telai abbandonati per strada mi attiravano così tanto, come poveri cadaveri insepolti.

 

Quella raccolta di versi esplorava alcune mitologie interne alla bicicletta, senza pretese di esaustività, senza cioè voler fondare una “estetica”, o una “ciclosofia” come in  Didier Tronchet, della bicicletta: a metà strada tra l’Elogio della bicicletta di  Illich, e Il bello della bicicletta di Augé. Ma in scala ridotta. Le poesie vennero, in seguito, anche sonorizzate da alcuni miei amici in forma di videoclip: tra gli altri, lo scrittore Luca Ricci lesse per me Regole interne e partecipò in alcune occasioni alla presentazione del libro; il cantautore Simone Cristicchi recitò “1915” prestando anche un po’ della sua musica come colonna sonora; il videomaker Alessandro W. Mavilio, che vive e insegna a Kyoto, realizzò un paio di video molto belli tratti dalle poesie. Altre volte, invece, ho realizzato io stesso brevi videoclip di riprese in soggettiva del mio pedalare per Pisa, escursioni urbane durante le quali lascio sempre vincere ogni anziano che cerchi di sorpassarmi lungo le piste ciclabili, ognuno in cerca della “velocità propria”.
“I vecchi cercano di usare la bicicletta fino all'estremo, e anche quando le loro gambe sono deboli, riescono a issarsi sulla bicicletta, e a andare, vanno a comperare il pane per le nuore, con l'illusione di una velocità propria.” ("Le biciclette" da "Straparole", Cesare Zavattini "Opere Complete 1931-1986" Bompiani 2001)

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