Madri e figlia / Maria Grazia Calandrone, Splendi come vita

18 Giugno 2021

Lasciamo da parte, ora, la vieta retorica nazionale sulla mamma. Umani siamo: cioè mammiferi sociali che dopo la nascita hanno bisogno di cure parentali assidue e protratte. Di conseguenza, tutto quanto ha a che vedere con la generazione e con il rapporto madre-piccolo investe una zona cruciale ed eccezionalmente vulnerabile della nostra sensibilità. Un esempio indicativo è costituito, nel caso delle adozioni, dal rapporto con l’immagine della madre biologica. Molti figli adottati (tutti?) nutrono il desiderio di sapere di più sulla donna che li ha messi al mondo, e se possibile di ritrovarla e conoscerla, anche quando il legame affettivo con i genitori è molto solido. Ben documentata è poi l’eventualità che il desiderio assuma connotati ossessivi. L’ultimo libro di Maria Grazia Calandrone riprende questo tema con una singolare variazione, quasi un capovolgimento, che disloca direttrici e soggetti dell’ossessione. Per inciso, converrà ricordare che l’etimologia di «ossessione» è obsedere, assediare: verbo che rende bene l’idea di un blocco emotivo abbastanza forte da impedire alla vittima di muoversi, o di allontanarsi.   

Splendi come vita, di recente apparso presso Ponte alle Grazie, parla di un difficile rapporto tra madre e figlia. La storia è scopertamente autobiografica, tant’è vero che la corredano, oltre a qualche disegno, alcune fotografie delle protagoniste. Una è tratta da una pagina di «Grand Hotel» del 17 giugno 1965: vi compare Maria Grazia all’età di otto mesi, in braccio alla vigilatrice di un istituto alla quale è stata affidata, dopo che la madre Lucia, 29 anni, si è suicidata insieme all’amante (che però non era il padre della bambina, cosa che il marito si ostinava a non credere). Un indugio meriterebbero sia il testo dell’articolo (leggibile nella fotografia), centrato sull’idea di peccato, sia l’immagine, in cui alla dolcezza spaesata del viso della bimba fa riscontro il duro profilo dell’anonima addetta, labbra serrate e sguardo entomologico (ma potrebbe essere uno scherzo birbone dell’occasionale scatto). Maria Grazia viene adottata dai coniugi Calandrone: il trafiletto di «Paese sera» con la fotografia della bimba insieme alla nuova madre, Consolata, è riportato subito dopo dedica e frontespizio. Al centro della vicenda è quello che l’autrice chiama il Disamore. A quattro anni – molto presto, quindi: troppo – viene a sapere dalla madre che la «Mamma Vera» non è lei. Una rivelazione dalla quale non la figlia, cui è rivolta, bensì la madre stessa, che l’ha fatta, non riuscirà mai a riaversi: e dalla quale a distanza di anni seguiranno drammatiche complicazioni emotive. 

 

Tale, in massima sintesi, la vicenda narrata. In verità il groviglio affettivo andrebbe inquadrato in modo meno frettoloso; e, come ognuno indovina, dalla migliore approssimazione scaturirebbero interrogativi destinati a rimanere senza risposta, o ad ammettere più risposte, magari egualmente plausibili, ma nessuna risolutiva. Dopo aver rievocato quella scena, cioè il trauma originario della scissione fra due maternità, la Calandrone così prosegue: «Nella leggenda famigliare, tramandata dalla memoria stessa di Madre, sembra che io abbia reagito alla Notizia gigantesca con maturità esemplare, abbracciando lei viva e presente (lei che sola, in effetti, constatavo, con salutare senso pratico) e rispondendo che Non ha importanza, Mamma sei tu. // Un’investitura talmente corretta da suonare inverosimile. // Pensai soltanto a sopravvivere, dicendo a Madre quel che immaginavo Madre volesse sentirsi dire, perché lei non avesse a ripudiarmi? // O pronunciai quelle parole per lei, gliele dissi per farLa felice? // Oppure Madre fu pietosa di sé e ricordò quello che avrebbe voluto sentirsi dire, ma che io non le dissi? // O era tutto vero, il fatto andò com’è stato trascritto dalla memoria di Madre e io l’amavo talmente che la Sua presenza l’aveva vinta sopra la potenza minatoria d’ogni Fantasma?»    

 

Il libro si presenta – teste la quarta di copertina – come «romanzo autobiografico»: definizione plausibile in prima istanza, ma non del tutto persuasiva. L’autrice è in primis una poetessa: e anche qui prevale un assetto liricheggiante, sia per la dizione concentrata, sia per la forte segmentazione del testo, che a più riprese assume l’andamento di una raccolta di pensieri e impressioni, quasi schegge di un journal intime. Manca, insomma, la continuità di una narrazione distesa; e d’altro canto, non c’è dubbio che a queste pagine sia affidata una storia, la storia di una vita, anzi di due vite, strette da un amore disperato e controverso, insidiato e martoriato dalle paure.

 

 

L’incubo di non essere amata abbastanza che si ribalta in disamore; il rimorso di non saper amare, o di non aver amato abbastanza, che finisce per tradursi nel rifiuto. Non conoscendo l’autrice, e digiuno come sono di psicologia, sarei incline a sospettare che il nucleo generativo di Splendi come vita sia meno il desiderio di rendere omaggio alla madre perduta che non il bisogno di liberarsi di un altro fantasma (che per prudenza scrivo con la minuscola). Ma preferisco non avventurarmi su questo terreno. 

 

In termini letterari, il problema principale mi sembra che sia questo. Che cos’è, in fin dei conti, Splendi come vita? A quale genere appartiene? So per certo che Andrea Cortellessa, valente studioso che (teste l’autrice) ha avuto un ruolo nella gestazione dell’opera, disdegna questo tipo di incasellamenti. Pure, non si tratta di un quesito ozioso: dietro l’etichetta di «genere letterario», da sempre esposta all’accusa di mortificare la creatività degli autori, ovvero di compiacere bieche esigenze commerciali, c’è il problema serissimo di «come leggere» un testo. Ebbene, io sono arrivato a questa conclusione: il libro della Calandrone è essenzialmente un monologo teatrale. E per dirla tutta, ci guadagnerebbe ad essere presentato in questa veste. La dimestichezza della Calandrone con la dimensione spettacolare è ben attestata dal suo percorso artistico e professionale; inoltre, la Nota conclusiva si apre con i ringraziamenti «all’amica di una vita», l’attrice Sonia Bergamasco, tant’è che non ci sarebbe davvero da stupirsi se l’ipotesi di una messa in scena fosse già in corso di realizzazione. 

 

Ma quale differenza c’è fra un romanzo autobiografico e un’autobiografia in forma di monologo teatrale? L’idea che a ogni testo letterario competa una certa misura di potenzialità scenica mi è sempre stata cara: durante i colloqui d’esame faccio sempre leggere allo studente un brano ad alta voce, perché anche dalla lettura più piatta e di servizio qualcosa trapela circa il livello di comprensione del testo. Questo fenomeno si accentua con la poesia: leggendo, pur silenziosamente, il lettore in realtà recita a sé stesso. Nel caso di Splendi come vita l’alternanza fra il poetico e il prosaico, fra il prevalentemente poetico e il prevalentemente prosaico, è frequente ma implicita; solo le ultime pagine appaiono, senza residui, composizioni in versi. Di qui, a mio avviso, l’utilità di un’indicazione paratestuale pertinente: e, più ancora, l’auspicio di un’autentica esecuzione teatrale, che senza dubbio valorizzerebbe l’avvicendarsi di buio e di luce, di tempi ordinari e di strette drammatiche, di strappi e ritorni, di fervore e di stanchezza, sino alla deriva finale. E darebbe più chiara voce all’intreccio di incomprensione e attaccamento, di disaffezione e di bisogno reciproco, che è forse ingrediente inevitabile nel rapporto madre-figlia, ma che qui si declina in termini di dolorosa, quasi insopportabile intensità. 

 

Come si diceva all’inizio, in questo caso il mammismo italico (che del resto si esplica soprattutto nel rapporto tra madre e figlio maschio) non c’entra davvero. In gioco è invece un fenomeno meno transitorio e sovrastrutturale, che riguarda – che turba e sommuove – esigenze emotive primarie. Non è un caso che da un certo punto in poi compaia anche la figura di una nonna, ovviamente la madre della madre. Splendi come vita è una storia tutta al femminile, perché solo sull’orizzonte dell’identità femminile si può inverare un certo grado di viscerale necessità. Cosa che – presumo – alle lettrici non potrà sfuggire.    

 

Maria Grazia Calandrone, Splendi come vita, Ponte alle Grazie, pp. 224, € 15,50. 

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