E quindi entrammo a riveder le stelle

8 Febbraio 2015

Nelle rare domeniche in cui mia madre riusciva a portarmi ai Giardini pubblici, andavamo al Museo di storia naturale che dà su corso Venezia oppure allo zoo che si trovava dalla parte opposta del parco, accanto alla grande fontana davanti a Palazzo Dugnani, ma, non saprei dire perché, al Planetario mai. Erano gli “anni di piombo” e, smog a parte, l’atmosfera a Milano era pesante. A ripensarli adesso sembrano uno di quei diorami che si possono ancora vedere nelle sale del museo: l’Homo sapiens sapiens con le basette alla mascella, i pantaloni a zampa e il borsello in spalla; sullo sfondo, corso Vittorio Emanuele con il Duomo insudiciato e le auto che intasano la piazza. Da allora l’atmosfera cittadina si è decisamente alleggerita ma questo non ha inciso sulla visibilità: oggi come ieri, alzando gli occhi al cielo, da Milano le stelle si vedono ben poco. Non c’è di che stupirsene. Sorprende però scoprire come se ne lamentasse già ai primi dell’Ottocento Stefano Carlini, direttore dell’Osservatorio astronomico di Brera: Tròpa lüs. Inquinamento luminoso. E troppi fumi.

 

Nonostante la crescente difficoltà delle osservazioni, fu solo negli anni venti del secolo scorso che la Specola di Brera ottenne una sede distaccata, a Merate. Il telescopio, uno Zeiss, arrivò dalla Germania come riparazione dei danni di guerra. La ditta tedesca approfittò della consegna per presentare i suoi planetari e la città decise di acquistarne uno. L’edificio per accoglierlo, inaugurato nel 1930, fu invece donato dall’editore svizzero di adozione milanese Ulrico Hoepli, al quale ancora oggi è intitolato. Il progetto venne affidato all’astro dell’architettura italiana Piero Portaluppi, che più tardi avrebbe ricordato: «Non era troppo facile cosa trovare in Milano la località adatta per costruirvi un Planetario, una località che fosse inclusa nell’organismo della metropoli e in pari tempo appartata; scoprire quasi una zona di raccoglimento ai margini stessi della vita cittadina che mettesse in grado chiunque, non importa di quale classe sociale, di dimenticare per poco la febbre che spinge ciascuno di noi alla rincorsa folle di un suo particolare tormento e di lanciare il proprio pensiero, senza eccessivi sforzi della fantasia e nella più riposante tranquillità, in scorribande incommensurabili dietro il pellegrinare delle stelle».

 

ph. Giovanna Silva

 

Tutto molto attuale, compresi gli accenti vagamente leopardiani della chiusa: la metropoli si è ingrandita a dismisura, i tormenti si sono moltiplicati, eppure i Giardini pubblici restano, miracolosamente verrebbe da dire, un luogo a parte. Sarà per l’impianto “alla francese” di laghetti, viali e aiuole? Per l’influsso dei baffi rigorosamente ottocenteschi delle statue? Per la patina d’antan di tutte quelle teche museali e seggioline scricchiolanti, così pervasiva da essersi già posata su queste frasi? Difficile a dirsi, ma l’effetto è immediato: basta varcare i cancelli del parco per veder confondersi le epoche.

 

Oggi, quando mi capita di andare in centro, cerco sempre di passare ai Giardini e, stranamente, ogni volta che mi ritrovo davanti il Planetario la prima cosa che penso è come persino agli occhi di un bambino sembrasse piccolo. Allora veniva da chiedersi come facesse a contenere l’intera volta celeste. Era un mistero che mi affascinava. Così come mi affascinava la prima cosa che ricordo di aver imparato sulle stelle, cioè che la loro luce ci arriva anche milioni di anni dopo che si sono estinte. Col tempo però mi sono appassionato alle parole, non alla scienza. Il primo libro da adulti che ho posseduto era un Vangelo che mi avevano dato a catechismo. Lo tenevo chiuso in una credenza della cucina e la sua presenza in casa mi inquietava. Anche lì, avvertivo in modo confuso, era custodito un mistero che per la sua vastità faceva tremare le mura domestiche. Tra il Libro e il Planetario e le sue stelle c’erano alcune similitudini per me piuttosto evidenti. Tanto per cominciare, le parole del Vangelo erano state pronunciate da un uomo che era morto da duemila anni, eppure la loro forza continuava ad arrivare intatta fino a noi. Inoltre, Libro e Planetario avevano entrambi come punto focale il cielo. Lo sguardo era costantemente rivolto lassù. Che quei “lassù” non fossero esattamente la stessa cosa, anche questo in qualche modo lo intuivo, ma non riuscivo a venirne a capo. Il cielo dell’astro­nomia era popolato da corpi osservabili, quello della religione da entità invisibili: Dio, le anime dei morti, gli angeli. Il primo era il cielo fisico, il secondo, lo so adesso, era un cielo metafisico. Era un simbolo.

 

A otto o nove anni la natura dei simboli, diversamente da quella molto più semplice della riproduzione in scala che governa il Planetario, non avrei mai potuto capirla, ma la loro attrazione gravitazionale era ineludibile. Frasi come quelle del Discorso della Montagna – «Beati gli afflitti, perché verranno consolati; beati i miti, perché erediteranno la Terra…» –, così come l’ingiunzione a porgere l’altra guancia, a dare anche la tunica a chi ti leva il mantello, ribaltano il mondo. Anche lassù, o laggiù, nello spazio interstellare, il sotto e il sopra si confondono, si scambiano di posto. In entrambi i casi il metro di misura è, paradossalmente, un’incognita: Dio e il Regno dei Cieli da una parte, l’universo dall’altra. Parlo del Vangelo perché è il libro che mi sono ritrovato in casa da bambino, ma le stesse cose potrebbero dirsi di ogni altra intuizione religiosa. L’uomo, un essere apparentemente finito, sollevando lo sguardo al cielo sente, unico tra le forme di vita conosciute, di essere parte di quella vastità incommensurabile e, in quello specchio oscuro schizzato d’astri, quasi fossero puntini da unire per risolverne il mistero, rimira la propria condizione. Ogni associazione tra la divinità e il cielo nasce da questo stupore primordiale, dal riconoscimento che il totalmente altro in qualche modo ci corrisponda. Eppure, col tempo, qualsiasi religione, tramutandosi come sempre accade in una sorta di sistema, finisce per essere più ristretta dell’anelito e della visione che l’hanno generata. Appesantita dalla propria struttura, ricade sulla terra.

 

ph. Giovanna Silva

 

Parlando di cieli letterali e metaforici, di aneliti e ricadute non posso non pensare a Dante e alla Commedia. Lo stesso Ulrico Hoepli, forse per accreditarsi culturalmente in anni in cui la pubblicazione di manuali tecnici e scientifici era considerata cosa di poco prestigio, ne diede alle stampe un’edizione che ha fatto epoca, quella riveduta nel testo e commentata dal pastore luterano svizzero Giovanni Andrea Scartazzini e rivista dal filologo modenese Giuseppe Vandelli, e una “minuscola” (ne possiedo una copia anch’io), che nonostante le dimensioni non sminuisce la grandezza del poema. La letteratura, va da sé, non conosce la riproduzione in scala. E quando si tratta di vera poesia non esiste dogma che possa limitarne la portata. Un poeta può muoversi nell’orbita dei suoi predecessori, persino seguire una dottrina come fa Dante, ma prima o poi la forza propulsiva della lingua lo porterà, anche suo malgrado, in spazi ancora inesplorati.

 

Al Planetario si parla raramente di queste cose, sebbene non manchino conferenze che trattano il rapporto tra astronomia e poesia, religione, mito e filosofia. Bisogna però fare attenzione al relatore per non trovarsi, come mi è capitato, un Dante o un Leopardi che ci guardino con la stessa espressione svilita delle pantere e delle tigri che da bambino vedevo aggirarsi nelle gabbie dello zoo. Comunque sia, gli incontri che una decina di anni fa avevo cominciato a frequentare, prima da solo e poi con il mio amico Sergio, erano soprattutto quelli sul “cielo del mese”, durante i quali vengono illustrate le varie costellazioni e i pianeti visibili in quel periodo dell’anno. A proposito di Sergio, la prima volta che l’ho portato al Planetario, mentre in sala calavano le luci e sulla cupola si addensavano le stelle, l’ho sentito sussurrare: «Che storia!». Credo che, nella sua laconicità, non ci sia commento più adeguato. Il miracolo dello stupore davanti al cosmo si era rinnovato anche sotto un cielo artificiale. Poi, non si sa bene da quale stella, a Sergio è arrivata una figlia, Sofia – se i nomi non sono solo presagi ma anche agnizioni si trattava di una stella saggia –, e al Planetario abbiamo smesso di andarci.

 

Di quel periodo ricordo una bella conferenza sulle missioni lunari e una sull’esplorazione di Marte. Durante quest’ultima ho imparato che le sonde dirette verso il pianeta rosso orbitano attorno a Venere per prendere lo slancio. Quando ti raccontano queste cose hai la certezza che nulla, neppure la scienza, possa sottrarsi alla metafora: pensi a come ogni impresa umana abbia bisogno dello slancio erotico d’amore e come questo, paradossalmente, porti spesso alla guerra. E se anche la scienza è metafora, allora le concezioni passate sulla conformazione dell’universo non sono poi tutte da buttare. Contengono sempre delle verità, anche se non fattuali; così come le creature leggendarie, arpie e grifoni, draghi e sfingi, non sono meno reali per il fatto che non esistono. L’universo ereditato da Dante – con la Terra al centro e le nove sfere dei cieli che, mosse dalle intelligenze angeliche, le ruotano attorno – era incorruttibile, o meglio, era corruttibile per natura ma reso incorruttibile dalla volontà di Dio. Ora sappiamo che la Terra è un punto infinitesimale in una galassia dall’estensione inimmaginabile e al contempo altrettanto infinitesimale tra non sapremo mai quante galassie, che le sfere non esistono e che non è solo il mondo sublunare a essere in continua metamorfosi, eppure questo non inficia il simbolismo che l’uomo ha riconosciuto nell’apparente struttura dei cieli, perché ciò che vi scorgeva parlava alla sua intelligenza e alla sua anima, che non sono mai cambiate.

 

Le cose che cambiano sono altre. I Giardini pubblici di Porta Venezia ora si chiamano Giardini pubblici Indro Montanelli; nella grande gabbia dei leoni adesso c’è un asilo (i re della foresta hanno ceduto il posto ai despoti delle case milanesi); per scrutare l’universo non basta andare in Brianza ma bisogna salire sulla Cordigliera delle Ande o inoltrarsi nei deserti dell’Arizona; se si vuol sapere dove si trovano, in questo preciso istante, le Pleiadi e Aldebaran, Castore e Polluce, Rigel e Betelgeuse non è più necessario recarsi al Planetario, basta scaricare un’applicazione sull’iPad. Intanto loro, le stelle, il cui numero un tempo ci si chiedeva se corrispondesse a quello degli angeli, sono ancora lì e, sempre più nascoste, continuano a osservarci.

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