Figure dell'araldica / Michel Pastoureau. I colori del blasone

12 Marzo 2018

Tutti noi possiamo avere uno stemma, ce lo assicura Michel Pastoureau nel libro Figure dell'araldica. Dai campi di battaglia del XII secolo ai simboli della società contemporanea, edito da Gallimard nel 1996, ora tradotto da Guido Calza per Ponte alla Grazie. Lo stemma – spiega l'autore – non è mai stato prerogativa esclusiva dell'aristocrazia: si sono contati circa un milione di stemmi medievali, di cui almeno un terzo non appartenenti alla nobiltà, e più di dieci milioni per il periodo compreso tra il Cinquecento e la Rivoluzione francese, diffusi soprattutto nell'Europa centrale. Oltre ai nobili e alla Chiesa che, pur diffidente in un primo momento verso un sistema elaborato al suo esterno, finì per ricoprire di stemmi i luoghi di culto, li adottarono anche le donne, i borghesi, gli artigiani, le città, le corporazioni delle arti e dei mestieri, in certe regioni a volte anche i contadini. L'impossibilità di un preciso censimento permise agli stemmi di adattarsi anche ai nuovi regimi, fino a raggiungere nel Novecento le comunità rurali del comunismo sovietico.

 


Il libro si apre con la definizione delle origini degli stemmi che Pastoureau colloca in un periodo preciso della storia del Medioevo, nei decenni tra la fine dell'XI secolo e gli inizi del XII, tra la prima e la seconda Crociata: essi compaiono nelle battaglie e si definiscono nei primi tornei, per permettere all'araldo che li presiedeva di individuare il cavaliere, reso irriconoscibile per l’armatura e la visiera calata sul volto. Si diffondono poi nelle famiglie aristocratiche e in tutta la società e la loro proliferazione arriva fino al punto di attribuirli ai protagonisti dei poemi cavallereschi e a uomini illustri del passato antico e medievale. Persino Dio ha ricevuto uno stemma: in un manoscritto bavarese viene descritto con una figura a forma di Y, immagine della trinità, e una colomba come cimiero. Il cimiero è la figura simbolica posta sull’elmo o sul casco che sormontano lo scudo: con questo siamo già dentro il linguaggio dell'araldica, di cui si trova in appendice al libro un prezioso dizionarietto che Pastoureau ci invita a imparare per poter leggere definizioni come la seguente: «scaccato d’oro e di rosso, a tre pali spinati di vaio attraversante, quello centrale caricato di una crocetta accerchiellata di porpora» (p. 60).

 

L'autore si concentra poi su alcuni momenti della storia francese che segna una diversa fortuna delle armi rispetto al resto dell'Europa. Nel 1696 venne infatti promulgato in Francia un editto che ordinava il censimento di tutti gli stemmi utilizzati nel regno, per registrarli in unica raccolta: l’Armorial général. Lo scopo era di carattere fiscale e l'obbligo dell'adozione produsse alcuni esiti divertenti: un farmacista bretone si vide difatti recapitare uno scudo con una siringa e tre vasi da notte, mentre un avvocato normanno, di nome Le Marié, fu dotato di uno scudo ornato di un paio di corna. Sarà la Rivoluzione a sopprimere gli stemmi, assieme alla nobiltà, nella seduta del 19 giugno 1790, e il loro ripristino da parte di Napoleone non riuscirà a ridare loro l'importanza di prima.

 

Ma veniamo al blasone, alle regole cioè dell'araldica, che lo storico dei colori illustra nel II capitolo.

La forma non è prescritta, dipende da dove è collocato lo stemma. I colori seguono invece una regola assoluta; innanzi tutto sono sei: oro/giallo, argento/bianco, rosso, nero, azzurro e verde, i sei colori di base della cultura occidentale. Sono divisi in due gruppi – argento e oro da una parte e rosso, nero, azzurro e verde dall'altra; la regola prescrive che non si possano giustapporre due colori dello stesso gruppo. Pastoureau fa l'esempio di uno scudo in cui compare un leone: se lo sfondo è rosso il leone dovrà essere argento (bianco) oppure oro (giallo). Le origini di questa norma vanno cercate, secondo l'autore, non solo nella maggior visibilità degli accostamenti prescritti, ma devono essere indagate all'interno delle trasformazioni della simbologia dei colori nella civiltà medievale. Nell'Occidente dopo il Mille alla triade bianco, rosso e nero – che costituivano i colori fondamentali del mondo antico e dell'Alto Medioevo – si aggiungono il blu, il verde e il giallo, che diventano anch'essi colori di base. Va poi notata la poca o nessuna importanza che l'araldica assegna alla definizione delle tinte da utilizzare: «i colori araldici sono assoluti, concettuali, quasi immateriali: le sfumature non hanno importanza» (p. 28), sono come i colori delle bandiere, che ne riprendono le regole di associazione, e valgono in quanto tali, non per le sfumature e le tonalità che possono assumere. Questo, come scriveva lo stesso Pastoureau nella storia del colore rosso, ha permesso allo storico di dedicarsi a statistiche di vario tipo sull'utilizzo dei sei colori nel tempo e nello spazio, senza dover tener conto di sfumature e di pigmenti (Rosso. Storia di un colore, trad. it. di Guido Calza, Ponte alle Grazie, Milano 2016, p. 74).

 

Un'altra parte del libro è dedicata alle figure che compaiono negli stemmi, tra cui risulta particolarmente stimolante l'analisi del bestiario araldico, in particolare della funzione del leone e dell'aquila che si spartiscono le zone d'influenza in Europa e di cui possiamo vedere l'erede nel logo della casa automobilistica francese Peugeot. L'importanza della scienza araldica non è però solo nella ricerca delle permanenze – un altro retaggio, che davvero pochi conoscono, riguarda i colori dell'Inter e del Milan che risalgono a due quartieri della città nel Cinquecento –, ma soprattutto nell'aiuto che può dare alla ricerca storica, ad esempio nella datazione di importanti oggetti, nella comprensione del ruolo di un personaggio all'interno di una famiglia, nelle genealogie e in molto altro.

 

Nella sezione finale del testo, dedicata ai documenti, accanto a testimonianze, citazioni letterarie e a un excursus sull'araldica giapponese, troviamo un'altra osservazione interessante sui temi della figura e del colore. Pastoureau cita un passaggio dell'introduzione di Pierre Francastel al catalogo di una mostra del 1964 sugli emblemi. Lo storico dell'arte, sulla scorta di Lévi-Strauss, rifletteva sui profondi cambiamenti della nostra capacità di percezione rispetto agli uomini primitivi che a colpo d'occhio scoprivano se in un gruppo di cacciatori e di cani mancava uno dei partecipanti. «L'occhio, frammento della mente» (p. 99) ci permette anche oggi di cogliere nel disegno e nel colore importanti elementi sensibili, simboli significativi non necessariamente esplicitati in precedenza in termini linguistici astratti. Gli stemmi e gli emblemi sono dunque insieme difficili e semplici da decifrare: richiedono un lavoro analitico da parte dello storico, ma colpiscono con immediatezza la nostra sensibilità.

 

A conclusione del libro troverete i consigli per farvi un vostro stemma, semplice ed elegante.

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