Verità del cibo, cucina politica / Il sugo della storia

3 Gennaio 2017

Il cibo, dovunque, è ormai fuori moda. Il discorso sulla cucina, rifreddo, non s’usa più. E la gastromania, diffondendosi, svanisce. I segnali in questo senso sono parecchi, e tutti di maniera: quando una tendenza, vincendo, s’impone, è già pronta per discendere la scala sociale, spargendosi euforica nei ceti meno abbienti, spopolando nelle province low cost, invadendo gli intimi meandri della cultura più pop, per non dire trash. Così, i tinelli piccolo borghesi si riempiono di ricettari etnici, non c’è massaia che non curi l’impiattamento del polpettone di seitan, i supermercati di quartiere traboccano di biologico, si agitano calici olezzanti di rosso d’annata nei bar della piazza di paese, tremebonde televisioni locali zoomano nottetempo su dettagli di pietanze raffinatissime, cupi dietologi prescrivono alimenti dignitosamente ‘senza’, stracchi turisti si inerpicano per sinuosi itinerari eno-gastronomici messi su da ogni comune sotto i cento abitanti, migliaia di gruppi facebook costituiti da ex compagni d’asilo inneggiano al pane e nutella con olio di palma e chissenefrega.

 

La ricerca dell’osteria fuori porta, insomma, l’ha infine trovata: e ne sta facendo le spese, fra scadenti lardi di colonnata, ragù di maialino a stelle e strisce, formaggi normanni malamente imbustati, immangiabili ricette della bisnonna d’ordinanza. Per non dire di chi s’arrischia a prendere la parola, alimentando un discorso sul cibo che non interessa più nessuno: gli opinion leader, o sedicenti tali, alzano il sopracciglio al racconto dell’ennesima cena gourmet; mentre i media vecchi e nuovi sbadigliano cestinando il milionesimo comunicato che annuncia l’evento gastronomico dell’anno da svolgersi in uno sperduto pizzo di montagna appenninica o in un iperinquinato porticciolo siculo. L’ubriacatura gastrosofica ha ceduto il passo all’immancabile hangover, con inevitabili mal di testa e annesse lacrime di coccodrillo. A farne le spese, coi nostri stomaci, è manco a dirlo il cibo, appena uscito dalla glaciazione moderna e subito ricacciato in una mitologia di massa che, glorificandolo a più non posso, ne trascura quella che vorremmo chiamare la sua verità.

 

Ph Davide Luciano.

 

Ossia, molto semplicemente, il suo valore politico.

Di tutto questo Il sugo della storia, nuovo libro di Massimo Montanari (Laterza, p. 192, € 15), non dice nulla. Spigola fra usi delle posate e lasagne bolognesi, etimologie della parmigiana e cromatismi alimentari, maiali-cinghiali e pecore antropologiche, aromi orientali e valore dei semi, uova aristoteliche e gastro-toponimi, tigelle alpinizzate e verdure ripiene. Eppure, sembra non parlar d’altro, e con uno spirito critico verso il nostro presente degno d’estrema attenzione. Montanari, si sa, è uno storico del Medioevo che ha sempre fatto dell’alimentazione (e dunque del nesso tra fame e abbondanza, necessità e gusto) il suo oggetto privilegiato di studi, dimostrando ancora una volta, sulla scia delle Annales francesi (Bloch, Febvre, Braudel, Le Goff, Flandrin…) quanto la cultura materiale – in tutti i suoi aspetti crudeli e silenziosi, quotidiani ed eterni – sia motore essenziale d’ogni processo storico. La sua sterminata produzione scientifica (Alimentazione e cultura nel Medioevo, Storia e cultura dei piaceri della tavola, Gusti del Medioevo, Cibo come cultura, La cucina italiana, Il mondo in cucina…), nondimeno, è sempre andata di pari passo con il suo interesse nei confronti della contemporaneità, portato avanti grazie a una rigorosa capacità divulgativa e una densa attività pubblicistica. Il passato e il presente, nel lavoro di Montanari, si incrociano senza confondersi, diventando uno lo specchio dell’altro, onde evitare – demoni perennemente in agguato – semplificazioni, sviste, errori di prospettiva, rivendicazioni identitarie, pressappochismi, tutti conditi da irritanti fiumi d’ideologia che, diciamocelo, nel settore del cibo largheggiano sempre di più.

 

Il sugo della storia, citazione manzoniana presa alla lettera, si presta così a una duplice lettura; o, per meglio dire, passando attraverso il filtro strategico del dettaglio, prende convinta posizione su quella che, per semplificare, potremmo chiamare post-gastromania. Il dettaglio, ricorda del resto Montanari, nel campo dell’alimentazione e del gusto non è mai tale: “ciò che conferisce personalità a una vicenda non è solo il prodotto principale (…) e talvolta neppure il modo di prepararlo: a renderla inconfondibile è l’ingrediente ‘minore’ che rivela l’identità del piatto”; così, se è la cannella che fa la cucina rinascimentale, è il peperoncino a costituire quella calabrese; ed è l’aroma dell’aglio e del basilico che mancava agli emigrati meridionali d’inizio Novecento. Un tocco di zenzero, come nel celebre film di Tassos Boulmetis, rende politica la cucina. Ci torniamo fra un attimo.

 

Tra i principali bersagli ideologici del libro c’è una serie di temi caratteristici dell’odierno discorso sul cibo, come i miti dell’indiscussa tipicità alimentare, delle presunte origini locali di un prodotto o di una pietanza, del chilometro zero, della ricetta sedicente autentica di contro a quelle considerate taroccate. Con tutto quel che ne discende sul piano della gestione economica e culturale, commerciale e amministrativa dell’identità antropologica d’ogni gastronomia, sia essa domestica e popolare, oppure nobiliare e d’alta ristorazione. Lo sguardo distaccato, oltre che distante, dello storico, di uno storico fortemente permeato da una sensibilità antropologica, non può non ritrovare infatti vecchie idee là dove si invoca la novità, e, parallelamente, ritenere incongrui atteggiamenti e credenze a cui stiamo facendo l’abitudine. Da cui una serie di paradossi ormai all’ordine del giorno. 

 

Andiamo alla macchinetta del caffè in ufficio, e troviamo un certo numero di bevande al gusto di latte, latte macchiato, cioccolato, limone e così via. Che significa? Si sa: ‘al gusto di’ vuol dire che l’ingrediente in questione non c’è, ce n’è solo l’aroma, il ricordo, l’illusione. Da un lato, è un’evidente assurdità, che contrasta con l’idea, antichissima e sensata, secondo la quale ogni gusto indica una proprietà delle sostanze edibili, ogni sapore una loro specifica qualità. Da un altro lato, fra il sapore e il cibo si interpongono tante di quelle mediazioni (psicologiche, culturali, sociali…) da far saltare questo contatto diretto fra gusti e qualità, percezioni e cose. Del resto, la cucina di finzione, così come la macchinetta che dispensa bevande fantasma, prima ancora d’essere trovata da chef stellati (si pensi al chicken di Bottura invocato da una dadolata di verdure), è invenzione popolare che fa di necessità virtù: il pesce finto, il pane senza frumento, le sarde a mare sono ricette popolari, tradizioni che derivano da invenzioni ben riuscite. 

 

Ph Davide Luciano.

 

Il problema, allora, non è rivendicare la realtà ultima delle cose, dura e pura, ma dare all’immaginazione il ruolo che le spetta: sappiamo tutti che quelle bevande ‘al gusto di’ sono surrogati, chiediamoci semmai se non siano cattive, se cioè la loro artificialità non possa magari provocare chissà quale cataclisma al nostro corpo ormai indebolito da troppe sperimentazioni. 

Stessa questione con la famigerata tipicità, questione mercantile ben più che geografica. Sappiano tutti che la parmigiana non proviene da Parma, come del resto il parmigiano, che è nato a Lodi, città sconfitta, a un certo punto nella storia, che ha conseguentemente perduto il diritto di battezzare i suoi formaggi. Così come nessuno si stupisce che gli spaghetti al pomodoro, nostro piatto nazionale, uniscano un prodotto cinese-arabo-siculo con un ortaggio del Nuovo Mondo. Le patate, simbolo di germanità, vengono dalle Americhe. La bevanda nazionale britannica è il tè indiano. E in Usa considerano la pizza napoletana una loro prerogativa, come del resto l’hamburger, polpetta prediletta dei marinai anseatici. Occorre gridare allo scandalo? rivendicare purezze perdute? coccolare digrignando i denti l’erba di casa mia? C’è ancora chi sostiene che gli spaghetti con le meatballs, inventati a Brooklyn, non siano filologicamente roba del nostro Paese. E dunque? Perché piuttosto non rifarli, italianizzandoli e forse migliorandoli? A Bologna, ricorda Montanari, da sempre fanno la guerra agli spaghetti alla bolognese, piatto simbolo d’Italia per i turisti, ma mai mangiato sotto le torri, dove col macinato si consumano semmai le tagliatelle.

 

Sinché un ristoratore locale non ha osato proporli nel suo menù, chiamandoli per giunta, all’inglese, spagetti. Insomma, la cucina non è conservatrice ma traduttiva, importa e trasforma, viaggia e si ibrida, modifica sostanze, propone combinazioni insolite, sperimenta, prima che per curiosità, per bisogno. Il chilometro zero, rivendicato per contrastare la globalizzazione, finisce così per diventare pericoloso etnocentrismo. Trovare tigelle sulle Alpi significa comprendere a fondo che la cucina ha un solo luogo costitutivo: non la casa, come ingenuamente siamo portati a pensare, ma la strada. (Le stelle, ricordiamolo, le attribuisce Michelin).

Osservate con gli occhi di un medievista, molte delle attuali mode gastronomiche fanno allora sorridere, quando non inorridire. Basti pensare al pane nero, oggi très chic, odiato dai contadini del feudo – i quali pure, dovendosene nutrire cercavano a tutti i costi di migliorarlo. O a tutta la questione della naturalità e del crudo, primo comandamento della gastromania in declino e supremo nemico d’ogni elaborazione culinaria, povera o facoltosa che fosse. Oggi mangiamo antipasti a tutto pasto, trasformando il senso temporale dell’ante in un polemico anti; che era proprio quel che facevano i medievali senza risorse, imbandendo la tavola con quel poco che si trovavano in dispensa. 

 

In che cosa consiste allora la cucina politica? Nel ritrovare la verità del cibo, che non è data, direbbero sempre i medievali, da un’adeguazione ingenua fra parole e cose, ma da una gestione consapevole delle trasformazioni storiche dei prodotti alimentari e delle loro metamorfosi culinarie, da una presa di coscienza delle valenze simboliche delle pietanze, da una negoziazione strategica fra identità locali, altre identità locali e momentanee sintesi globali. Per condire bene l’insalata, insegna un’antica tradizione, necessitano quattro persone: un saggio (che dosa la quantità di sale), un avaro (che tiene sotto controllo l’aceto), un prodigo (che sparge olio a piene mani), un matto (che mescola il tutto gioiosamente). Ecco una chiara indicazione di metodo per la nostra sconsolata vita politica.

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