Insipida e farinosa / La patata: tubero a lungo osteggiato

13 Settembre 2017

Nel 1536, dopo essersi aperti un varco nella foresta della valle di Magdalena, i membri della spedizione di Gonzalo Jiménez de Quesada incontrano il villaggio di Sorocotá. Gli indigeni fuggono all’apparire degli spagnoli e questi, entrando nelle case, vi trovano fagioli, mais e “tartufi”. Nel suo resoconto Juan de Castellanos li descrive dettagliatamente: “piante con scarsi fiori viola opaco e radici farinose di sapore gradevole, un dono molto gradito dagli indios e un piatto prelibato perfino per gli spagnoli”. Pochi mesi più tardi la medesima spedizione conquista Bogotà e scopre che il mais e il “tartufo” sono la base dell'alimentazione della popolazione. Due anni dopo, nel 1538, Pedro Cieza de Leon, soldato semplice di un’altra spedizione, un erudito, descrive il vegetale sconosciuto in modo dettagliato. Il suo resoconto, pubblicato nel 1550, è la prima testimonianza scritta della patata.

 

 

Ventitré anni dopo il “tartufo” fa parte del vitto dell’Hospital de la Sangre di Siviglia, città crocevia della sua introduzione. Tuttavia questo tubero, appartenente alla famiglia delle Solanacee, faticherà parecchio a imporsi come alimento in Europa, in particolare in Italia; occorrerà parecchio tempo infatti prima che diventi quello che è oggi: cibo sulle nostre tavole. Gli spagnoli la chiamano papa, o papas, al plurale, parola peruviana di origine quechua. La sua classificazione è prima di tutto botanica; come pianta s’insedia nei giardini reali e negli orti botanici europei. Coltivata dagli indios ha una prerogativa preziosa: prospera sugli altopiani delle Ande, dalla Columbia al Cile. Lì, ai confini con le zone nevose, ad altezze oltre i 4000 metri crescono molte specie di Solanum selvatico da tubero, da cui derivano le nostre patate domestiche. Sostituisce il mais, che non prospera così in alto. Redcliffe N. Salaman, medico ebreo inglese, vissuto tra la fine del XIX secolo e la metà dello scorso, autore di Storia sociale della patata, sostiene che gli uomini hanno incontrato la patata selvatica nei territori elevati come il Collao quando presero ad allontanarsi dalle foreste del Sudamerica: il terrore li aveva spinti a ovest, sempre più in alto, lontano dai pericoli nascosti nella fitta vegetazione. Il cibo giusto è lassù.

 

Le specie sono diverse e coltivate contemporaneamente dalle popolazioni indios. Oggi la maggior parte delle varietà appartiene alla specie Solanum andigenum. Nel 1939 una spedizione scientifica inglese raccoglie nel suo erbario centocinquanta varietà diverse della Solanum andigenum. L’importanza della patata nella cultura dell’antico Perù era tale, scrive Salaman, da essere tutt’uno con i riti sacrificali. Perché non si è imposta subito come alimento in Europa? La prima fondamentale ragione è che è un tubero; vi erano forti pregiudizi verso il fusto sotterraneo della pianta che confinano con la superstizione. Frutto ctonio, per alcuni, aveva però goduto del favore di almeno un ordine religioso: i Carmelitani scalzi. Nel 1584 un frate di nome Nicolò Doria fonda un monastero a Genova ed è probabile che in quell’occasione la patata arrivi in Italia; il suo ordine ne fa già uso quale prezioso dono della Provvidenza. Nel 1653 non risulta ancora coltivata in Inghilterra come alimento, e nella prima edizione dell’Encyclopédie (1751) di Diderot e D’Alembert la voce a lei dedicata non è per nulla lusinghiera: “è insipida e farinosa”. La prima difficoltà è che per piantare le patate non si usano i semi, ma i tuberi, cosa poco consueta nel mondo contadino del Vecchio continente.

 

La seconda deriva dal fatto che all’inizio, e per lungo tempo, ridotta in fecola o pasta, viene proposta come componente del pane. In Italia, in particolare, i fittavoli temono che i proprietari usino le patate in sostituzione degli alimenti cui sono abituati: grano, mais o castagne. Come nota David Gentilcore non era una questione di attaccamento alla tradizione; sostituire un alimento con l’altro “metteva in discussione il concetto di sussistenza per i contadini”. La loro dieta non era flessibile. Sempre in Italia, scrive Vito Teti, la coltivazione delle patate era incoraggiata dai proprietari che consumavano invece pane bianco e dai preti che predicavano ai contadini digiuno e rassegnazione. Nel Settecento la patata diventa essenziale nelle carestie, in particolare nell’Irlanda devastata dal conflitto con gli inglesi; inoltre si è già diffusa nei paesi del Nord che ne diventeranno i maggiori produttori e consumatori nei secoli seguenti. In Italia, spiega Gentilcore, passano ben 300 anni prima che entri nell’alimentazione. Occorreranno tre tentativi successivi. Il primo dopo l’introduzione nel Cinquecento per merito dei Carmelitani. Se dal mais si può ricavare la farina, il peperoncino è spezia più a buon mercato del pepe e i fagioli americani sono accettati in modo entusiastico, la patata, come il pomodoro, richiede nuove associazioni culinarie. Nel Seicento non accade. La seconda volta è nella seconda metà del Settecento.

 

Come alimento contro le carestie non ha rivali, tuttavia alla maggior parte degli italiani pare ancora strano ed esotico, persino ridicolo; è chiamata ancora tartufo, o tartuffolo, fino al XIX secolo inoltrato. Lo propagandano le élite laiche (“migliorava la condizione dei poveri senza minacciare la vita dei ricchi”), mentre i preti si oppongono. Poi, a partire dalla metà dell’Ottocento, la patata si trasferisce in città e diventa una cultura redditizia nelle campagne. S’impone finalmente, con una conseguenza però non positiva, spiega Gentilcore: è la patata a creare lo spopolamento delle nostre montagne nel corso dell’Ottocento, la migrazione; grazie alla maggior disponibilità alimentare che produce, provoca una crescita demografica che l’ambiente montano non riesce a tollerare. Oggi la maggior parte delle patate non è destinata all' alimentazione umana, ma a quella animale, e all’industria che produce alcol e amido. Negli anni Cinquanta compaiono le “patatine all’americana”, mercato in cui è leader la San Carlo, multinazionale a conduzione famigliare; nei Sessanta è la volta delle patate surgelate fritte a bastoncino. Nessuna delle due però sfonda davvero. La patata postmoderna, conclude Gentilcore, ha varie e differenti identità contrastanti: tradizionale, futuristica, urbana, montana, locale, globale, fast food. Oggi la patata è oggetto di tradizioni “inventate” nonostante che il suo ruolo nell’agricoltura italiana continui a declinare. Un fatto curioso: a differenza nostra i cinesi hanno adottato rapidamente la patata. Che siano più recettivi anche nelle novità alimentari? Ipotesi da non scartare.

 

Cosa leggere per saperne di più

 

I semi dell’Eldorado (Edizioni Dedalo) di M. Sentieri e N. Zazzu racconta la storia dell’arrivo delle piante dal Nuovo Mondo. Redcliffe N. Salaman con Storia sociale della patata (Garzanti, ristampata di recente da PiGreco) ha scritto il libro definitivo sulla sua origine e uso; David Gentilcore, Italiani mangiapatate (il Mulino) narra con dovizia di dettagli la storia della patata in Italia.

 

Una versione più breve di questo articolo è apparsa su “La Repubblica” che ringraziamo.

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