Elisa Sighicelli / Storie di Pietròfori e Rasomanti

31 Luglio 2019

È un hortus conclusus quello che accoglie il visitatore presso Villa Pignatelli – Casa della Fotografia, un giardino che ospita ricercatezze botaniche ed elementi architettonici di gusto eclettista. Al centro del parco la villa, con il suo candore neoclassicheggiante, che dopo essere appartenuta agli Acton e poi ai Rotthschild è diventata di proprietà statale nel 1952 ed è oggi una delle poche case-museo e uno dei luoghi più significativi di Napoli. È questa sontuosa architettura a ospitare la seconda tappa del progetto itinerante di Elisa Sighicelli, Storie di Pietròfori e Rasomanti.

 

Untitled (9074), 2018 100 x 80 x 4 cm Fotografia stampata su marmo Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Museo Archeologico Nazionale di Napoli.


Con una scelta coerente, Elisa Sighicelli opta per proseguire il discorso inaugurato con la mostra a Palazzo Madama di Torino, sede nobiliare di fattura squisita, dimora di specchi e di fantasmi dello sguardo, e torna a indagare il tema della materialità della fotografia, muovendosi nella zona liminale che separa images e pictures, l’elemento immateriale dalla sua incarnazione fisica. Il tentativo di far corrispondere il soggetto delle fotografie al loro supporto – nucleo della sua pratica – ci interroga sulla natura delle immagini e aggiunge qui un tassello importante alla sua personale ricerca, grazie a una mostra generosa in termini di pezzi (tutti realizzati ex novo), di suggestioni offerte allo spettatore e di soggetti proposti.

Dopo Doppio Sogno, un altro titolo dal carattere immaginativo: Storie di Pietròfori e Rasomanti. Prendendo spunto dal racconto di Julio Cortazár, Storie di cronopios e di famas, l’artista inventa due lemmi inesistenti ma così evocativi da risultare istantaneamente familiari all’orecchio degli spettatori. Non è dato di sapere, prima di avventurarsi per i corridoi della villa, chi o cosa siano i Pietròfori e i Rasomanti, ma sembra subito plausibile l’esistenza di queste creature fantastiche, il cui nome nasce da una misteriosa funzione a cui sono votate, forse giganti mitologici che si caricano sulle spalle marmi sacri da destinare agli dèi, o negromanti capaci di vaticinare il futuro nei riflessi delle sete. 

L’opera di Sighicelli è rigorosa e allo stesso tempo giocosa, di una giocosità sottile e radicale, e mette in atto un détournement visivo e linguistico partendo da situazioni ordinarie, prelevando attraverso lo scatto fotografico elementi decorativi, opere d’arte e dettagli architettonici da isolare e restituire allo spettatore attraverso un’operazione poetica. Una poesia delle cose che scaturisce da un problema di rappresentazione, che inquieta, sposta, perturba.

 

Untitled (6885), 2019 80 x 100 x 4 cm stampa UV su marmo.


Per la prima volta nel lavoro di Sighicelli questa tensione si rivela in maniera così chiara – forse anche perché inaspettata – e non priva di una sottile forma di violenza. Così sottile da sembrare una semplice suggestione nelle prime due opere, dove viene ripreso un trapezoforo appartenente alla collezione del Museo Archeologico di Napoli, che raffigura un uomo stretto nelle spire di un mostro marino. Le opere mostrano due lati del trapezoforo creando un effetto straniante, il quadro percettivo si confonde e viene suggellato l’ingresso in quel regime di alter-realtà a cui l’artista conduce lo spettatore attraverso le sue “sculture fotografiche”. Solo procedendo nel percorso l’intuizione iniziale si rivela fondata: il rifacimento – o reload, se vogliamo – di un dipinto su carta di sapore pompeiano, montato su vetro e danneggiato, già appartenente alla collezione del Museo, crea un primo punctum nel percorso espositivo. Sighicelli ha fotografato l’opera e l’ha riprodotta su vetro, ricostruendo in maniera mimetica le spaccature dell’originale. Dice che “la violenza è alla base della tradizione figurativa occidentale” ed è proprio lì, nel ratto (come si vede nelle opere della penultima sala), nel sacrificio rituale, nelle immagini delle battaglie che l’iconografia ha trovato il substrato per germogliare e costituire l’albero della tradizione figurativa occidentale. L’erotismo intrinseco all’atto della visione affonda le radici nell’humus della rappresentazione della violenza, ma nei secoli l’arte ha mondato la brutalità, sublimandola. È sempre una questione di linguaggio: di quelle lontane visioni di sangue, oggi rimane solo una labile traccia di cui quasi non abbiamo più cognizione, e della violenza in effige rimane solo un guscio vuoto. Siamo preda di una stanchezza del vedere quando l’arte, ormai priva di qualunque residuo di sacro, diventa cronachistica, quando ricerca l’oltraggio, ma anche quando abdica alla rappresentazione e si rarefà fino a negarsi. Una stanchezza che è vuoto di senso e, in prima istanza, vuoto di forma. Qualcosa invece si risveglia qui di fronte allo zoccolo levato di un cavallo, nelle mammelle come frutti maturi di una divinità femminile, nella tensione muscolare di un soldato. Figure che hanno subìto una rilocazione ma che ci appartengono collettivamente e Sighicelli, come un admonitor, ci indica dove guardare. L’immagine riprodotta può compiersi senza tautologia e rapire il nostro sguardo, trattenerlo, come una possessione. Si sta lì, in attesa che il mistero si sveli, presi dalle immagini che tornano dagli altrove, ed è un viaggio nella memoria visiva collettiva, dove tutto ci è familiare eppure sconosciuto, un vero superimposed, perché non esiste una vera cesura tra le opere, che si legano l’una all’altra e portano avanti un discorso ininterrotto, come un flusso di fotogrammi o come una sola, grande installazione.

 

Untitled (9355), 2018 44 x 42 x 2 cm Fotografia stampata su vetro.


Sighicelli sembra invitarci a cogliere la spina e lasciare la rosa, facendoci avvolgere da un’ambiguità irrisolvibile che pure ci ammalia. Cosa stiamo guardando? Il trapezoforo è un fotografia stampata su marmo, un oggetto dove supporto e immagine si fondono, le venature della pietra traggono in inganno o forse rivelano qualcosa che era invisibile agli occhi, addomesticati dalla consuetudine. Il processo di hypermediacy aggiunge un livello di sofisticazione alle opere, evidenziando la compresenza di media diversi (pittura, scultura, fotografia, stampa etc.) intrecciati, di cui si perdono i confini specifici.

Si percorre la mostra come in un crescendo, non perché le opere siano più efficaci via via che si procede nelle sue otto sale, bensì perché lo sguardo si fa progressivamente più attento. Le opere agiscono come dispositivi spazio-temporali, sussurrano di presenze che tornano a mostrarsi in una sala da ballo dimenticata (il riflesso delle grandi specchiere ossidate della Sala da Ballo della Villa) e a palpitare nei corpi dei guerrieri e delle dee di marmo. Vedere una fotografia è sempre un rivedere, è una traccia di qualcosa che è stato o ancora è, ma sempre necessariamente altrove. Il processo di “ritornanza” presuppone un indugio, una verifica da parte di chi osserva: “la fotografia è un luogo di immagini incerte”, dice Hans Belting, e Sighicelli lavora sulla fertilità propria di quell’incertezza, su quell’indecisione temporale che crea una corrugazione nelle pelle del tempo, un’increspatura che manda alla malora il nostro essere sempre schiacciati sul presente. Forse siamo ancora dentro Doppio Sogno, e Storie di Pietròfori e Rasomanti ne è la naturale prosecuzione, di cui attendiamo il capitolo conclusivo dedicato a Villa Cerruti, altra casa-museo nata dalla passione collezionistica nutrita in assoluto segreto dall’industriale della legatoria Francesco Cerruti. 

C’è un fitto dialogo tra la collezione, l’architettura del luogo e le opere, dalle quali si irraggia una rete di assonanze e rimandi a un mondo di classicità greco-romane e alle loro storie museali, nei catasti e negli archivi dimenticati (figure provenienti principalmente dal Museo Archeologico e dalla Centrale Montemartini di Roma), colte da un’artista che ha una cultura filologica che le permette di scegliere sempre il pezzo giusto e una sensibilità medianica nello scovare il tassello che compone il mosaico della mostra perfetta. Sighicelli ha una capacità di tenere insieme tutto, facendosi curatrice e artista con un rigore che può nascere solo dall’amore. Ed è proprio Eros che aleggia nelle sale bianche del museo, un desiderio cogente di dare corpo a una mèsse di elementi visivi, segni, figure che trovano un posto in un teatro immaginario. 

 

Untitled (7056), 2018 136 x 184 x 4 cm stampa UV su travertino.


Sighicelli racconta di una possessione erotica che è tutta nella pulsione scopica. Gianluigi Ricuperati, nella sua lettera destinata a un giovane artista, la indica come esempio di artista a cui fare riferimento, che nella sua opera “esiste spazio per la gioia del vedere”. Di quali opere ci azzardiamo a evidenziare la bellezza e quanti artisti contemporanei mostrano senza pudore il loro senso per la bellezza? Pochissimi, mi sento di affermare senza rischi di smentita, laddove il bello è stato spinto ai margini del discorso dell’arte, a causa di un malinteso che lo vede antagonista al contenuto (perché le opere devono essere “interessanti” e se lo sono non sia mai che abbiano qualità estetiche...).

Ecco allora il bisogno di dare corpo, o più corpi, a ciò che è immateriale per definizione: “La differenza tra l’immagine e la realtà, dove risiede l’enigma di un’assenza resa visibile, ritorna nella fotografia attraverso la distanza temporale che ricade post factum davanti ai nostri occhi” (H. Belting, Antropologia delle immagini, pag. 161, Carocci Editore). L’enigma di un’assenza resa visibile e tangibile, i riflessi dei vetri della collezione di Villa Floridiana stampati su raso, mossi da impercettibili correnti e dal passaggio dei visitatori, animati, le lastre di marmo e travertino che diventano sculture fotografiche di guerrieri, adoni, ninfe e grazie, fino ad astrarsi e abbandonare anche l’immagine del corpo per la pura linea, il bugnato della facciata della chiesa del Gesù Nuovo che diventa una veduta di piramidi egizie, incise con i segni dei tagliapietre, o la “crema” dei sarcofagi romani, dettaglio di un particolare motivo decorativo curvilineo, immagini che trasmigrano in un gioco eterno di mascheramenti e disvelamenti. Sighicelli dimostra come il doppio non sia incatenato alla tautologia, come l’infrasottile sia in realtà uno spazio vastissimo e come l’esercizio dello sguardo sia prima di tutto forma del desiderio. In un regime di immagini di cui non sappiamo più stabilire la veridicità, indica una strada per riappropriarsi di uno sguardo analitico, curioso, libero, dove risiede quella volontà che plasma il reale un battito di ciglia alla volta. 

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