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Fotogiornalismo / L'America ha sete

28 Marzo 2022

La storia di un fiume che muore è come quella della rana bollita. Nessun colpo di scena reclama l'attenzione. È un'agonia lenta – finché il danno è fatto ed è irreversibile. Se ne sta andando così il Colorado river, uno dei simboli degli Stati Uniti. Da tempo il fiume che incarna la leggenda del West e la magnifica abbondanza della natura di questo paese ha smesso di arrivare al mare. Lungo la cavalcata epica che dalle Rocky Mountains attraversa sette stati e due nazioni, la sua portata cala e lo slancio rallenta finché il gigante diventa un rivolo che evapora sotto il sole cocente del deserto messicano.   

È uno spettacolo che toglie il fiato tanto più che è tutta opera dell'uomo – le enormi dighe che regolano il suo corso; gli impianti che irrigano le sconfinate coltivazioni; gli acquedotti che riforniscono le metropoli di Los Angeles, Las Vegas, Phoenix; la sconsiderata filiera di piscine, fontane e lussureggianti giardini nel cuore del deserto. Ormai da un secolo si attinge a quelle acque come se non ci fosse un domani e il climate change, con temperature sempre più calde e secche, ha precipitato la situazione. La realtà ora presenta il conto ed è così alto che rischia di mandare gambe all'aria l'intero paese.

 

Il Sudovest è un osservatorio perfetto per intercettare l'esperienza del cambiamento climatico e qui ci conduce Acque d'America (Jaca Book, 200 pp.), il nuovo lavoro della fotogiornalista Daria Addabbo, in una serie di immagini scattate tra California, Arizona, Nevada, Oklahoma, New Mexico e Texas accompagnate dai testi preziosi dell'americanista Alessandro Portelli.

Addabbo, che ha già ripercorso il viaggio dei protagonisti di Furore lungo la Route 66 in Sulle tracce di Tom Joad (2015), conosce bene questa parte del paese e racconta con intelligenza e passione la nuova grande ingiustizia segnata dall'acqua che più dei muri oggi contrappone in modo drammatico territori, comunità, razze. 

 

 

Fotografare la crisi climatica non è difficile, come nota nell'introduzione il giornalista Ferdinando Cotugno. L'incendio, l'allagamento o la desertificazione hanno un'evidenza che si impone e va a costruire la dimensione della cronaca. "La parte difficile è un'altra: documentare i suoi effetti sulla mente e, oserei, sull'anima degli esseri umani, la loro relazione con gli ecosistemi compromessi". 

Acque d'America si spinge in questo groviglio emotivo e ritrae la sete degli americani e del suolo, la difficoltà di sperimentare nel giro di una vita cambiamenti da era geologica, l'indifferenza e le inerzie, gli egoismi e le povertà. È un paesaggio abbacinante di piscine e deserti, cittadine abbandonate e grattacieli, campi da golf e distese di asfalto, motel in mezzo al nulla e profonde solitudini. 

Alessandro Portelli ne dipana i significati intrecciando il piano simbolico, culturale, economico e politico. Dall'acqua come "elemento repubblicano", metafora di uguaglianza e mobilità sociale, di cui scrive Melville in Benito Cereno, dall'acqua che scorre libera nelle canzoni di Springsteen, si vede così prendere corpo la visione opposta. L'acqua diventa bene commerciale privato e risorsa militare-economica che "a ogni confine incontra una barriera o diventa essa stessa una diga invisibile che impedisce il libero scorrere degli esseri umani. Tutt'altro che un elemento repubblicano". 

 

 

A lasciarsi distrarre dal mito della frontiera, è facile dimenticare che la conquista del West è anche la storia dell'addomesticamento dell'acqua. Lasciata a se stessa, l'acqua è considerata inutile, improduttiva. È uno spreco intollerabile, tanto più in territori desertici. "Sarebbe un insulto – scrive a proposito del fiume Columbia un geologo governativo a fine Ottocento – se quel gran corso d'acqua dovesse andare a sperdersi nell'oceano in oziosa maestà e bellezza". E se c'è qualcosa che l'America adora è la produttività. L'acqua è dunque imbrigliata e messa al lavoro, gli insediamenti fioriscono e l'intera impresa profuma di moralizzazione. 

È un sovvertimento radicale della natura e delle sue regole che in nome del progresso cancella le pratiche che nei secoli hanno consentito ai Nativi americani di vivere in quelle terre e coltivarle. Un'occupazione massiccia di territori che si traduce in progetti mastodontici e città che oggi crescono a ritmi da capogiro – prima fra tutte Phoenix, la città-incubo descritta da DeLillo in Underworld

 

 

Complici il cinema e un'industria turistica miliardaria, l'immaginario associa il Sudovest alla natura più selvaggia e incontaminata ma pochi ambienti sono più antropizzati e il luogo migliore per rendersene conto è l'enorme Diga di Hoover, edificata negli anni Trenta al confine fra Nevada e Arizona, che regola il corso del fiume. 

Quel colosso di cemento è "il monumento di una fede malriposta", come lo definisce Joan Didion in uno dei suoi saggi più celebri, At the Dam (1970). Segna l'inizio e la fine dell'illusione di piegare il mondo naturale alle leggi del desiderio umano senza pagare un prezzo. "Il miraggio più ingannevole e duraturo è quello di poter vivere e coltivare su queste terre senz'acqua come se l'acqua ci fosse e non dovesse finire mai. O dovesse arrivare sotto forma di un miracolo, la pioggia come lacrime di Dio", scrive Portelli. 

 

Assetato e arido, il Sudovest americano racconta la parabola di questo fallimento che oggi minaccia la sua stessa esistenza. A fine gennaio l'area è entrata nella siccità peggiore che si registri in America da 1200 anni. Non è mai stato così caldo e così secco. E lo sfruttamento delle risorse idriche ha raggiunto livelli di guardia. Il livello del Colorado è sceso del venti per cento; a Lake Powell e Lake Mead, i grandi reservoir che riforniscono le città, l'acqua è calata al punto che come nelle vasche da bagno si vedono il segno dei livelli precedenti. L'Ogallalla, l'immensa falda acquifera sottostante, anch'essa sfruttata all'inverosimile, è avviata all'esaurimento. 

 

 

I progetti per risolvere la crisi si sprecano. Si parla di desalinizzazione per recuperare acque oggi inutilizzabili, di coperture per i reservoir così da evitare l'evaporazione che l'aumento delle temperature rende sempre più sostenuta e perfino di convogliare in zona una quota delle acque del Mississippi, che con le sue piene micidiali rappresenta il problema opposto al Colorado. Basta una carta geografica per apprezzare il senso della sfida.

Senza un'inversione culturale ogni piano è però destinato al naufragio. Le contraddizioni che mettono in ginocchio il Sudovest sono tante e paradossali. In California l'85 per cento dell'acqua è usata per l'agricoltura (il 3 per cento dell'economia) e uno dei prodotti di punta, l'alfalfa usata come foraggio, finisce per lo più in esportazione. A Las Vegas il 70 per cento dell'acqua bagna prati, parchi e campi da golf; a Tucson e Phoenix le piscine sono così comuni che muoiono più bambini affogando che per incidenti stradali o armi da fuoco. 

 

 

La storia non si ripete ma fa rima, diceva Mark Twain. E in questo caso il rimando arriva, forte e chiaro, dagli anni Trenta e dalla catastrofe ecologica del Dust Bowl, una delle peggiori nella storia degli Stati Uniti. Le spaventose tempeste di sabbia che hanno devastato l'area delle Grandi Pianure, causando morti, miseria e l'esodo di tanta parte della popolazione, non esprimono la rabbia di Dio come allora in tante chiese si è predicato, ma la logica perversa di un profitto spinto all'estremo. 

I fattori che le hanno alimentate sembrano uscire dalle pagine del giornale di oggi – un'agricoltura aggressiva di tipo industriale; abuso di pesticidi e fertilizzanti; sistemi intensivi di irrigazione; deprivazione delle falde acquifere; una siccità prolungata. La differenza è che quella siccità impallidisce davanti a quella in cui ci troviamo e tante delle risposte che allora hanno restituito speranza agli agricoltori sono fuori discussione, se non sono addirittura diventate parte del problema.

 

 

Gettare uno sguardo indietro non regala risposte ma aiuta a riflettere. In queste settimane sono tornata a Furore (1939), la grande narrazione di quegli anni. Ho sempre amato Steinbeck, il suo occhio per i dettagli, la sua umanità, il suo sentimentalismo. Riletto alla luce dell'oggi, quel racconto sorprende per la sua attualità e stringe il cuore. Quante famiglie Joad ancora imboccano disperate le strade del mondo perché i loro raccolti sono diventati impossibili? Quanto ancora pesa la stretta antisindacale sulle condizioni brutali dei braccianti nei campi? E qual è la via per sottrarre la terra a un'economia che la sfarina in polvere? 

 

Ho accompagnato quelle pagine al magistrale documentario di Ken Burns The Dust Bowl (entrambi gli episodi si trovano su youtube) e il cerchio si è chiuso sotto i miei occhi. Quelle distese ondulate di dune – che non sono sabbia ma terra secca e sporca – ricordano certe immagini che oggi vengono dall'Arizona dove perfino gli Hopi, da secoli maestri nel coltivare il deserto, ormai faticano a sopravvivere. Quella desolazione è la meta che ci attende. Quando arriverà forse non ce ne accorgeremo. È la storia della rana che bolle a morte – un'apocalisse lenta. Se non che la faccenda della rana è tutta una metafora: nella realtà c'è sempre tempo per saltare fuori e mettere in salvo la pelle. 

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