Welcome into the Sweet Home Europa

23 Aprile 2015

Michele Di Mauro arriva con il cinguettio degli uccelli, mentre il fumo bianco si dirada, e sembra che anche lui stia cinguettando, esce da una delle tre porte di ferro che Fabrizio Arcuri ha fatto costruire sul palco del Teatro India per la sua messinscena di Sweet Home Europa di Davide Carnevali: l’Uomo della pièce, il cittadino (e il proprietario) della casa-Europa, ha l’aria sicura di se stesso e dello spazio che attraversa ma viene da un’oscura galleria che ricorda il binario morto di una metropolitana o quello di una vecchia miniera. Figura più epica e lontana, Matteo Angius, l’Altro uomo, arriva sull’altro lato issato su un carrello come una statua derisoria. Poi dalla porta centrale avanza Francesca Mazza, la Donna, si erge impettita dietro un tavolo già apparecchiato, stranamente regale nella sua divisa da cameriera. Sulla sinistra l’immagine di un albero finge un giardino e in un angolo della parete di fondo è proiettata in bianco una didascalia. «L’Uomo e l’Altro uomo in un grande giardino, pieno di fiori e piante. Il cielo è blu, il sole splende. I passeri cinguettano felici».

 

ph. Valeria Tomasuolo

 

Sweet Home Europa è una mano che si schiude liberando più immagini di quante la sua scena in effetti ne contenga: c’è un Eden schiacciato sulle porte dell’inferno – che è una cattedrale di ferro pronta a rigurgitare scorie di ogni tipo – dal quale tutto prende inizio, ma è un Eden privatizzato dove si viene accolti da ospiti di una cena d’affari e si finisce trattati da servi. È un’immagine della terra da cui si esce, scacciati, e della terra, promessa, verso cui ci si incammina, magari dimenticando che qualcun altro l’ha già occupata prima di noi: la genesi e l’esodo del sottotitolo di questa prima parte del Dittico (pubblicata da Cue Press), intrecciati tra loro da quella relazione ambigua che domina tutti gli slittamenti, i corsi e i ricorsi, le ripetizioni e le fughe sui quali il testo scivola e nel contempo si avvita come un canone dove le variazioni, invece di riprendere il tema, lo disperdono.

 

ph. Valeria Tomasuolo

 

La somiglianza (e non il gioco speculare tra l’identità e la differenza): questo è il problema. Se tutti gli uomini e tutte le donne, come scrive Carnevali, “si assomigliano un po’”, il loro essere e non essere il medesimo e l’altro, l’uomo e l’altro uomo, li terrà sempre alla stessa distanza, come quella mano tesa, ora dall’uno ora dall’altro, che in scena non viene mai stretta, perché Di Mauro e Angius si ritrovano a parlare sui due lati di una specie di nastro di Moebius e quando sembra che si stiano per toccare, si mancano e si allontanano. Così il cinema della realtà finisce per proiettare ombre ogni giorno diverse sulla tela forata di questo caustico affresco dove la “Storia universale” è stata tolta per essere sostituita dagli ottusi idioletti in cui il suo stanco ripetersi si incanta: nei giorni del debutto forse sarà stato il coltello dell’Isis a lampeggiare nella parodia di plastica che l’Altro uomo avvicina di colpo alla gola del suo antagonista; oggi, inevitabilmente, sarà l’immane naufragio di novecento nostri simili ai confini smarginati dal mare di una “casa Europa” per nulla dolce a illuminare con una luce atroce il canotto di plastica su cui Angius precipita e si ribalta sulla scena di Sweet Home Europa.

 

Nessuna profezia, ovviamente, se non quella classica che, come Carnevali sembra sapere, è rivolta al passato, che nei suoi vuoti accoglie e amplifica il troppo pieno del presente. Nessuna origine, o identità autentica, se non quella che il linguaggio continuamente manipola e tradisce con i suoi giochi su una scena dove il potere torna a indossare le maschere usurate del simbolico (il nano brutto e vecchio della teologia, come avrebbe detto Benjamin, si nasconde nella macchina moderna del consenso) e il senso slitta nell’inafferrabile parossismo dell’assurdo o della fiaba. La violenza del reale preme sotto i vari miti di fondazione che l’Uomo e l’Altro Uomo si rimandano uno con l’altro a forza di tormentoni, di frasi ripetute che, passando di bocca in bocca, cambiano di significato: la stessa storia raccontata, e distorta, in diverse versioni, la stessa genesi, lo stesso esodo – ma anche gli stessi branzini e le stesse zucche – uniscono e dividono le genti che si affacciano indifferentemente sullo stesso mare o sulla stessa pianura.

 

ph. Valeria Tomasuolo

 

Di fisso in questa trasmutazione entropica, vorticosa, restano le relazioni di potere e il dolore di chi le subisce comunque – poiché anch’esse, tanto più si assomigliano quanto più appaiono lontane – a cominciare dalle donne, da tutte le donne alle quali dà vita Francesca Mazza, silente cameriera, madre velata di non si sa quale tradizione (musulmana, mediterranea, balcanica), insegnante insidiata o sedotta dal fascino esotico dell’altro, infine moglie abbandonata dal migrante e che in sua assenza ha cambiato uomo: a lei, isolata e ritornante nella sfida maschile dei Padri e dei Figli – nello scontro dei monoteismi patriarcali – l’autore ha regalato l’unico vero monologo e l’unico squarcio lirico che rompa la musica distante del suo testo con un limpido stillicidio di versi che, letteralmente, cadono, sgocciolano dal centro indicibile del corpo. Semisdraiata su uno scrauso divanetto, Francesca Mazza ne dice la dolente litania a gambe divaricate, nell’oscena postura dell’Origine del mondo di Courbet ma riveduta e coperta (cioè esaltata) dalle mutandine azzurre cerchiate dalle stelle gialle dell’Unione Europea che l’artista serba Tanja Ostojc ha imposto alla modella di una sua rivisitazione fotografica del 2004 di quest’opera fin troppo famosa. Con un effetto straniante per lo spettatore, diviso tra la testa che dice – il viso di Francesca Mazza, quest’altra nudità a cui il lenzuolo di Courbet è stato fortunatamente risparmiato – e il ventre che sembra sussultare sotto quel cerchio di dodici stelle che lo espone come un bersaglio.

 

È soltanto una delle tante immagini che si staccano da uno spettacolo che Fabrizio Arcuri governa in nome di un’evidente affinità tra i propri dispositivi teatrali e il dispositivo letterario di Davide Carnevali. Con una mano il regista romano accende le sue macchine celibi e il suo montaggio delle attrazioni: accoglie lo spettatore gettandogli fumo negli occhi, fa esplodere il soffitto con una catastrofe di macerie – ma sono relitti di gommapiuma dell’era della plastica, più degni di una discarica che del crollo di Gerico della fortezza Europa – fa piovere apocalittici pesci di gomma dura, veste Di Mauro da dio con la barba bianca e il copricapo triangolare d’ordinanza dell’immaginario catechistico. Tutti apparati ludici e ammiccanti destinati a velare e a rivelare il gioco serio del teatro che l’altra mano ha nel frattempo ordito nell’invisibile dosando l’orologio di una recitazione impeccabile, mai prima d’ora così esatta e così efficace nell’aderire al testo e ai suoi riflussi di lingua e di pensiero. Con un Matteo Angius, l’attore-icona di Arcuri, che finalmente trova un equilibrio, una pace al suo gesticolare esitante trasferendolo dal manierismo in cui rischiava di naufragare a una capacità nuova di trattenere e di prolungare le parole nei gesti e nel corpo: attore-paesaggio, perfettamente a suo agio nell’interpretare l’altro, figura in continua transizione di sentimenti oltre che di stato civile. E nel regolare la propria relazione con quell’altro dell’altro che sulla scena di Sweet Home Europa è Michele di Mauro che dal nucleo duro dell’identità evolve con sorniona maestria nelle sue diverse incarnazioni fino all’esplosione drammatica, quasi non voluta, in cui il padre rivela al figlio, mentre pescano sull’orlo di un abisso, la verità su ciò che le menzognere leggende della tradizione si affannano a nascondere. Nuda verità da vecchia scuola materialista: “La morale è che se ti costringono a lasciare la tua terra c’è qualcosa sotto”.

 

ph. Valeria Tomasuolo

 

Altrettanto puntuali gli inserti musicali dei Marlene Kuntz e i songs di NicoNote che, a metà tra la sontuosa dea madre e l’angelo brechtiano, avanza verso il pubblico su una poltrona rossa trainata sui binari, come se uscisse da un carillon. Una signora dall’aria severa, mescolata al pubblico che dalla sala A dell’India, appena riaperta, rifluisce nella primaverile notte romana, sentenzia che Sweet Home Europa “non sembra uno spettacolo italiano” (e sì che invece sono tutti italiani, attori, musicisti, allestitori, regista, anche l’esule Carnevali, più conosciuto al pubblico di Barcellona e di Berlino che a quello di Roma o di Milano, scrive decisamente in italiano, solo con quella purezza che spesso viene dall’immersione in altre lingue). Finalmente in Europa, dunque. Peccato che l’Europa, nel frattempo, si stia dissolvendo attorno a noi. E che dalla sponda delle sue stanche utopie spuntino soltanto i promontori dell’orrore che nessuno ha veramente il coraggio di guardare in faccia. I deserti avanzano, come dice una didascalia di Sweet Home Europa. Stanno divorando anche il giardino.

 

 

 

In scena al Teatro India di Roma fino al 26 aprile.

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