Sul concetto di patria / Heimat. Letteratura e migrazioni

10 Ottobre 2016

Abel Nema, il protagonista del romanzo di Terezia Mora, Alle Tage (Tutti i giorni traduzione di Margherita Carbonaro, Mondadori, 2009) uscito in Germania nel 2004, è un profugo jugoslavo caratterizzato dalla sua impermeabilità al mondo. È, a tutti gli effetti, più che uno straniero, un estraneo. Il suo nome è “Nema, il muto, (…) o per dirla altrimenti: il barbaro”. Proprio perché, sempre citando Mora, come ogni migrante ha bisogno di due cose, “lingua e documenti”, Abel di lingue ne impara dieci, che arriva a conoscere alla perfezione, ma che non usa mai nella comunicazione quotidiana: le sue sono lingue astratte, senza “luogo” di riferimento. Personaggio barbaro perché spurio, alieno alla comunità, Abel incarna la scelta di una necessaria aterritorialità che mette in crisi l’idea stessa di ‘integrazione’. Un tema che ritorna anche nell’ultimo romanzo di Mora il cui protagonista abita “un ovunque globalizzato”.

 

 

 

La mancanza di orientamento, l’impossibilità di relazione, la messa in crisi dello spazio collettivo che caratterizzano Abel Nema connotano la nuova letteratura tedesca transnazionale, incarnata da scrittori ‘etnicamente inautentici’ come Mora (di origini ungheresi ma di minoranza linguistica tedesca) e, contemporaneamente, sono indicatori di un diffuso ‘sentimento del tempo’. 

 

A questa messa in crisi nella letteratura globale dell’idea di Heimat, che in tedesco indica non solo il paese natale ma anche il legame affettivo con esso, rispondono paradossalmente i rigurgiti neonazionalisti sfociati nelle grandi manifestazioni del movimento ‘Pegida’, nei reiterati attacchi ai rifugiati e, di recente, nei successi elettorali dell’AfD (Alternative für Deutschland), soprattutto nei nuovi Bundesländer, i cinque Länder aggiunti alla Repubblica federale dopo l’unificazione. Perché, come afferma lo scrittore Michael Kraske in una sua bella presa di posizione dopo le elezioni in Meclemburgo-Pomerania, a chi ormai non ha che un’identità debole non resta che l’amore per la piccola patria, per la Heimat da difendere non solo contro lo straniero, ma contro chiunque a essa sia estraneo. Quindi non è un caso che soprattutto in questi Länder la crisi innestata dal massiccio arrivo di rifugiati e dalla sorprendente svolta nella politica di accoglienza, voluta da Merkel l’anno scorso, abbia avuto gli esiti più drammatici. Qui, dove è rimasta sospesa la questione di una ‘integrazione’ infratedesca, dove l’identità nazionale è profondamente conflittuale, la disponibilità all’accoglienza si è scontrata con la richiesta di un riconoscimento di appartenenza: “Siamo noi il popolo!”, è praticamente l’unico slogan che gridano i manifestanti nelle loro regolari manifestazioni del lunedì a Dresda, che sono costate alla città un notevole calo di turisti e un regresso nelle postazioni di eccellenza di università e istituti di ricerca. 

 

Kraske, che è nato in Renania ma vive a Lipsia (Sassonia), ha pubblicato quest’anno presso una casa editrice di Greifswald (Meclemburgo) dall’ indicativo nome Freiraum, spazio libero, un romanzo in cui, attraverso la storia di una famiglia di Amburgo che si trasferisce nella provincia sassone, racconta proprio quanto sia difficile il processo di integrazione tra le due Germanie.

 

 

 

Nel documento post elettorale pubblicato sul sito della casa editrice, sottolinea la pericolosità dell’AfD e ne riconduce le radici storiche al nazionalismo völkisch, emerso durante la Repubblica di Weimer, che alle “ragioni della democrazia” opponeva presunte “ragioni del popolo”. Il disprezzo per la democrazia parlamentare è, anche oggi, insieme al ritorno all’ideologia del ‘sangue e suolo’ il denominatore comune tra il neonazionalismo völkisch e il cosiddetto ‘Movimento identitario’, formazione etnico-nazionalista parzialmente inglobata nell’AfD e strettamente collegata ai neonazisti della ‘Nuova destra’. È un panorama, sostiene Kraske, che è anche giornalista per ‘Stern’ e ‘Die Zeit’, solo apparentemente frantumato e marginale, perché fra tutte queste organizzazioni esistono reti di collegamento e inoltre chiare connessioni sia con l’NPD che con il movimento Pegida, entrambi solo apparentemente estranei all’AfD. Non può dunque veramente rincuorare il dato che l’NPD, partito nazionalista militante dichiaratamente violento già presente nelle amministrazioni locali soprattutto nei nuovi Länder, abbia perso moltissimi voti, ovviamente passati all’AfD. 

Il punto è che il Meclemburgo-Pomerania sembra lontanissimo da Berlino, dimenticato da Angela Merkel, politica ‘traditrice del popolo’ che pure in Pomerania avrebbe la sua circoscrizione elettorale. È una regione povera con paesi poveri, come quello inventato dallo scrittore pomerano Uwe Johnson nel suo fluviale romanzo Jahrestage (1970-83), per cui è difficile rintracciare un modello concreto, visto che qui i paesi si somigliano più o meno tutti: “ Una manciata di case basse di mattone rosso lungo una strada acciottolata”.

 

 

(Nel frattempo molte strade sono state asfaltate).

 

 In questi paesi spesso abbandonati a se stessi, le organizzazioni di estrema destra riempiono le falle del sistema di assistenza sociale e dell’inesistente offerta culturale, appropriandosi dello spazio pubblico e dominando la comunicazione collettiva, come racconta subito dopo le elezioni regionali il fondatore della Freiraum, Erik Münnich. Negli anni sono state sacrificate organizzazioni e istituzioni, sia per operazioni di tagli di spesa che per ritardi o inefficienza, ma, in primissima istanza, per disinteresse, come ha dimostrato la campagna elettorale dominata dalla propaganda di estrema destra: persino a Greifswald, città di media grandezza, Münnick ha contato nel suo quartiere solo due o tre manifesti della CDU e dell’SPD su venti dell’AFD e dieci dell’NPD. 

Il disinteresse è spiegabile anche per lo scarsissimo peso demografico di questa regione che è grande quanto la Lombardia, ma ha lo stesso numero di abitanti delle Marche (1,6 milioni). Come negli altri nuovi Bundesländer, uno dei problemi più gravi è quello dello spopolamento. Persino in Brandeburgo, che circonda Berlino e che dunque è parzialmente inglobato nella città regione in costante crescita attorno alla capitale, si combatte per trovare insegnanti, medici e farmacisti; i giovani, soprattutto le donne, emigrano, le nascite sono in calo. Il cantautore e cabarettista politico Rainald Grebe in una sua nota canzone, Brandenburg, ironizza: “Quattro tristi neonazisti/ non sanno più che cosa fare/ non è rimasto nessuno da menare”.

 

Il Meclemburgo-Pomerania e la Sassonia-Anhalt sono i Länder più problematici in questo senso: si cerca di arginare l’emorragia fino ad arrivare a stratagemmi come quello dell’Università di Greifswald, stupenda città anseatica che, oltre a facilitazioni nella ricerca della casa, offre un gettone di benvenuto a tutti gli studenti disposti a trasferirsi nella Pomerania tedesca. 

Certo, le vittorie dell’AfD non sono un fenomeno esclusivo dei nuovi Bundesländer (persino a Berlino L’AfD è arrivata al 14 per cento – 30 percento nella parte Est della città) né lo sono esclusivamente gli episodi di xenofobia: quello che però in questi Länder rende la situazione più grave è la scarsa reazione della società civile, il clima di intolleranza accettato passivamente, ormai parte della realtà quotidiana. Così nell’ultimo ‘Rapporto annuale sullo stato dell’unificazione tedesca’, pubblicato proprio in questi giorni, benché si enumerino una serie di dati positivi – economia in crescita (ma il PIL pro capite è di circa trenta punti sotto quello dei vecchi Länder), disoccupazione in regresso, infrastrutture in espansione, il governo esprime forte preoccupazione per lo sviluppo socioeconomico delle regioni orientali. 

 

In ogni modo, sia la crescita della violenza xenofoba che il successo dei partiti razzisti hanno poco a che fare con le ultime ‘ondate’ di rifugiati, che nei nuovi Länder sono molto pochi, in Meclemburgo attorno al 2 per cento della popolazione. In numeri assoluti, nel 2015 sono arrivate 150.000 persone nei cinque Länder orientali, di cui circa due terzi rifugiati che richiedono asilo politico. Tuttavia questo fattore potrebbe essere determinante nella costruzione di un razzismo vuoto, pericoloso proprio perché, come l’antisemitismo, offre una superficie di proiezione per le paure di una maggioranza debole nei confronti di una minoranza tanto più minacciosa quanto più invisibile. Come del resto dimostra bene Pegida, acronimo di ‘Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente’: intervistati, i protagonisti di questa crociata antislamica nata a Dresda ammettono candidamente di non aver mai visto un musulmano in carne ed ossa.

 

Esemplare per questo clima intimidatorio è il caso di un altro rappresentante della letteratura transnazionale di lingua tedesca, lo scrittore iraniano Abbas Khidder, dal 2000 in Germania, il quale ha dovuto disdire tutte le sue letture pubbliche nei nuovi Länder a causa della minacce ricevute. Una capitolazione tanto più amara, visto il tema del suo ultimo libro, uscito quest’anno, Die Ohrfeige (Lo schiaffo), la cui grottesca cornice narrativa, benché ambientata all’inizio degli anni 2000, presenta una chiara metafora dell’oggi. Quando, dopo tre anni e mezzo di attesa, gli viene negato il permesso di asilo, il rifugiato iracheno protagonista del romanzo assesta uno schiaffo all’impiegata nelle cui mani è stato riposto il suo destino e, dopo averla legata e imbavagliata, la costringe ad ascoltare la storia non solo della sua fuga, ma dei suoi sconcertanti pellegrinaggi tra le istituzioni tedesche. Storia che, proprio là dove sarebbe stato utile e necessario, gli estremisti di Pegida e AfD hanno impedito venisse ascoltata. 

Secondo Byung-Chul Han, filosofo coreano formatosi in Germania, Pegida soddisferebbe il bisogno di riversare il conflitto sociale, internalizzato e vissuto come mancanza e insufficienza soggettiva, su un altro diverso da sé. Si aprirebbe allora uno spazio immaginario in cui poter realizzare il proprio desiderio identitario. Non è un caso, sostiene Han, che i rituali cortei di Pegida siano quasi del tutto silenziosi. Nessuno scandisce slogan con richieste concrete o obiettivi politici perché quello spazio immaginario non deve essere turbato o contaminato da ciò che è reale. 

 

Incatenati ai loro fantasmi, questi manifestanti e i rappresentati dei partiti di estrema destra sono stati i protagonisti mediatici della stagione seguita al fallimento, almeno parziale, della cultura dell’accoglienza. I confini temporaneamente aperti verso l’esterno hanno riconfermato quelli interni, producendo una lacerazione nazionale. Nel più noto programma satirico della televisione di stato, dopo le ultime elezioni si critica il partito di Merkel, la CDU, perché ha voluto aprire a tutti i costi le frontiere e si chiede alla cancelliera di ammettere finalmente: “Nel 1989 abbiamo fatto un grande errore”. Infine si propone di consegnare a quelli che vogliono ‘ Una Germania solo per tedeschi’ quei Länder in cui le destre razziste e xenofobe sono più forti. Fatti i conti, ne risulta una cartina con una rinata Repubblica democratica, ribattezzata DDR nel senso di ‘Germania delle Destre’ (Deutschland Der Rechte,). 

 

 

Eppure proprio in questa ‘Germania delle Destre’ Saša Stanišić , profugo bosniaco arrivato quattordicenne in Germania, ha ambientato nel 2014 il suo intenso romanzo corale Vor dem Fest (Prima della festa), uno dei più bei libri degli ultimi anni. Un piccolo paese in una regione remota del Brandeburgo è diventato per questo giovane scrittore un luogo di riconoscimento: scritto nella prima persona plurale, il romanzo ricostruisce in una pluralità di voci e prospettive i destini di una piccola comunità immersa nel flusso dei suoi racconti e delle sue favole. In questo immaginario paese tagliato fuori dalla storia, Stanišić, scrittore dall’identità nomade ma che rifiuta di considerarsi scrittore migrante, ha trovato il ‘luogo’ di una possibile identificazione, quel luogo che mancava a tutte le lingue del protagonista del romanzo di Mora: un microcosmo mitico che potrebbe essere in Germania come in Bosnia, in un ‘ovunque’ non globalizzato che annuncia carte geopolitiche ancora inedite.

 

Loscrittore Saša Stanišić © Katja Sämann.

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