La palma d’oro a Cannes / Titane, sovversivo classico

4 Novembre 2021

La critica non si lasciò [...] ingannare, quando Degas espose la propria Petite danseuse de quatorze ans alla Sesta mostra degli impressionisti. La facies della modella corrispondeva alle descrizioni che la «scienza» andava facendo del tipo cranico degenerato, caratterizzato da angolo facciale acuto, mascella sporgente, zigomi prominenti, fronte assente – lineamenti a cui erano associate, nella fantasia popolare, l’ignoranza e la bestialità delle classi pericolose. [...] Degas aveva apportato alla propria modella, Marie van Goethem, un cospicuo numero di modifiche, per meglio aderire allo schema lombrosiano del delinquente nato e fare di quella ballerinetta non un «topolino», come venivano chiamate le giovani allieve dell’Opéra, bensì un animale vizioso uscito dalle fogne unicamente per diffondere la peste tra la buona borghesia”.

 

E. Degas, “Petite danseuse de quatorze ans”, 1880-81.

 

Così Jean Clair, nel saggio L’anatomia impossibile. La ballerina lombrosiana di Degas prende forma nel 1881: quattordici anni dopo viene inventato il cinema e nasce la psicoanalisi. Nel frattempo, in pittura, si manifestano corpi con nuove forme. Deformi, anticlassici, malati, contorti, da Klimt a Segantini il corpo viene posseduto dalle forme dell’isteria, da Schiele a Picasso l’anatomia esplode, gli arti si rincorrono, le identità si confondono. La scienza fornisce un nuovo repertorio di immagini completamente inedite a cui attingere e l’arte non rincorre più il bello, ma gli abissi putrescenti dell’essere umano, punta alle sue interiora. Negli anni a seguire, l’ossessione per il corpo umano si riversa a cascata dalla tela sulla pellicola, prima fotografica e poi filmica, si smaterializza facendosi luce invece che materia, ma esplorata in forme ancora più intrusive. 

 

 

Bisogna aspettare però l’avvento del cinema underground e il collasso dello studio system per sorpassare la grande perversione della negazione imposta della censura del Codice – ma già il cinema d’avanguardia, prima della stretta dei catto-destrorsi terrorizzati da sesso e comunismo, quel corpo appena immortalato aveva provveduto a seviziarlo e a  sezionarlo: certo, era un uovo sodo e non un occhio vero (da Un chien andalou a Brand New Cherry Flavor, con tutto quello che ci sta in mezzo), ma il suo compito lo svolge egregiamente ancora oggi. A ritroso da allora, e poi ancora avanti fino ai giorni nostri, quella del corpo e dell’identità è un’ossessione ancestrale, al tempo stesso protagonista e interrogativo della narrazione umana. Le prime sculture che rappresentano il corpo umano risalgono ad almeno 40.000 anni fa, e già erano corpi simbolici, investiti di significati misteriosi e altri. Da Buñuel a Tsukamoto il passo (e l’intervallo) è brevissimo.

 

Come la ballerina di Degas, la protagonista di Titane esibisce le sue mutazioni – fisiche e morali – per seminare disordine e caos negli scenari della famigliarità borghese, insidiandosi nel solco del mito dell’eterno ritorno, come una divinità in fuga tra i lapilli di un armageddon contemporaneo, tra danze rituali, appetiti (letteralmente) sessuali e atti di sadismo viscerale. E in quanto ciclo cosmico archetipico, contiene una creazione (l’incidente in auto e l’operazione), un’esistenza (gli omicidi, la fuga, la nuova identità) e un ritorno al caos che altro non è che l’avvento di una nuova era, di una nuova specie (in finale, la nuova creazione che cancella la vita precedente). 

 

 

Nonostante la sua facciata distruttiva, questa Palma d’Oro è piuttosto la manifestazione di una restaurazione – post-apocalittica – del cinema classico, o di una delle sue possibili incarnazioni. Corrosiva solo all’apparenza, si rivela forsanche reazionaria.
In Raw, il suo lungometraggio d’esordio, il tono di Julia Ducourneau tendeva a dimensioni vaghe, rarefatte quasi, con un orrore, nei suoi meccanismi, sfuggevole (senza risparmiare scene di cruenta fisicità e di schifoso godimento) e sostenuto da una narrazione costruita cadenzando vuoti e pieni. Qui, al contrario, come fosse un suo pendant ipersaturo, sotto steroidi, prende il sopravvento una messa in scena barocca e frastornante, a discapito di una narrazione consequenziale molto di limpida chiarezza (pur nell’assurdo del mondo tossico e sconquassato in cui si muove). 

 

L’eccesso è la cifra su cui il film costruisce la propria identità, visiva e narrativa: seguendo le vicende di una ballerina serial killer che scopa con le automobili sappiamo che potrà accadere di tutto e ancora peggio. Il suo ovviamente è un corpo trans-umano, titanico per l’appunto, in fuga per la salvezza diventa uomo, come Írisz Leiter nel finale – simbolico ed esplosivo – di Tramonto, il film di László Nemes passato a Venezia tre anni fa, che sotto le mentite spoglie dell’opera in costume racconta della distruzione di un sistema di valori socio-politici e identitari svelandosi, sequenza dopo sequenza, come un grandioso esempio di cinema sottosopra, ardito più che spavaldo. Titane è esattamente il contrario, spavaldo ma non ardito: non c’è mistero (o perversione) e quindi emozione alcuna in tutto ciò che di esasperatamente e volutamente aberrante viene raccontato, restano celati i sentimenti dei suoi personaggi, spesso imperscrutabili, contraddittori o quantomeno irrazionali. Talvolta sono violenti ed esplosivi (letali, istintivamente assassini), altre volte di una dolcezza inquietante dove il filiale si confonde col nuziale, la repulsione con il desiderio. Questo nucleo resta però inesplorato, soffocato. 

 

Ci sono momenti notevoli: Julia Ducournau possiede un mestiere non indifferente e una visione chiarissima del cinema a cui vuole dare forma. In un’autorimessa un gruppo di pompieri nerboruti, sudati e ipertestosteronici, si accalca come in un rave dove bicipiti e mascelle mascoline risaltano nella semioscurità animata da flash lascivi, a ritmo di musica elettronica, travestita come uno di loro, ma dall’aspetto più emaciato e malmesso, la danseuse assassina si lascia andare a movenze sensuali che rivelano la sua sinuosità femminile, erotica, lasciva e oltraggiosa: tra la folla virile l’entusiasmo scema, sale lo sconcerto, in atto c’è un meraviglioso cortocircuito di disagio e malessere. Qui il piano si inclina, ma dura un attimo soltanto. 

 

 

La contraddizione di Titane sta nel suo prendere corpo nella forma di un film tutto sommato tradizionale: un prodotto che maschera con la foga – più ancora che con la violenza, mai realmente esibita fino in fondo, fatta eccezione per un paio di stilettate iniziali da distogliere lo sguardo – un vuoto lessicale che soffoca il suo al nucleo sentimentale (isterico, pervertito, pietoso e vitale) con una regia ordinaria che predilige luci al neon da neo noir (ormai vecchio di quarant’anni) e che finge di sporcarsi le mani, ma senza mai spingersi oltre il limite consentito. 

 

Sotto la maschera della pellicola squinternata e ribelle c’è una costruzione derivativa, nei temi e nei modi, senza guizzi, senza follie, dove tutto appare come un trucco, vuoto e già un po’ stantio rispetto ai suoi apparenti intenti terroristici; impossibile non riconoscergli un carattere perentorio – questo sì, forse autoritario– ma che non basta a spingere il film verso quel cinema “altro” cui sembra voler anelare. Fallisce laddove Pablo Larraín con Ema ha (quasi) centrato il bersaglio: dare corpo a una femme fatale distruttiva, non delle carni ma di un sistema di valori – come a suo tempo la Susan Vance/Katherine Hepburn di Susanna!, che non era una dark lady ma che, con altri strumenti, arrivava allo stesso risultato. Il film di Hawks è un perfetto esempio di classico sovversivo; al contrario, Titane è un sovversivo classico

 

Titane trasuda ambizione: è questo, forse, a destabilizzare più dell’orrore, evidentemente confonde tanto da premiarlo con il più ambito dei trofei. È un film che vince facile perché si presta a letture (e, meglio ancora, a scritture) contemporanee, ma non intercetta la contemporaneità grazie al compimento della forma, ma grazie alle sue intenzioni: cosa che, in effetti, più contemporanea di così non si può. 

Eppure, anche (anzi, soprattutto) la contemporaneità è destinata a passare, e Titane non sembra avere le caratteristiche per resistere alla prova del tempo. Chiede tutto per sé, o zero o dieci. Non potendo concederglielo, è più onesto non riconoscergli nulla. 

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